Sembrava un’alba di una nuova epoca e si sta rivelando il tramonto di un’illusione. Ad un anno e mezzo dall’inizio del celebrato sciopero di Hollywood, dove attori e sceneggiatori incrociarono le braccia per quattro mesi, il bilancio non appare lusinghiero.
Il 2 maggio del 2023 i due sindacati più importanti degli attori- Screen Actors Guild-American Federation of Television and Radio Artists (SAG-AFTRA), con più di 65 mila iscritti- e degli sceneggiatori – Writers Guild of America (WGA) con 11 mila aderenti – dichiararono guerra non solo agli Studios, la potente lobby dei produttori cinematografici, ma misero nel mirino direttamente le piattaforme che ormai signoreggiano sui nostri schermi, non solo distribuendo ma producendo ormai la grande maggioranza dei film e fiction.
I sogni sfidavano i segni. I produttori del nostro immaginario si ribellavano alla dittatura degli algoritmi, i segni digitali. Le rivendicazioni riguardavano una riqualificazione delle retribuzioni di quella moltitudine di figure minori dell’audiovisivo e una stabilità normativa e previdenziale. Il ring dove, però, si è combattuta la battaglia dei giganti era rappresentato dallo streaming, ossia da quelle piattaforme che distribuiscono ormai il 90% dei contenuti più pregiati in una modalità on demand, frantumando ogni platea di massa sia della Tv che del Cinema.
La bandiera di questa battaglia sono stati i cosidetti “residuals”, ossia i diritti per le repliche dei film. Come ben sappiamo, finchè ha dominato il ciclo produttivo analogico, con TV e Cinema tradizionali, le repliche erano facilmente documentabili dai rispettivi palinsesti che programmavano la messa in onda di questo o quel titolo. Ma con lo streaming, che personalizza ogni visione di ogni prodotto , tutto è saltato.
Per documentare quante volte e per quanti utenti una pellicola, chiamiamola ancora romanticamente così, è stata vista, e dunque contabilizzare i relativi residuals, bisogna avere i resoconti dei data server dove si depositano i dati delle piattaforme. Per questo il primo, e fondamentale, scoglio, su cui si sono contrapposti i sindacati di Hollywood e i brand digitali, è stata la questione dell’accesso ai dati.
Dopo un anno dall’intesa, che era stata festeggiata come una vittoria dalle due organizzazioni sindacali, i progressi sono davvero pochi, per non dire nulli: i dati non sono stati in nessun modo condivisi. Senza norme e leggi internazionali che possano valere su tutti i mercati di commercializzazione appare difficile riuscire a costringere i grandi gruppi proprietari di piattaforme e dei data server a cedere il loro monopolio sui dati.
Qualche passo in avanti era stato fatto negli ultimi mesi della presidenza Biden con l’Ordine che il Presidente ormai in scadenza aveva firmato sul tema dell’intelligenza artificiale, riconoscendo come i dati sono beni comuni e come tali condivisibili. Ma oggi con l’arrivo alla Casa Bianca dell’accoppiata Trump/Musk sembra che l’aria anche su questo tema sia destinata a cambiare, e non certo in maniera favorevole per i produttori.
Non meno bene sta andando sull’altro fronte caldo, quello dell’intelligenza artificiale, lo spauracchio che aveva fatto arruolare attori e sceneggiatori nelle fila del colonnello Ludd, il mitico comandante che all’inizio dell’800 a Manchester era evocato da chi si opponeva all’introduzione dei nuovi telai a vapore che distruggevano il lavoro. A distanza di 12 mesi, l’intesa sindacale firmata dalle parti, che precisa come un attore possa controllare e negoziare l’eventuale uso di sistemi di intelligenza generativa che duplicano forme e voce dello stesso attore è rimasto lettera morta.
La pressione di queste tecnologie non sembra arginabile. Sono infinite le testimonianze di attori che raccontano come i loro agenti sono stati minacciati di cancellazione dei contratti di ingaggio se non fosse stata sottoscritta la liberatoria che autorizza la casa di produzione ad avere mano libera in materia di riproduzione digitale sia della voce , nel doppiaggio, ma anche delle stesse sembianze dell’interprete, qualora si dovessero registrare nuove scene. Siamo ad un vero giro di boa. In discussione non è questa o quella norma sindacale ma l’idea stessa del cinema come prodotto destinato a grandi masse di fruitori che condividono la stessa opera, quello che si chiama Broadcasting, da uno a molti.
Non è un caso che l’atto di acquisto della collina di Hollywood da parte dei signori Wilcock che pensarono di costruire i primi studios per quella nuova industria delle immagini che si stava sviluppando sulla costa orientale del paese, è datato 1903, lo stesso anno in cui Henry Ford sperimenta la sua catena di montaggio per razionalizzare l’industria automobilistica.
Cinema e fordismo sono l’uno figlio dell’altro come modello organizzativo, e l’uno come l’altro vivono malinconicamente la transizione verso un nuovo modello, virtuale e a rete, dove automaticamente si producono infiniti contenuti per infiniti utenti. Il motore di questa evoluzione della specie è quello che il grande sociologo ormai scomparso Zygmunt Bauman considerava come la vera differenza fra il XXI° secolo e quello precedente: la pretesa di dare dignità e riconoscimento all’ambizione di ogni essere umano ad essere diverso invece che simile ai suoi vicini.
Ed è questa pretesa di diversità che richiede prodotti sempre più aderenti al nostro singolo profilo che rende indispensabili quel petrolio del nostro tempo che sono i dati. Concretamente vediamo come questa mediamorfosi stia ormai dilagando, proprio sulla spinta di una domanda sociale che chiede produzioni sempre più diversificate e numerose ed a costi accessibili, che solo meccanismi automatici , guidati dall’intelligenza artificiale possono realizzare.
Proprio nei giorni in cui cadeva l’anniversario dell’accordo sindacale a Hollywood, è arrivata la notizia della cooptazione di James Cameron, il mitico regista di Titanic e Avatar, nel CDA di Stability AI, società di IA che ha come mission ‘plasmare il futuro di tutti i media visivi’. Ma senza allungare troppo il collo verso gli States, esempi chiari li abbiamo anche sotto il nostro naso, proprio in Italia.
La Mostra di Venezia negli ultimi due anni è stato un sensibile sensore di questa transizione dall’analogico al digitale del ciclo cinematografico. Protagonista principale Harmony Korine,regista californiano, figura cardine del cinema e della musica indipendente degli anni duemila. L’anno scorso propose fuori concorso ‘Aggro Dr1ft’ ,un lungometraggio girato interamente con macchine da presa ad infrarossi dove l’intelligenza artificiale riorganizzò tutta la fase della post produzione, tramite imaging 3D, computer grafica e tool IA per rendere le immagine più intellegibili ad occhio umano, similmente ad una fluoroscopia. Gli algoritmi furono usati anche per generare tutti i VfX presenti nel film.
Quest’anno lo stesso autore è stato nuovamente invitato, ed ha presentato ‘Baby Invasion’,dove l’Intelligenza artificiale l’ha fatta da padrone nell’intera filiera di produzione, fin dalla elaborazione e prototipazione dei primi story board. Soggettisti, sceneggiatori, direttori della fotogragfia, operatori di ripresa , montatori, e doppiatori, hanno , in questa prima fase, semplicemente assistito all’automatizzazione della produzione, controllando che il flusso operativo scorresse in maniera corretta. Ogni figura professionale ha certificato che la macchina stava sostituendolo perfettamente.
Ogni tanto il regista chiedeva quello che si definisce l’human touch, il tocco imperfetto, per dare un calore più originale e meno standardizzato all’opera. Gli artigiani erano pagati per “sporcare” la perfezione.
Quanto mai indicativo il fatto che cornice e anima di questa nuova strategia dei fabbricanti del nuovo cinema “aumentato”, possiamo dire, dove ogni singola funzione viene realizzata da protesi addestrate, sia il mondo del gaming e delle videopiattaforme come TikTok e YouTube, il regno dell’individualizzazione dell’utente, in cui ognuno si trova da solo a impaginare il suo programma. In questo scenario, Korine ha spiegato di aver cercato di «immaginare cosa verrà dopo il cinema».
E dopo il cinema c’è appunto un’altro modo di produrre e condividere emozioni. L’opera di Korine non è una pura esibizione tecnologica, per farci vedere quanto è bravo con l’intelligenza artificiale, ma è un modo, al momento l’unico che appaia praticabile, per scardinare il tradizionale linguaggio filmico e poter così inseguire il suo pubblico, il suo target, che ormai diserta la sala di proiezione, e si raccoglie più abitudinariamente, nei club e nelle discoteche. Del resto abbiamo visto come la diversità, di cui parlavamo prima, degli utenti abbia già squassato ad ogni latitudine il sistema della TV.
Il mercato delle reti generaliste, la famosa televisione del divano, è stato attaccato e sfibrato dall’offerta dello streaming, che ha riclassificato l’intero sistema utente, spostando il consumo del broadcasting su schermi mobili, dal computer al telefonino. Ora lo streaming sta guardando con grande cupidigia al ciclo cinematografico. Se ne è accorta anche la vecchia Zia di Viale Mazzini, la Rai che sulla sua piattaforma streaming, Raiplay, sta proponendo nuove soluzioni filmiche, che permettono ad ognuno di sintonizzarsi quando e come vuole, svincolato da ogni rigidità di palinsesto, o di programmazione generale.
Fra i nuovi titoli “intelligenti” il cortometraggio “Cassandra “, il primo episodio di una serie transmediale co -prodotta da Rai Cinema insieme alla Scuola Holden , sotto la direzione di Riccardo Milanesi di Holden.ai Storylab. O ancora, il film realizzato con un largo ricorso all’intelligenza artificiale : Miss Polly had a Dolly, diretto da Pietro Lafiandra , Flavio Pizzorno e Andrea Rossini, ancora per rai Cinema. Nessuna immagine di quanto si vede in video è frutto di riprese o di tecniche di animazione tradizionali.
Nessuna voce è stata registrata o campionata: la vocalizzazione di Scarlett Johansson e Peter Weller, i due interpreti di maggior risonanza, è il risultato di una clonazione partorita da reti neurali. Ovviamente con il pieno consenso degli interessati. Gli algoritmi sono intervenuti anche in fase di sceneggiatura e nella produzione delle musiche, elaborando soluzioni in base ai dati di riferimento che descrivevano il gradimento del campione di spettatori che era stato individuato. E’ come se un’azienda di confezioni seriali, di pret a porter si trasformi in una gigantesca boutique che lavora, con una serie di robot, su milioni di profili individuali. A ognuno il suo, automaticamente.
Il punto critico di questa rivoluzione, che nessun Colonnello Ludd potrà deviare, è l’interferenza che il sistema tecnologico esercita sui contenuti, abilitando i dispositivi di intelligenza artificiale a pensare e parlare in base ad una certa attitudine cognitiva ed etica. L’altro aspetto che sta emergendo è una certa omologazione dei prodotti, se realizzati con modelli tecnologici simili e affini.
In entrambi i casi l’unico rimedio , e questo riguarda anche le strategie dei sindacati di Hollywood, è quello di intervenire nella fase dell’addestramento. Non si può fotografare un giaguaro che corre nella giungla, bisogna aspettarlo agli stagni, quando va ad abbeverarsi. La partita fra proprietari delle piattaforme e la grande area del lavoro intellettuale dell’immaginario resta proprio nella capacità e pretesa di contrattare la fase della personalizzazione del sistema fornendo contenuti e materiali per trasferire alla macchina il proprio senso critico. Come ci ammonisce Jen Huang, l’amministratore delegato di Nvidia, la più innovativa azienda di microchip del mondo: “Non sarà l’intelligenza artificiale a rubarci il lavoro, ma lo farà piuttosto chi userà l’intelligenza artificiale meglio di noi” .
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