Claudia Gerini, premiata al Capri, Hollywood Fest, si racconta a The Hollywood Reporter Roma

L’attrice parla del suo nuovo thriller, Corpo, ma anche del film di Dario D’Ambrosi sull’uso della teatroterapia, Io sono un po’ matto, e tu?

“Sto vivendo un momento felice. Ho fatto più di novanta film, ho spaziato in tutti i generi, dalla commedia al dramma all’horror. Mi sento bene con il mio corpo, con la mia età. Ho due figlie meravigliose, Rosa e Linda. L’unico sogno che potrei realizzare sarebbe quello di prender parte a progetti anche fuori dai confini italiani”. 

Claudia Gerini parla con The Hollywood Reporter Roma mentre camminiamo per le strade di Capri. Si sta svolgendo il festival “Capri, Hollywood”, dove Claudia ha ricevuto il premio come miglior attrice. Al festival ha presentato due film, Il corpo di Vincenzo Alfieri, uscito il 28 novembre scorso, e Io sono un po’ matto, e tu? di Dario D’Ambrosi, uscito il 7 ottobre scorso come evento speciale. 

Dietro i capelli di Claudia, lo scenario inconfondibile dei Faraglioni, gli scogli conficcati nel mare azzurrissimo, che da secoli sono il simbolo di Capri. I gabbiani sullo sfondo lanciano qualche grido. Con Thr Roma, Claudia parla dei suoi due ultimi film usciti, ma anche di quelli a venire, della presenza femminile nel cinema di oggi. E della sua esperienza con le arti marziali coreane. 

Partiamo dal Corpo. Un thriller che parte con un cadavere. E quel cadavere è il suo…

“Sì! E c’è una scena in cui affronto un nudo, un nudo certamente non volgare. Diciamo un nudo ‘obitoriale’, perché all’inizio del film sono morta! Non si tratta di uno spoiler, perché tutto il film parte da lì, e si evolve in maniera imprevedibile”.

Deve dare volto, nel film, anche a stati d’animo complessi. Il suo personaggio è quello di una donna che non si sa se domina o se è dominata.

“Esattamente: sono la moglie di un uomo molto bello, molto giovane, di grandi aspirazioni. Lo aiuto a fare carriera, e in un certo modo lo manipolo. Ma nel gioco fra i due, non si riesce a capire chi sia vittima e chi sia carnefice: e devo rendere visibile anche la mia paura di perderlo, di perdere il potere di seduzione su di lui”.

Io sono un po’ matto, e tu? è un film che vede coinvolti molti attori, per un progetto nobile. Come è entrata nel progetto?

“Per la grande stima che ho, da tempo, per Dario D’Ambrosi e per il suo lavoro, per il suo sogno – in gran parte riuscito – di usare il teatro come terapia per molte patologie mentali. Il suo sogno è quello di portare tanti ragazzi a ritrovare il contatto con la realtà, ad uscire dalle proprie nevrosi e psicosi, grazie all’espressione, alla comunicazione, al teatro. Io e molti altri colleghi, da Claudio Santamaria a Stefania Rocca, da Edoardo Leo a Vinicio Marchioni, da Marco Bocci a Stefano Fresi e molti altri ancora, abbiamo partecipato al film con l’entusiasmo che meritava”.

Mi ha colpito che, tempo fa, abbia tenuto una lactio magistralis alla Luiss sul tema della fragilità. Che cosa è per lei la fragilità?

“Viene vista come una debolezza: io penso che sia anche una forza. Viviamo in una società che vuole solo il successo, solo la vittoria, solo la forza. Ma la fragilità ci permette di vedere meglio il mondo, gli altri, di vederli in modo più profondo. La fragilità è una risorsa”.

Però è meglio anche essere forti. Magari praticando il taekwondo, di cui lei è cintura nera?

“Ahaha! È nato tutto per caso, da un istruttore in palestra che mi ha mostrato alcuni ‘calci’ di questa disciplina coreana, di cui è un appassionato anche il vostro direttore Alan Friedman. È nata, la mia passione, in un momento in cui con le bambine piccole volevo sentirmi più sicura, girando per le strade. E adesso mi sento molto più libera”. 

È una disciplina tutta basata sulle gambe, più che sulle braccia…

“Sì: si danno anche dei piccoli pugni, ma la forza è nel calcio, in quei calci che si danno con la giravolta. È una questione di equilibrio e di concentrazione. Adesso sono diventata cintura nera di questa disciplina. Ma è nato tutto dal pensiero che mi dava attraversare un parco, da sola con le mie bambine”.

A proposito di bambini, lei da tempo lavora con associazioni umanitarie che curano e seguono bambini nel mondo. Quali associazioni?

“Si chiamano Help Code e Action Aid: lavorano su adozioni a distanza, curano l’assistenza sanitaria e l’educazione scolastica di bimbi che vivono in villaggi sperduti nell’Africa. Io stessa sono andata a visitarne alcuni, in Tanzania. Ho toccato con mano la situazione di estrema emergenza in cui vivono quelle popolazioni, con le donne che davvero sono sottomesse, in una società di patriarcato antico ed estremo”.

Parlando delle donne nel cinema, invece, e del loro ruolo, pensa che finalmente si sia raggiunta una parità di genere?

“Finché si parlerà di ‘donna regista’ non si sarà raggiunta una vera parità. Ma si sono fatti passi da gigante: prima c’erano solo Lina Wertmuller e Liliana Cavani, ora ci sono tante registe donne, una delle quali rappresenta il nostro paese agli Oscar, e speriamo che prosegua il più possibile questa fantastica corsa”.

Il prossimo film in cui la vedremo?

“E’ un film dei Manetti Bros. girato in Calabria, U.S. Palmese: uscirà il 20 marzo prossimo. Uno di quei film da cui esci pensando che in fondo la vita potrebbe davvero essere migliore. Per interpretarlo, questi due fratelli pazzi e meravigliosi mi hanno chiesto di recitare in dialetto palmese: non un generico ‘calabrese’, ma proprio il dialetto di Palmi. Spero di esserci riuscita!”. 

Le lingue, in realtà, le padroneggia molto bene: spagnolo, francese, inglese – ne ha dato prova nella serie In the Scratch, per esempio. Ha progetti internazionali in mente?

“Sarebbe il mio sogno. Ho partecipato a qualche film internazionale, come John Wick 2, e lavorando con troupe americane ho notato quanto sia forte il rispetto per gli attori e per il loro lavoro. Anche se fai una cosa piccolissima, la tua professionalità viene notata e rispettata. In Italia a volte ce la metti davvero tutta, cerchi di reinventarti in mille modi, e sembra sempre che tu non abbia fatto niente”. 

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