C’è una scena, già iconica, in Povere creature! in cui la protagonista Bella Baxter balla. Balla come una forsennata. Balla libera, senza aver paura di essere giudicata. Balla dimenandosi e balla anche quando il suo accompagnatore, Duncan Wedderburn di Mark Ruffalo, cerca di imbrigliarla, facendo sottintendere che è l’uomo che conduce, signorina, mentre la donna non vuole lasciarsi guidare affatto. Bella balla nel modo più autentico che possa esistere. Balla come qualcuno che non sa cosa significa ballare.
È esattamente così che la protagonista del film, dall’omonimo libro di Alasdair Gray, impara a stare al mondo. Semplicemente… stando al mondo. Donna morta suicida il cui corpo è stato recuperato dalle rive di un fiume, a cui viene impiantato il cervello del feto che porta in grembo, Bella è interpretata da Emma Stone.
Una protagonista che incorpora non solo la materia grigia di un embrione, ma lo stato intellettivo (e, di conseguenza, anche emotivo) della vita che le stava crescendo in pancia, portando all’ovvia conclusione che il percorso di Bella nel film ripercorre le varie fasi della vita di una persona. E, nello specifico, nell’esistenza sentimentale, esperienziale, intellettuale di una donna.
Se tutti ci sentiamo Bella Baxter – uomini, donne, chiunque sia – Bella Baxter sarebbe potuta essere impersonata da una persona sola. Anzi, incorporata. È ciò che fa Emma Stone, vincitrice del Golden Globe, del Critic Choice e del suo secondo Oscar, che come la sua protagonista offre il proprio corpo per una causa superiore. Bella per imparare cos’è il piacere, personale e condiviso, il valore del lavoro (sì, anche il lavoro delle sex worker ha valore) e soprattutto cosa significa avere un proprio posto nella vita – letteralmente: occupare uno spazio – mette al centro il suo corpo. Un involucro che tocca, odora, subisce e agisce.
Piacere, Bella Baxter
Quando la conosciamo è una bambina. Non nell’aspetto fisico, ovviamente. È la mente di una bambina in un corpo di donna. Di conseguenza va a sbattere, cade, non sa stare in equilibrio. Ha anche difficoltà a parlare, ma sono i movimenti che disturbano. Sono scoordinati, come non dovrebbero essere quelli di una persona bella e formata. C’è una dissonanza visibile, inquieta nell’apprendere come spostarsi da un posto e l’altro delle stanze che abita insieme al padre/creatore Godwin Baxter – suo personale “Dio”.
Stone è perfetta nelle imperfezioni dell’infanzia. Si contorce, spalanca gli occhi, non chiude mai la bocca. È continuamente sorpresa e il suo corpo si esalta in sussulti, salti, giravolte. Non sa parlare, non ci riesce ancora. E anche il suo corpo, metà bambina, metà bambola, è immaturo, dalle gambe e braccia lunghe, tese perché ancora non sanno come piegarle. Una marionetta nelle mani del regista Yorgos Lanthimos.
“Sono una festa di cambiamenti”, comprende Bella. E nell’acquisire le prime nozioni di conoscenza, arriva di conseguenza la prima consapevolezza che ha del suo corpo. Ma la sostanza non cambia. La bocca si chiude, gli occhi rimangono spalancati, ma assumono una nuova lente indagatrice, e la protagonista comincia a denudarsi.
Acrobazie sessuali
Scopre che si può stare bene anche nudi, magari in un letto, sotto le coperte, a saltellare su un uomo con cui comincia a sperimentare le prime acrobazie sessuali. Il suo corpo cambia. Non ha ancora una camminata decisa, sicura. È più circospetta, osserva ciò che ha attorno con curiosità, anche se continua a mangiare riempendosi la bocca fino a scoppiare. È un corpo adolescenziale che sta diventando quello di una donna. Sempre mentre donna, all’esterno, lo è già.
Le servirà il viaggio a Lisbona – palcoscenico della famosa danza – una crociera e una capatina a Parigi per trasformarla e fare in modo che l’età del suo cervello arrivi in corrispondenza con l’età del suo corpo. Da lì le acrobazie continueranno: in una casa chiusa nella capitale francese, nel ritorno al nido familiare, in un tuffo nel suo passato e nella promessa di un futuro più libero, autonomo. Nella tappe di cambiamento di Bella, Stone si plasma a ogni esigenza di sceneggiatura, a ogni nuova fase della sua esistenza.
Nel cinema contemporaneo nessuno ha l’espressività della vincitrice dell’Oscar per La La Land e Povere creature!. Nessuno sembra fatto di gomma, esattamente come lei, e nessuno è più disposto dell’attrice originaria dell’Arizona a mostrarsi ridicola. Di un ridicolo che è riflesso della realtà, in cui non si è impeccabile a ogni passo fatto, a ogni faccia fatta durante le giornate. Ci stracciamo, stropicciamo e Emma Stone porta al massimo un tale livello di stramberia, che è il medesimo di cui qualsiasi persona si vergognerebbe, figurarsi di fronte alla macchina da presa. Da questa sua inibizione, scaturisce il più prezioso talento. Puro, come il cammino di crescita di Bella.
Emma Stone e la scuola Charlie Chaplin
Se in Povere creature! la recitazione corporale è focale, Stone non si è mai tirata indietro anche quando le altre pellicole della sua carriera richiedevano un’autonomia sciolta e galoppante. Anche nelle piccole cose. Era stato soprattutto col volto che l’interprete aveva esagerato espressioni, strabuzzato lo sguardo o fatto smorfie su smorfie.
Come la presa in giro nei conforti di Sebastian in La La Land, quando Mia fa suonare alla sua band I ran e lo sbeffeggia da lontano – per non contare le scene coreografate per lei e il compare Ryan Gosling, non propriamente ballerini e per questo pronti alla sfida dei momenti da ballo.
Ma c’è anche una sequenza in Easy A di Will Gluck in cui, avvenuta sempre una metamorfosi, la protagonista Olive/Emma sfila per i corridoi della scuola, in una gara di frecciatine con un’amica diventata sua rivale, che mette a tacere con un sonoro “Burn!” (“Brucia!”). La sua espressione, in quell’istante, è da incorniciare. È storta, è esagerata, fa di tutto per far passare il messaggio: Olive vuole calarsi a fondo nella sua nuova (e finta) natura da peccatrice, stile La lettera scarlatta.
E il pieno controllo di quella rotta slapstick che fa di Emma Stone una delle poche interpreti che non ha paura di caricare la sua recitazione. In cui ha trovato la chiosa ne La favorita, non a caso sempre di Lanthimos, e che la rende ufficialmente la personalità circense del cinema moderno, il clown nell’accezione alla Charlie Chaplin, dove la macchietta, seppur naturale, è la maniera per dare personalità ai suoi personaggi. È l’Arlecchina di Hollywood, la saltimbanco a cui si potrebbe chiedere qualsiasi capriola o piroetta, e che la eseguirebbe senza opporsi, facendo al di più una delle sue moine.
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