Pupi Avati non vuole guardare indietro nel tempo, non ha un piano B e ci confida i Suoi Timori Per un Futuro sempre Più Artificiale

Il Maestro Pupi Avati, regista visionario nonché straordinario narratore, ci ha parlato con passione ai microfoni di The Hollywood Reporter Roma, condividendo aneddoti, ma soprattutto riflessioni profonde sul concetto di memoria e tempo, e di come l’intelligenza artificiale possa mettere a repentaglio i confini della nostra realtà. 

Di THR ROMA

Prolifico regista, sceneggiatore, produttore e scrittore, Pupi Avati non ha mai avuto un “piano b” nella sua vita. Dopo una breve carriera da jazzista, negli anni ’60 esordisce dietro la macchina da presa, imponendosi nell’arco di breve tempo come figura centrale nel panorama cinematografico contemporaneo. Da allora, ha realizzato oltre 50 film, spaziando tra generi diversi come il thriller psicologico, il dramma, la commedia e il cosiddetto gotico padano. Tra i suoi film più noti ricordiamo La casa dalle finestre che ridono (1976), Zeder (1983), Regalo di Natale (1986), L’amico d’infanzia (1994), La rivincita di Natale (2004), Il signor Diavolo (2019) e Dante (2022), progetto a cui ha lavorato per quasi vent’anni. Numerosi anche i libri da lui scritti; come Il ragazzo in soffitta (2016), L’alta fantasia (2021) e L’orto americano (2023), senza contare le oltre sessanta sceneggiature ― inclusa quella di Salò o le 120 giornate di Sodoma, la controversa pellicola di Pier Paolo Pasolini (per la quale non è mai stato accreditato).

La memoria è un tema ricorrente nelle sue opere, pensiamo soltanto all’autobiografico La quattordicesima domenica del tempo ordinario. Potrebbe spiegarci il motivo? 
Probabilmente perché dentro di me è rimasto molto presente quel bambino, quel ragazzino, quell’adolescente che sono stato e insieme al quale ho affrontato tutte le difficoltà dovute alla situazione sociale di un Paese che a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 stava uscendo dalla guerra. Io ho vissuto la guerra quand’ero piccolo e ne ho un certo ricordo, ma soprattutto ho il ricordo di un momento di grande fulgore che fu la liberazione. In quei giorni si respirava l’aria di un’Italia che via via stava ricostruendosi, con voglia ed entusiasmo. Allora avevamo la possibilità di sognare un nostro futuro senza alcuna censura, senza che nessuno potesse impedircelo, a discapito di quanto accade oggi. Io sono rimasto molto legato a quel modo antico di vedere le cose. È per questo che nelle mie opere cerco di proporre un confronto con quello che è il presente; per non dimenticare, per portarlo sempre dentro, per ‘taroccarlo’ come si dice in gergo. Nel senso che in molti dei miei film, penso a Una gita scolastica e a Jazz Band, sono stato estremamente indulgente nei riguardi del mio passato, perché non è stato ovviamente tutto rose e fiori. È evidente che allora non ero così incautamente felice, però mi piace pensare di esserlo stato. Questa è una forma di maturità, ma anche d’ingenuità e infantilismo dei quali vado estremamente orgoglioso”.

Il Maestro Pupi Avati col suo clarinett0

Quanto è stato importante per lei girare il film su Dante Alighieri?
La si può considerare una scommessa. È stata la mia caparbietà di fronte ai continui ‘no’ dei vari dirigenti e committenti susseguitisi nel tempo, a spingermi in continuazione a proporre la mia idea. Vederla ogni volta rifiutata, anziché demoralizzarmi, mi ha indotto a pensare che fosse necessario insistere per portarla avanti. Incredibile come le persone che secondo me avrebbero dovuto supportarmi erano invece le prime a rimandare sempre, temendo che un’operazione del genere fosse destinata al naufragio. Io ero pienamente convinto che non si dovesse valutare Dante in ottica commerciale, bensì culturale. Credevo oltretutto che un servizio pubblico come la Rai dovesse avvertire la mia urgenza non solo verso Dante, ma anche nei riguardi di altri personaggi. Basta leggere il libro di Natalia Ginzburg, La famiglia Manzoni, per rendersi conto quanto la vicenda di Alessandro Manzoni non assomigli alla sua opera, ma sia invece una sorta di calvario che la scuola italiana ha da sempre evitato di raccontare. Manzoni sarebbe proprio un altro personaggio a meritare di essere raccontato umanamente”.

Il coraggio che traspare dalle sue parole si riflette anche nelle sue scelte di cast. 
A questo provvede soprattutto mio fratello che ha una conoscenza dell’offerta più vasta, poi però un senso di provvidenza mi accompagna nel pensare che ci sono degli attori che meriterebbero di avere una loro opportunità e che magari non l’hanno ancora avuta o che l’ebbero in tempi remoti, prima di essere completamente rimossi. Penso che coinvolgere ― e non parlo solo della scelta degli attori, ma di tutti i collaboratori ― quelle persone che in questo momento stanno vivendo un grande successo sia assolutamente sbagliato. Perché psicologicamente ti portano una sorta di eccesso di sicurezza e la sensazione che siano quasi loro a farti fare il film. Invece se tu vai a cercare delle figure che magari vivono un momento opaco, queste finiranno per offrirti molto di più, perché vedono in questa opportunità la possibilità di essere in qualche modo risarciti e di tornare in pista. Psicologicamente sono quindi più determinati, c’è un’energia diversa rispetto all’attore di successo che arriva sul set con una sorta di autocompiacimento”.

Sia nella sua produzione cinematografica che letteraria vi è spesso il ritorno di elementi gotici ed esoterici. Per quale motivo?
Da sempre mi accompagna l’idea dell’altrove e del mistero, di qualcosa che va oltre la realtà. Per come noi la concepiamo, ha dei confini molto limitati. Per certe persone la realtà si risolve nel dibattito sociale e politico. Una volta la spiritualità, per quanto autentica, condivisibile o meno, portava l’essere umano a immaginare che ci fosse ben altro oltre di essa. Un tempo si pensava infatti che il mondo fosse molto più grande. Adesso la tecnologia anziché dimostrarci che il mondo è più grande, ci dimostra che è molto più piccolo in quanto risponde alle nostre esigenze primarie. È evidente che la tecnologia compie dei miracoli, ma sono anche miracoli nefasti. Pensiamo ai grandi rischi dell’intelligenza artificiale, di quando noi confonderemo la creatività naturale dell’essere umano ― che è capace di soffrire, di vergognarsi, di nascondersi, di reinventarsi e di gioire ― con un’intelligenza artificiale che mira sempre e soltanto al meglio di quello che conosce, ovvero qualcosa di limitato, ciò per cui è stata programmata. Io non voglio continuare a guardarmi indietro, ma pur pensando a epoche di confusione come il Medioevo, in cui tutto era sacro e il miracolo era possibile, oggi siamo costretti a confrontarci con una società che non crede più a nulla. Questo proselitismo laico ha fatto sì che il nostro pensiero sia più limitato, legato esclusivamente al concetto di: tutto, ora, in questo momento e per quello che mi conviene. Ecco perché come spiegavo prima, la realtà oggi ha dei confini molto limitati. Penso che il racconto gotico, così come quello che improvvisamente si spalanca sull’improbabile, siano invece preziosi. Pur partendo da un inizio credibile, il percorso diventa via via sempre meno verosimile, ma tu continui a crederci, ti spaventi e inizi persino a credere che un prete possa diventare una donna o una donna essere un prete, proprio come nel caso de La casa delle finestre che ridono. Questo era il racconto delle nonne, delle zie, il racconto della cultura contadina che si spalancava sull’improbabile, sull’inverosimile… e noi ci credevamo”.

Maestro, in chiusura, a cosa sta lavorando in questo momento?  
Sto realizzando una docu-fiction sulla storia della radio italiana, a partire dalla sua nascita, il 6 ottobre 1924 sino a oggi

Foto Unione Radiofonica Italiana

This content was entirely crafted  by “Human Nature” THR-Roma