Un ritratto di Paul Schrader

È nato un critico cinematografico. L’evoluzione naturale è nella scrittura di sceneggiature, e poi nella regia.

Crescere senza aver mai visto un film fino a diciassette anni, e diventare un regista di cinema. Sembra paradossale, ma è la storia di Paul Schrader, lo sceneggiatore di Taxi Driver, il regista di American Gigolò e di Mishima, l’autore di saggi come Il trascendente nel cinema. 

È il 1947 quando Paul Schrader viene al mondo. Cresce nel Michigan, riceve una rigida educazione calvinista nel seminario della Chiesa Cristiana Riformata, che incoraggia lo studio ma vieta un genere di spettacolo “frivolo” come il cinema. 

Adolescente, scappa di casa, e a diciotto anni vede il primo film. È un film con Jerry Lewis, Le folli notti del dottor Jerryll. L’esperienza non è indimenticabile, il film non gli piace. Ma il cinema come mezzo espressivo diventa, per lui, un’ossessione. 

Non ha ancora vent’anni quando segue corsi estivi di cinema alla Columbia University di New York; ne ha ventuno – è l’anno cruciale 1968 – quando va a Los Angeles per iscriversi alla scuola di cinema della UCLA. Nel 1972 si laurea con una tesi sullo stile “trascendente” nel cinema di Ozu, Bresson e Dreyer. Quella tesi diventerà un saggio studiato da generazioni di appassionati. 

È nato un critico cinematografico. Schrader scrive per Film Quarterly e altre riviste, diventa direttore della rivista Cinema di Beverly Hills. L’evoluzione naturale è nella scrittura di sceneggiature. La prima è Yakuza, scritta insieme a Robert Towne: diventerà un film diretto da Sydney Pollack. Seguono la sceneggiatura di Obsession – complesso di colpa per Brian De Palma, e quella per Taxi Driver. 

Proprio in Taxi Driver troviamo un ritratto formidabile dell’America, delle sue disillusioni, degli abissi in cui rischia di cadere. Il reduce dal Vietnam, che sarà interpretato da un formidabile Robert De Niro, è una figura chiave per il cinema, ma anche per il racconto dell’America post-Vietnam. Un personaggio smarrito, che trova lavoro come tassista, perché non riesce più a dormire. Che percorre, con il suo taxi, le strade di una metropoli livida, piovosa, violenta. Che disegna la mappa di una solitudine grande quanto una città di dieci milioni di abitanti. Il tassista che non sa come far la corte a una ragazza, e al primo appuntamento la porta a vedere un film porno, è straziante, è il segno concreto di un’incapacità di parlare la lingua dei sentimenti, di un’afasia sentimentale. Gli echi di quel personaggio andranno lontano, fino al Joaquin Phoenix di Joker di Todd Phillips.  

Con Scorsese, Schrader scriverà altri tre film memorabili: Toro scatenato, L’ultima tentazione di Cristo e Al di là della vita. Scrive anche, non accreditato, la sceneggiatura per Incontri ravvicinati del terzo tipo, che sarà diretto da Steven Spielberg. 

Nel 1980 dirige American Gigolò: il film ha grande successo al box office, e Richard Gere diventa uno degli attori più “hot” di Hollywood. Dirige poi Il bacio della pantera, nel 1982, un remake del noir diretto quarant’anni prima da Jacques Tourneur, e nel 1985 dirige il suo film più sconvolgente, Mishima, ritratto dello scrittore giapponese, che riceve un premio per il miglior contributo artistico al festival di Cannes. 

Nel 1988 consegna all’amico Martin Scorsese la sceneggiatura de L’ultima tentazione di Cristo. Gli anni che seguono sono quelli di un rapporto difficile con il box office, segnati da film di qualità, ma di limitato successo. Uno dei migliori è Lo spacciatore, del 1992, con un Willem Dafoe molto convincente. Nel 2004 viene chiamato a dirigere il prequel dell’ Esorcista  di William Friedkin: ma a riprese finite, la produzione rifiuta il film ritenendolo poco commerciale, e lo affida a Renny Harlin. La versione di Schrader sarà mostrata solo in alcuni festival, e uscirà in dvd. 

Il cinema di Schrader, nel panorama del cinema statunitense, e anche in quello mondiale, ha sempre rappresentato un’eccezione. In un cinema per la maggior parte votato al racconto, all’azione, al movimento, Schrader se ne sta, piuttosto solo, con il suo cinema di riflessioni, di solitudini, di tempi dilatati, sospesi, bloccati. Ama riprese lunghe, inquadrature che non staccano, neanche dopo l’uscita di campo degli attori, immagini che prevalgono sui dialoghi.  

In una nuova introduzione al suo libro sullo stile trascendente nel cinema, Schrader cita come punti di riferimento registi come Béla Tarr, Lav Diaz, Pedro Costa, Andrej Tarkovskij, Tsai Ming-Liang. Cita anche, fra gli italiano, Michelangelo Frammartino, che persegue da anni una sua strada personalissima di cinema appartato e autoriale. 

Oh Canada è, ad oggi, il suo ultimo film. Presentato in concorso a Cannes 2024, il film vede Schrader ritrovare Richard Gere come protagonista, per trasformare in immagini un romanzo di Russell Banks. È un film complesso, cupo, dominato dalla presenza della morte. Un celebrato documentarista concede ad un suo ex allievo un’intervista-confessione, sotto lo sguardo della moglie Uma Thurman: sarà il suo ultimo gesto, sarà il suo testamento. 

Sentiamo il gocciolare della morte in quella stanza, mentre il personaggio interpretato da Richard Gere rivela se stesso, rivela le proprie menzogne, smonta il proprio mito, tratteggia una giovinezza immorale e sconsiderata. Si ritrae come un uomo incapace di amare e rispettare gli altri. L’ultimo gesto morale, la confessione suprema. Il protagonista ha mentito per tutta la vita, fin da quando ha scelto quale personaggio mostrare al mondo. Il genio del cinéma-verité, che metteva a nudo l’immoralità altrui, era a sua volta immorale. Ma anche l’ex allievo oltrepasserà ogni soglia morale, cercando di documentare, di filmare ciò che è più sacro, la morte del maestro. 

Schrader riflette sull’onestà, sull’autenticità, sui confini che l’arte non dovrebbe superare. E racconta un atto di amore: quello dell’anziano regista per la moglie più giovane. Perché lui, al fondo di tutto, si confessa per lei. Per ricevere, da lei, un perdono. Ma realtà e fantasia si confondono, e le parole di Gere potrebbero anche essere le fantasie allucinate di un vecchio morente, sotto psicofarmaci. Ancora una volta, per Schrader emergono i temi della verità e della menzogna, del peccato e della redenzione, del segreto e della confessione. Gli effetti dell’educazione calvinista, di quel corpo a corpo con la moralità e con il concetto di aldilà, si fanno ancora sentire, nell’arte di Schrader. 

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