Adolfo Bartoli: l’occhio del cinema in giro per il mondo

Dalla Jugoslavia al Pakistan, da Beverly Hills a Eboli, un libro, un corto e la figlia Tatum (chiamata come l’attrice di Paper Moon), ricordano la figura di un direttore della fotografia a suo agio a qualsiasi latitudine e con ogni dispositivo ottico

Storia di un artigiano del cinema, e di una bambina che lo ha seguito in giro per il mondo. L’artigiano del cinema si chiamava Adolfo Bartoli. È scomparso l’anno scorso, il 29 giugno, a 84 anni. La bambina che lo ha seguito nel mondo, nei percorsi di un cinema internazionale in cui si incrociavano Kabir Bedi e Arnold Schwarzenegger, si chiama Tatum Bartoli. Oggi fa l’ufficio stampa, ma la sua vita è praticamente un film. 

Un libro, pubblicato da Artdigiland Books, raccoglie la storia di Adolfo Bartoli. Si chiama Incontri che cambiano la vita. Il cinema di Adolfo Bartoli, artigiano della luce. Lo ha curato Gerry Guida. Dentro c’è il racconto di una vita avventurosa, trascorsa seguendo vari set in ogni angolo del mondo. 

Un cortometraggio diretto da Roberto De Angelis, Storie di cinema, girato in un luogo che è un vero e proprio museo delle cineprese e delle macchine fotografiche. È un luogo affollato di cineprese 35mm, manifesti di film, fotografie. “Sono pezzi di ferro neri, ma sono pezzi di ferro che hanno fatto la storia del cinema”, dice nel cortometraggio Adolfo Bartoli. Con lui c’è Maurizio Maggi, fotografo e operatore cinematografico, anche lui come Bartoli finito in giro per il mondo. Fu anche fotografo personale di Orson Welles. 

“Nel libro, mio padre ripercorre una vita avventurosa con pagine sincere, spesso scritte con il divertimento di chi non sa darsi importanza: eppure ne ha fatte, di cose. In Romania c’è persino un teatro di posa intitolato a suo nome”, dice Tatum Bartoli. “Papà ha concretizzato la sua carriera in gran parte lontano dall’Italia: e così anche io ho vissuto a lungo lontano dall’Italia. Questo mi ha permesso di studiare negli Stati Uniti, di conoscere il mondo, anche nei suoi angoli più esotici. Di vivere, insieme con papà, l’abnegazione, la fatica, il desiderio di migliorarsi, il confronto”, dice Tatum Bartoli. 

“Mio padre ha lavorato con Pasqualino De Santis, grande direttore della fotografia, e grazie a lui si è trovato sul set di grandissimi registi, come Luchino Visconti o Francesco Rosi– Ma ha lavorato tantissimo in film di genere, spesso low budget. E il suo talento è venuto fuori affrontando le situazioni più difficili, tecniche o economiche”. 

Quando Tatum nacque, nel 1974, Adolfo Bartoli stava lavorando come operatore al documentario Rotta Karachi, per la Rai. Un viaggio durato un mese intero, dall’Olanda al Pakistan, attraverso Germania, Jugoslavia, Bulgaria, Turchia, Iran. “A metà viaggio nacque mia figlia Tatum”, ricorda Bartoli nel libro. “Non fui presente alla sua nascita. Ma, una volta arrivati a Karachi, presi subito un aereo per Roma e corsi a stringerla fra le mie braccia”. 

“Fin da piccola, il cinema si è mescolato alla mia vita”, ricorda Tatum. “Anche il mio nome viene dal cinema: mia mamma si era innamorata del film Paper Moon, diretto da Peter Bogdanovich, con Ryan e Tatum O’ Neal, padre e figlia nella vita e nella finzione. Tatum avrebbe vinto l’Oscar come migliore attrice non protagonista. Quando sono nata io, nel 1974, mia mamma volle darmi il nome di quella giovanissima attrice. Il cinema ha sempre fatto capolino nella mia vita. Sul set di Cristo si è fermato a Eboli, Gian Maria Volonté mi prese in braccio: avevo quattro anni”. 

“Sin da piccola, papà mi portava sul set. La prima volta fu in Australia, per il film Il grande oceano di Capitan Cook. Avevo dieci anni. Quando nel 1991 papà fu chiamato negli Stati Uniti, dopo aver lavorato per Il pozzo e il pendolo di Gordon, con il visto speciale assegnato a persone con importanti qualità e capacità professionali, e poi con la green card, noi lo seguimmo. E io ho potuto studiare alla University of California, a Berkeley, laureandomi in Critica del cinema”. 

“Ho doppio passaporto, italiano e americano. Amavo molto il nord della California”, ricorda Tatum. “Abitavamo in una casa bellissima, presa in affitto a Beverly Hills. Papà lavorava tantissimo, facendo quattro o cinque film all’anno”

“Com’era mio papà? Assomigliava molto a Super Mario Bros., perché fra le sue doti c’era quella di saper aggiustare tutto. Le macchine da presa, la mia auto, qualsiasi oggetto fosse rotto in casa. Aveva una specie di dono: e non era l’unico. Non smetteva mai di essere curioso di tutto quello che lo circondava. Questo libro, a cui teneva moltissimo, era il suo modo di rendere omaggio, di dire grazie a tutte le persone che ha incontrato, con cui ha lavorato. Purtroppo, non ha potuto vederlo fisicamente: è scomparso all’improvviso, un infarto fulminante. Ma dentro questo libro c’è lui, c’è come era e come voleva essere ricordato”.