Angelo Duro, il comico che ha portato il disprezzo degli haters sul grande schermo

Il suo cinema non è la fine del mondo, ma sa parlare alla parte oscura che si annida in tutti noi: più che divertire, sembra ingaggiare la nostra esasperazione

“Credono che io faccia lo stronzo per scherzare e invece lo sono veramente”. Da sempre Angelo Duro racconta se stesso e la sua comicità, giocando con l’ambiguità del suo personaggio, attraverso una sorta di “outing” perverso, in cui non si sa mai quando dice la verità, quando mente, o quando prende in giro il pubblico. 

Il suo protagonista, cinico prevaricatore, menefreghista, maschilista e fieramente contro le regole, ha conquistato le platee di tutta Italia. E’ un successo che dal teatro e dal piccolo schermo lo ha condotto direttamente in sala, dove, ad oggi, il suo Io sono la fine del mondo si avvia a superare i 3 milioni di euro. Fedele a se stesso, Duro, insieme a Gennaro Nunziante, che ha diretto il film e con il quale ha scritto la sceneggiatura, ha trasferito sul grande schermo l’impassibile antipatico dei suoi spettacoli, cercando ancora una volta la complicità del pubblico trascinandolo con sé sul sentiero della cattiveria. 

Ma cos’è, davvero, che attira il pubblico?  Più di un recensore registra la mancanza di risate torrenziali (come nei film di Zalone) e la qualità generale del film è piuttosto controversa.

In realtà ciò che affascina e attira di più in questo film, così come del personaggio proposto da Duro, è qualcosa che nessuno di noi ha il coraggio di ammettere, qualcosa di spaventoso che ci riguarda tutti e che è cresciuto in questi anni sotto la spinta paranoica e ossessiva di una cultura del politicamente corretto portata all’esasperazione: la possibilità di liberarci, di dire finalmente quello che pensiamo, di rispondere con un “vaffa” alle assurde e buoniste regole che ci dovrebbero far sentire e diventare tutti delle brave persone. La sua scorrettezza ha qualcosa di tanto repulsivo quanto liberatorio.

E’ qualcosa che travalica il cinema messo in campo nel film. All’interno di una sceneggiatura che non lo supporta e una recitazione che non regge la macchina da presa (la mono espressione dell’attore che fa tanto ridere il pubblico durante i live qui diventa solo fissità dell’interpretazione: sembra quasi che si fermi per leggere le battute da qualche parte), Io sono la fine del mondo sembra infatti non sapere tenere insieme i pezzi, sviluppandosi secondo un susseguirsi di momenti isolati di comicità ai quali nemmeno la storia e l’esperienza di un regista come Nunziante, che ha lavorato con tutti i comici più importanti del panorama italiano contemporaneo, riescono a dare una parvenza di coesione. 

Eppure, gli spunti interessanti non mancherebbero: dal lavoro che svolge il protagonista, che guarda caso mantiene il nome di Angelo Duro (accompagna a casa gli adolescenti ubriachi in uscita dai locali notturni), alla famiglia disfunzionale travestita da famiglia perbene con cui il ragazzo, dopo anni di lontananza, torna a fare i conti, da quel Ferragosto in città che avvia il film e in cui riecheggiano le inquietudini della grande commedia all’italiana, all’insofferenza per una società ingabbiata in un moralismo di facciata che vive ormai solo di censura. 

In realtà tutta la vicenda di questo bullo diventato tale per il suo “passato difficile”, perché incompreso dalla famiglia, va avanti ripetendo uno schema narrativo monocorde in cui il protagonista – molto lontano dal solito sfigato bruttino a cui siamo abituati nello schema dei film comici italiani che prende in giro gli altri ma in realtà li subisce –  aggredisce parenti, amici e conoscenti, senza che loro abbiano davvero una reazione e murando qualsiasi tipo di reattività negli altri personaggi. L’interazione più complessa ed evoluta ce l’ha con il personaggio del padre, interpretato da Giorgio Colangeli, che infatti a tratti, insieme a Matilde Piana, che veste i panni della madre, rischia più volte di rubargli la scena. 

Il modulo dello stand-up comedian che funziona sul palco è ingenuamente traslato al cinema, ma il risultato è un copione ripetitivo che non dà mai veramente sfogo alla risata, anzi, ancora di più, è il monologo autistico di un personaggio disconnesso dalla realtà che potrebbe immaginarsi tutto e che facendoci presagire anche qualcosa di peggiore, prelude fin dall’inizio al triste finale. 

Ciò che sembra agganciare lo spettatore, è qualcos’altro. Duro piega le sbarre di questo pensiero catatonico per urlare e dire in maniera provocatoria cose che non osiamo neanche più pensare. Attraverso l’esagerazione e il paradosso, come direbbero i semiologi, diventa una sorta di narrativizzazione dell’“hater”, di trasformazione in racconto di una figura che la solitudine dei social ci hanno fatto conoscere da vicino e che ciascuno di noi è tentato di liberare per scaricare esasperazione e indignazione.

Ma a differenza dei leoni da tastiera che popolano internet, Duro ha il coraggio e la forza di uscire allo scoperto. Se di Eric Von Stroheim, la pubblicità diceva “L’uomo che amerete odiare”, per Duro si potrebbe dire “l’uomo che vorreste veder odiare al posto vostro…”: perché quello che ci piace, è che lo faccia.