Presentato giovedi ad Alice nella Città, la sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma dedicata alle giovani generazioni, Nina è un cortometraggio scritto e diretto da Arianna Mattioli, interpretato da Anna Ferzetti, Lorenzo Lavia e Pietro Sparvoli. Un’opera delicata, coraggiosa e schietta che affronta, senza fronzoli e gratuiti pietismi, il tema della disabilità, in particolare la sindrome di Down.
ll cortometraggio si inserisce in un filone narrativo necessario e sempre più urgente: raccontare la disabilità con autenticità, riflettere sull’inclusione e parlare di queste tematiche con una grammatica diversa. Troppo spesso, la disabilità viene raccontata con superficialità o stereotipi, mentre qui si esplorano tutte le sfaccettature, dall’amore alla fatica, dalla gioia al senso di colpa. E lo fa attraverso una scrittura centrata e diretta, un’interpretazione sincera e tanti sguardi che raccontano il mondo emotivo più di tante parole.
Il cortometraggio ci racconta una giornata nella vita di Nina insieme alla sua famiglia. Non propriamente una giornata qualunque, ma quella in cui la mamma Emanuela decide di separarsi per la prima volta da sua figlia per farle vivere un’esperienza in un centro per bambini disabili, mentre accompagna il figlio Giacomo a un raduno di calcio. In queste due giornate apparentemente ordinarie, il film riesce a costruire un potente viaggio emotivo, dove ogni personaggio affronta le proprie paure, ansie, compressioni e desideri. Non si tratta solo di un racconto sulla condizione di Nina, ma soprattutto di una riflessione sulla fatica e le sfide quotidiane vissute all’interno dei nuclei familiari.
Raccontare la disabilità significa anche rivelare la realtà quotidiana, fatta di sfide e resilienza. Per molte famiglie, avere un figlio con disabilità è un percorso che stravolge la vita, ma non è solo un peso o un sacrificio, come spesso viene percepito, è qualcosa che separa ma che sa anche unire. Il cortometraggio “Nina” riesce a dare spazio a questa doppia lettura: da un lato, la disabilità come sorgente di preoccupazioni e stanchezza; dall’altro, una fonte di trasformazione, scoperta e crescita personale. Emanuela incarna perfettamente questa realtà: una donna che cerca di essere tutto per tutti, ma che lentamente si rende conto di quanto sia essenziale fermarsi, accettare i propri limiti e cercare sostegno. È importante che il cinema affronti queste contraddizioni, senza edulcorare le difficoltà, ma mostrando la complessità della vita, fatta anche di momenti di profonda umanità e bellezza.
La sindrome di Down è spesso stereotipata o ridotta a pochi tratti comportamentali, perdendo di vista la singolarità delle persone. Secondo la regista, Arianna Mattioli, raccontare la disabilità dal punto di vista della famiglia era essenziale: “Quando ho scritto il corto, avevo appena letto un libro che ha rappresentato una grande fonte di ispirazione per me, “Fame d’aria” di Daniele Mencarelli. Daniele ha la capacità di portare il lettore a vedere le storie da un punto di vista diverso. Ho indagato cosa ci fosse dietro alla narrazione del genitore guerriero e ho scoperto un mondo di coraggio, ma anche di grande insicurezza e senso di inadeguatezza”. Da qui, la decisione di far emergere la fatica e la rincorsa continua che i genitori di bambini con la sindrome di Down vivono ogni giorno. Il sentimento comune, racconta, era “quello della fatica, dell’impotenza. Ho capito che più che dei figli, era importante parlare delle famiglie, se davvero si vuole tendere loro una mano e farle sentire meno sole.” E allora ecco che anche normalizzare la necessità di supporto è fondamentale: “È importante ricordare che per aiutare una famiglia con un figlio disabile servono risorse che lo Stato deve mettere a disposizione. La neuropsichiatria infantile è al collasso, mancano fondi per rispondere alla domanda crescente. Quello che possiamo fare col nostro lavoro è accendere un riflettore su questa condizione ed augurarci che funzioni per attivare un intervento delle istituzioni. Servirebbe chiedere loro di cosa sentono necessità, ascoltarle e trovare soluzioni condivise. L’integrazione parte dal riconoscimento dell’altro e dall’accettazione delle differenze”.
Le persone con sindrome di Down non sono sempre docili e sorridenti, ma, come tutti, hanno pregi, difetti, sogni e frustrazioni. Una complessità che merita di essere raccontata. “I bambini down vengono spesso raccontati come buffi e simpatici, ed è vero, nella maggior parte dei casi. Ma non tutti sanno che la sindrome può avere gradazioni diverse e non sempre sono solo semplicemente teneri. Molti di loro hanno comorbidità, aspettativa di vita breve, problematiche legate allo spettro autistico. Ho cercato di lasciarli liberi di agire, rubando con la macchina da presa reazioni spontanee, senza indugiare solo su quello che solitamente si vuole che appaia. Il risultato è stato sorprendente anche per me. Gli attori che hanno lavorato con i bambini sono stati la grande chiave di volta per il risultato: sono stati straordinariamente in ascolto, lasciandosi guidare con generosità ed empatia. Non smetterò mai di ringraziarli”, ha sottolineato la regista. Un approccio narrativo totalmente in linea con il tema della Giornata Nazionale delle Persone con Sindrome di Down di quest’anno (13 ottobre) in cui il tema degli stereotipi sono stati trattati in chiave ironica e provocatoria, grazie alla collaborazione con il duo comico Le Coliche. L’obiettivo è stato ribaltare la percezione “buonista” delle persone con sindrome di Down, spesso ridotte a “mascotte” o eroi senza macchia.
La regista ci ha anche ribadito come dal suo punto di vista “Le madri sono in prima linea sul fronte impegno costante. Le madri che lavorano, poi, hanno un compito ancora più difficile. Ma non dobbiamo considerarle delle eroine, al contrario dovremmo riflettere sul carico mentale che ogni giorno si trovano a sostenere e spingerci – ognuno con le proprie possibilità e col proprio ruolo – a sostenerle. Spesso basta davvero poco, è sufficiente accorgersene.”
E se, come dice bene il fratello di Nina nel film, “lei è sempre felice” forse abbiamo qualcosa da imparare. Nell’ammettere di avere tutti bisogno di aiuto, di essere fallibili o, magari, anche solo un po’ di autenticità.
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