Guardiani della Galassia Vol.3, recensione: la Marvel che ci piace (e che ci mancava)

James Gunn e i suoi protagonisti sono pronti a salutare i fan, e lo fanno al massimo delle loro capacità. Un cinecomic come la Marvel non ne faceva da tempo, uno di quelli che balla (e fa ballare)

“Non esiste nessun Dio, per questo mi sono fatto avanti”. A pronunciare tali parole non è Kang il Conquistatore, cattivo principale della nuova Fase della Marvel, bensì l’Alto Evoluzionario, villain del terzo volume dei Guardiani della Galassia. Frase che potrebbe essere anche di Kevin Feige, che del MCU è il Presidente assoluto – soprattutto ora che una dei suoi vice più influenti, Victoria Alonso, è stata allontanata in circostanze sospette -, ma che in verità potremmo attribuire tranquillamente a James Gunn.

Prima di Peter Quill e la sua squadra, la casa dei fumetti che dal 2008 domina il grande schermo non aveva mai avuto un vero e proprio “stile”. C’era stata l’epica eroica di The Avengers (2012) e Captain America: The Winter Soldier (2014) aveva rincorso il thriller politico. È stato però Star-Lord con le sue musiche anni Ottanta e la venerazione per Kevin Bacon a dettare una personalità ben distinta per il suo team. Stravagante e colorata come i film di cui sono stati protagonisti, portando la loro ironia e strafottenza anche nelle pellicole dove fiancheggiavano il resto dei supereroi Marvel.

Che poi, quelle caratteristiche, sono le stesse di Gunn e del suo cinema. L’irriverenza eccessiva che non si è mai arrestata, esplodendo addirittura nella terza pellicola. Ancora più bizzarra, anche grazie alle scenografie strabilianti e a un uso finalmente decente degli effetti speciali (Ant-Man and the Wasp: Quantumania guarda e impara), che si fa insieme esaltazione e elogio di ciò che i Guardiani sono stati e cosa, per noi, resteranno.

Una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3

Una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3

Guardiani della Galassia Vol. 3 è un cinecomic che balla (e commuove)

Guardiani della Galassia Vol. 3 è la natura alla massima potenza dei personaggi che abbiamo amato. L’affresco di una visione artistica nella quale è chiaro che James Gunn ha messo tanto di se stesso, della sua unicità. Nel marasma spesso informe, spesso privo di originalità del MCU, il regista e sceneggiatore ha dimostrato di non aver fatto nemmeno un passo indietro, rispetto alla precedente Fase 4 debole e, nell’insieme, sgonfia (la pellicola è la seconda della Fase 5). Uno degli ultimi fasti di una Marvel che, al momento, sembra non esserci più e che, guardando Guardiani della Galassia Vol. 3, ci eravamo resi conto di quanto ci fosse mancata.

Il nuovo cinecomic ha il sapore dei vecchi cinecomics. Sono i Guardiani della Galassia nella loro quintessenza. Hanno tutta la libertà possibile, sono molto più sfrontati e le loro battute non hanno davvero più freni – può sembrare scontato, ma vedere dei supereroi mandarsi a quel paese in un film Marvel/Disney con tanto di riferimenti sessuali, ad oggi, non lo è affatto. E, in questo loro stuzzicarsi e prendersi in giro, il film trafigge lo spettatore sfoderando la sua arma segreta, quella che i Guardiani avevano già brandito, ma mai come nel Vol. 3.

I protagonisti e la loro storia fanno piangere. Fanno davvero piangere. Fanno commuovere con Rocket che ricorda il suo passato, con i suoi compagni che cercando di salvarlo, con un messaggio umano – e inaspettatamente ambientalista – che parla di fiducia, di alleanza, di amicizia. Che contrappone all’ossessione di perfezione e alla smania di onnipotenza dell’Alto Evoluzionario, che vuole creare una società utopica priva di difetti, l’accettazione di chi si è. E, con i Guardiani, chi si è diventati. Un percorso durato quasi dieci anni e che con Guardiani della Galassia Vol. 3 si è, a suo modo, concluso. Dog Days Are Over. Ma la voglia di ballare no.