Civil War: l’America oggi ha paura, guarda nei suoi abissi e vede se stessa, il proprio futuro

Nell'anno delle elezioni presidenziali, in un paese diviso come non mai, dall'identità condivisa sempre più vacillante e con Trump che arriva ad evocare un "bagno di sangue", la distopia del film di Alex Garland appare terrificantemente realistica: in pratica, è il 6 gennaio di Capitol Hill su scala nazionale. Ma non è solo un incubo Usa: la pellicola parla ad un mondo destabilizzato in modi che credevamo impossibili

L’America ha paura. Guarda nei suoi abissi e vede se stessa, il proprio futuro. Si riconosce nelle immagini febbrili e angosciose di  violentissimi combattimenti di strada a Washington DC, nei cadaveri freschi abbandonati in un parco divertimenti, in una sparatoria all’interno della Casa Bianca, in una fossa comune in mezzo ad una campagna un tempo fatta di verdi prati, delicata e amena. Civil War, lo sconvolgente e bellissimo film di Alex Garland, è l’incubo americano del ventunesimo secolo, del 2024: anno di elezioni presidenziali, Donald Trump che corre contro Joe Biden non avendone mai riconosciuto la vittoria del 2020, il paese mai così diviso, dove alcuni pezzi di paese definiscono “illegali” altri pezzi di paese, con dichiarazioni messianiche rivolte alle viscere usate come strumento politico, con gli equilibri istituzionali sotto continuo attacco, con l’incubo dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 a diffondere il suo veleno nella coscienza collettiva della nazione.

Una scena di Civil War di Alex Garland

Una scena di Civil War di Alex Garland

Civil War parla di questo senza parlare di questo: immagina un futuro prossimo nel quale gli Usa sono devastati da una guerra civile furibonda che vede molti Stati in conflitto contro “i governativi” capeggiati dal presidente, uno che parla di “più grande vittoria della storia umana” mentre il paese intero è in fiamme. Gli “occhi” del film sono quelli di una fotoreporter di nome Lee, interpretata da Kirsten Dunst, in viaggio con un gruppo di colleghi variamente assortiti alla volta di Washington: le immagini che vede, gli scontri a fuoco, i cadaveri, le torture, gli uomini in fiamme le fanno rimbalzare alla mente le immagini di altre guerre, se ne intuiscono alcune mediorientali, altre forse africane, alcune sembrano essere quelle ad est dell’Europa.

Come dire: quello che è accaduto là, o sta accadendo, può accadere anche qui, negli Stati Uniti.

Ed è questo il punto. In un mondo che è destabilizzato ad un livello che fino a pochi anni fa credevamo impossibile, in un paese – il più potente al mondo – a sua volta diviso nel profondo della sua anima e dall’identità condivisa sempre più vacillante, la distopia di Civil War appare realistica in modo terrorizzante: in pratica, è il 6 gennaio di Capitol Hill su scala nazionale, è l’assalto violento di una parte del paese contro l’altra.

Certo, il presidente del lavoro di Garland non è Trump, anche se ha diversi tratti in comune con l’ex tycoon, ma non è quel che interessa al film: Civil War non spiega cosa abbia portato alla guerra, lo fa solo intuire. Mostra, invece, con grandissima forza e ad un ritmo che ne fa un grandissimo film bellico, gli effetti: i lampi dei bombardamenti nella notte (immagini come quelle che abbiamo visto in Iraq, in Siria o in Ucraina), i profughi asserragliati nella paura in un campo sportivo, i tanti “cani sciolti” armati fino ai denti di cui sono disseminati i territori extraurbani, le violenze indicibili.

Kirsten Dunst in una scena di Civil War

Kirsten Dunst in una scena di Civil War di Alex Garland

È come se Garland dicesse all’americano medio (e pure all’europeo medio): voi credevate che queste cose si vedono solo in televisione o che si limitano a rimbalzare in mezzo alle altre milioni di storie dei vostri social media. Invece no: la guerra è possibile anche da noi, e non sarebbe diversa da quelle che si vivono in paesi solo apparentemente lontani dagli Usa. La guerra non è niente di eroico, non è Rambo, non è gli Avengers, la guerra è di una brutalità indicibile, il male assoluto può radicarsi anche tra di noi. Chi punta alle divisioni, chi gioca con il fuoco scuotendo alle regole della convivenza, avrà il fuoco.

Civil War è una pellicola fatta per indurre tutti noi a farci una serie di domande. Quali sono i vuoti spaventosi che la politica non ha saputo riempire? Come siamo arrivati a questo punto? Che America è quella che porta a questo incubo?

È, ebbene sì, anche quella dell’ex presidente Trump che, in uno dei suoi comizi sgangherati, arrivare ad evocare il bloodshed, un “bagno di sangue” se non tornerà alla Casa Bianca, e che dei migranti clandestini dice che “non sono umani, sono animali”, ma è pure l’America dei muri costruiti sul confine messicano, è quella dei bambini dei migranti divisi dai genitori, è quella della gun violence, ossia delle stragi compiute quasi quotidianamente ai quattro angoli del primo paese al mondo in quanto a possesso di armi (circa 120 armi per ogni 100 americani) con oltre 300 mila morti l’anno, è quella in cui Dio viene impugnato da una parte del paese come uno strumento di prevaricazione, è quella di milioni di persone che non sembrano avere più i mezzi per distinguere le fake news dalla realtà.

Kirsten Dunst e Cailee Spaeny in una scena di Civil War di Alex Garland

Kirsten Dunst e Cailee Spaeny in una scena di Civil War di Alex Garland

Ecco, appunto: la capacità di raccontare la realtà è uno dei temi di Civil War, nonostante si tratti di un’opera di finzione. È il motivo per il quale Garland ha scelto come Virgilio di quest’inferno dei nostri giorni una fotoreporter, una giornalista a cavallo tra due mondi: quello delle guerre realmente combattute in tanti luoghi del pianeta e quello di un’ipotetica guerra nel territorio degli Stati Uniti, dove i combattimenti s’infiammano in mezzo ai grattacieli di New York, in mezzo ai monumenti di Washington e dentro i paesaggi che conosciamo dai film e dalle cartoline a stelle e strisce.

C’è chi, nel film, definisce i giornalisti nemici, molti pensano che il giornalismo sia un mestiere moribondo. Ma negli Usa come in Russia, in Ucraina come in Palestina, in Nigeria o in Afghanistan, sono necessari occhi sul campo per raccontare la realtà, anche la realtà della paura e della destabilizzazione globale, anche la realtà dell’ultimo incubo di questo nuovo mondo.