Kokomo City, essere nera e transgender oggi negli Stati Uniti. Uno sguardo intimo e orgogliosamente senza filtri

Il documentario di D. Smith, premiato al Sundance Film Festival e alla Berlinale, è la storia vera di quattro donne, Liyah Mitchell, Dominique Silver, Koko Da Doll e Daniella Carter. Uno spaccato trasversale che dalle loro storie si allarga alla società intera. In streaming su Mubi

“Lord if you can’t send me no woman, please send me some sissy man”, cantava così Kokomo Arnold in un vecchio blues degli anni trenta. È da questo verso, libero e inaspettato (se si considera il tempo in cui è stato scritto) che nasce il titolo del documentario di D. Smith. Kokomo City è la città di Kokomo Arnold, un luogo che non esiste, ma che sarebbe bello trovare ovunque. Un’utopia, forse, in cui poter essere e poter vivere senza paura dello sguardo o della violenza altrui.

La storia vera, anzi, le quattro storie vere raccontate da D. Smith sono uno spaccato trasversale dell’esperienza delle donne nere e transgender nel sex work. Sono quattro storie singole, per questo irripetibili, ma compongono insieme un quadro molto più ampio.

D. Smith e il bisogno dietro Kokomo City

D. Smith, in un’altra vita, era una produttrice musicale molto nota nel rap statunitense. Per il suo lavoro con Lil Wayne, tra vari artisti, ha anche vinto un Grammy Award nel 2009 per l’album Tha Carter III.

Una volta intrapreso il percorso di transizione, tuttavia, il mondo della musica in cui era inserita le ha voltato le spalle, l’ha ostracizzata e allontanata, riducendola anche in povertà. A lungo, ha affermato D. Smith, ha pensato di poter sopravvivere solo attraverso il sex work ed è stato in quel momento che, per necessità e per curiosità, è nato il progetto di Kokomo City.

Kokomo City è il racconto senza filtri di una vita a cui la regista si sentiva costretta dalla società. È un film realizzato con pochissimi strumenti e a budget minimo (inesistente, in realtà). Deriva anche da qui, probabilmente, la scelta del bianco e nero, per camuffare quanto più possibile – anche nella fotografia – la natura di “guerrilla filmmaking”, un cinema-verità fatto con il poco che si ha a disposizione.

Liyah, Dominique, Koko e Daniella

Liyah Mitchell, Dominique Silver, Koko Da Doll e Daniella Carter sono le quattro protagoniste del documentario, trovate dalla regista sui social network. Quattro esperienze molto diverse: dalla Georgia a New York e, dentro la stessa metropoli, dal lusso di Manhattan alle difficoltà di Brooklyn.

Dominique Silver in Kokomo City

Dominique Silver in Kokomo City. Courtesy of Mubi

Rappresentano uno spaccato sociale, anche attraverso i diversi ceti che in loro si rispecchiano. Ognuna, in modo diverso, si apre davanti alla macchina da presa di D.Smith. Indizio anche del consistente lavoro precedente alla registrazione, un legame psicologico ed emotivo che viene costruito molto prima dell’Azione!.

Un legame che non sempre è facile, come si intuisce per esempio dalla distanza di Koko Da Doll, dall’angolo basso e lontano da cui si fa riprendere, come se volesse dimenticarsi della telecamera e fingesse di parlare con un’amica. Ma è una distanza subito controbilanciata da chi permette alla regista di avvicinarsi molto, anche fisicamente, come Liyah o ancor di più Daniella.

Daniella Carter, che è già una nota attivista a New York, è anche la persona che parla di più, che scava di più nelle questioni identitarie e politiche del sex work transgender nella comunità afroamericana. Anche se tocca poi a Dominique Silver la dichiarazione più importante di tutte: la rivendicazione dello sguardo senza filtri sul proprio corpo nudo.

Un discorso stratificato

Kokomo City, tuttavia, va anche oltre le mura delle quattro stanze delle protagoniste. Allarga il proprio orizzonte agli uomini (agli uomini afroamericani), li interpella, li interroga direttamente. Ne denuncia, in alcuni casi, la misoginia e l’omotransfobia radicate in un modello maschile ormai tossico, superato, dannoso. Soprattutto alla luce di un tragico evento che, nel frattempo, colpisce il film. L’assassinio di Koko Da Doll da parte di un cliente poco dopo la fine delle riprese.

Intervistando ex colleghi del mondo del rap, la stessa D. Smith chiude così anche un cerchio personale e universale, un percorso di guarigione intima delle proprie ferite, senza mai dare l’impressione di star guardando dal buco della serratura. Anzi, tutto ciò che viene detto e rivendicato dalla regista attraverso le storie di Liyah, Dominique, Koko e Daniella è loud and proud, orgogliosamente esplicito.