May December, la recensione: quando lo sfizio dell’attrice supera l’urgenza dell’autore

L'attesissima opera del regista di Velvet Goldmine, prodotta (e interpretata) da Natalie Portman alla fine si rivela solo un melò scontato e senza guizzi in cui rivaleggiano due grandi attrici, senza esagerare

Savannah, Georgia. Una tipica famiglia americana molto numerosa si prepara al graduation day, il giorno del diploma di due figli, gemello e gemella.

Tutto gira intorno alla loro mamma, Gracie (Julianne Moore), che capiamo subito avere anche diversi figli da un precedente matrimonio. Il padre dei due ragazzi, Joe, sembra il loro fratello maggiore: è molto più giovane della moglie, e fra poco capiremo perché.

In questo giorno di festa e di torte fatte in casa, arriva un’ospite molto attesa: la famosa attrice Elizabeth Berry (Natalie Portman) che subito tutti riconoscono e riempiono di complimenti e occhiate curiose. È lì per un compito molto particolare, qualcosa che molti attori prima o poi fanno nella vita: deve interpretare Gracie in un film sulla sua vita, e ha bisogno di conoscerla e di sapere tutto di lei.

May December, la trama

Nei primi minuti di film, scopriamo perché Gracie è tanto famosa da meritare un biopic, un film biografico. Ventiquattro anni prima, quando lei aveva 36 anni e Joe 13, è finita in carcere per rapporti sessuali con un minore – Joe, appunto. A scandalo finito, Gracie e Joe si sono sposati e hanno avuto tre figli (due dei quali sono i gemelli che si stanno avviando al college). Dopo i primi, impacciati approcci Elizabeth incontra anche il primo marito di Gracie, che le dice delle banalità sconcertanti: “Era bella, eravamo innamorati, sono rimasto scioccato”, le solite cose. Poi intervista l’avvocato che la difese anni prima, e che le dà informazioni abbastanza inquietanti sulla solidità psichica della donna. Il passato di Gracie emerge piano piano, e anche il presente è abbastanza instabile nonostante le apparenze: il matrimonio fra lei e Joe sembra un idillio, ma qualcosa cova sotto la cenere.

Todd Haynes è uno dei pochi registi che frequentano ancora il genere del mélo tentando di fare film simili a quelli che faceva Douglas Sirk negli anni ’50: torbide storie familiari dove inenarrabili nidi di vipere si nascondono sotto la linda superficie middle-class. Personalmente lo preferiamo quando si occupa di rock’n’roll, come nel vecchio Velvet Goldmine o nel più recente documentario sui Velvet Underground. Però, in diversi film ha dimostrato di padroneggiare abilmente storie di donne inquiete e ambigue.

May December però è meno riuscito di altri: prodotto da Natalie Portman, appare più uno sfizio d’attrice che un’urgenza d’autore. Quale diva non vorrebbe interpretare – sia pure sotto falso nome – se stessa, ovvero un’attrice che si prepara a un film “studiando” una donna reale? In fondo May December è un film sulla manipolazione: inizia con Elizabeth che si intrufola nella vita di Gracie, e poi lentamente i ruoli si rovesciano, o come minimo si accavallano.

Il problema del film è che sembra scritto con un manuale di sceneggiatura aperto sulla scrivania: tutto è calcolato al bilancino e tutto, almeno per chi ha visto centinaia di film simili, è terribilmente prevedibile. Paradossalmente ma non tanto, il personaggio al quale Haynes sembra più interessato è Joe, l’ex bambino sedotto (o seduttore?): un uomo di famiglia coreano-americana, non cresciuto, irrisolto e dolente, condannato a vivere in una finzione borghese che sente come una prigione.

Julianne Moore e Natalie Portman rivaleggiano in bravura, ma senza esagerare: sessant’anni fa i due ruoli sarebbero toccati a Bette Davis e a Joan Crawford. E sarebbe stato un altro film.