Lala: una generazione senza cittadinanza, senza diritti, raccontata nel film di Ludovica Fales. “Niente è casuale in questo progetto. E sì, è cinema politico”

Una storia che nasce dieci anni fa, dall'esperienza di Zaga, ragazza rom nata in Italia da genitori fuggiti dalla guerra nei Balcani, e che tra ricostruzione narrativa e materiali d'archivio rivendica una posizione "non intellettualistica". L'intervista di THR

Lala, 17 anni, afferra il suo bambino di pochi mesi e si precipita alla finestra. Preferisce gettarsi giù con lui piuttosto che consegnarlo agli assistenti sociali che bussano con insistenza alla sua porta. Stacco. La voce della regista Ludovica Fales, fuori campo, interrompe l’azione e chiede a Samanta (Paunković), l’attrice non professionista che la interpreta, cosa quella scena stia suscitando in lei. A quale sentimento Samanta si stia aggrappando per recitarla. Parlarne è importante, ma non solo. È il metodo su cui si fonda l’intero film.

Lala è un documentario ibrido, costruito su tre piani: i materiali di archivio raccolti da Fales circa dieci anni fa, la storia scritta e messa in scena e, infine, le riprese delle prove di laboratorio teatrale con il cast, interamente composto da non professionisti. Al centro di tutto, l’esperienza dei ragazzi e delle ragazze rom di seconda generazione, senza documenti, senza cittadinanza, senza diritti.

Per raccontarla, Fales fa riferimento alla sua formazione accademica alla National film and television school di Londra, quella di un cinema antropologico che si sviluppa anche grazie al teatro dell’oppresso di Augusto Boal. Come raccontato a The Hollywood Reporter Roma dalla regista Ludovica Fales.

Da dove nasce la storia di Lala?

Tutto nasce da un incontro con Zaga, a cui il film è ispirato. Ci siamo conosciute dieci anni fa quando stava proprio per compiere 18 anni. I suoi genitori erano arrivati dalla ex Jugoslavia senza documenti durante la guerra dei Balcani e, avvicinandosi alla maggiore età le si presentava lo stesso problema. Vedere una ragazza che nel momento di sboccio della sua vita si trova a precipitare in una situazione di grandissima incertezza e di invisibilità, privata dei suoi diritti fondamentali, mi ha fatto sentire responsabile e complice in quanto parte del sistema come tutti noi e quindi mi ha fatto sentire che c’era bisogno che io facessi qualcosa.

E lo ha fatto attraverso il cinema.

L’unico strumento che avevo in mano era la macchina da presa.  Abbiamo iniziato a fare un documentario ma poco dopo Zaga ha fatto perdere le sue tracce, in viaggio per verso la Serbia per poter ottenere almeno il passaporto serbo, cosa per niente scontata non essendo lei nemmeno apolide. Allora ho iniziato a raccogliere un gruppo di persone, giovani con situazioni simili alla sua, lavorando insieme a loro sul personaggio di finzione di Lala. Quando Zaga è ricomparsa, anni dopo, il film ha preso questa sua dimensione tripartita, con tre livelli di narrazione.

La forma ibrida di Lala si è quindi evoluta nel corso del lavoro?

In parte le circostanze hanno dettato la forma e in parte invece c’era la riflessione sottostante che fa parte della mia comunità di riferimento, l’antropologia visuale, ovvero la questione di come noi documentaristi dobbiamo porci il problema “delle verità” su ciò che raccontiamo. Il documentario è un trattamento creativo dell’attualità e ognuno si appella a un senso diverso di aderenza alla realtà. Nel mio caso è stata la dichiarazione della forma: dichiarare il processo attraverso la forma e porre il pubblico in una posizione critica, portarlo a chiedersi cosa stia guardando.

Una scena di Lala di Ludovica Fales

Una scena di Lala di Ludovica Fales. Courtesy of Transmedia Production

Qual è stato quindi il lavoro con i suoi attori, tutti non professionisti? 

Abbiamo cercato di mantenere la verità documentaristica anche sul piano della finzione abbracciando il metodo di Augusto Boal (drammaturgo brasiliano, ndr) quindi il teatro dell’oppresso. Un metodo che richiede agli attori di lavorare sulle improvvisazioni per costruire il loro radicamento nei confronti della scena, quindi di trovare un senso alle reazioni in scena a partire da memorie e sentimenti stratificati nel tempo. Oltre a lavorare sul proprio personaggio riempiendolo con la propria esperienza, ognuno è stato coinvolto in ogni ruolo attraverso le discussioni a posteriori nel cosiddetto forum (il momento di discussione collettiva nel teatro dell’oppresso, ndr). C’è stata una matrice documentaristica slegata dall’idea di raccontare tutto e subito ma attraverso un lavoro stratificato.

Come funzionano questi momenti di elaborazione collettiva, i laboratori?

Ci siamo riuniti per circa sette giorni ogni quattro o cinque mesi per tre anni negli spazi di Rampa Prenestina (a Roma), cosa che ha richiesto anche da parte mia un coinvolgimento più attivo nella produzione. In queste occasioni abbiamo testato anche la forma cinematografica, con la macchina da presa. Volevo girare in pellicola inizialmente, ma la pellicola pone una seria questione legata alla gestione dell’improvvisazione, perché scorre, finisce. Era una bella idea romantica ma non avrebbe funzionato, perciò siamo passati al digitale. E le riprese sono state fatte a fasi, in maniera progressiva perché rispondevano al metodo in evoluzione.

Riguardo al tema, Lala è la storia di una donna rom ma soprattutto di una donna: è casuale o voluta la scelta della troupe al femminile?

Nulla è casuale in questo progetto, soprattutto la troupe. Credo che ci sia una questione molto forte legata alla violenza di genere e allo sfruttamento, soprattutto quando sei una donna senza diritti. Una donna senza diritti è molto più esposta di un uomo senza diritti. Questa è stata scelta che mi ha portata a cercare una persona come Zaga e la troupe al femminile è un’estensione di questo pensiero. Ognuna di loro è stata un compagna di viaggio molto generosa. Lala voleva essere un collettivo e noi l’abbiamo abitato, poi io mi sono presa la responsabilità di sintetizzarlo e fare alcune scelte, quindi ho firmato la regia.

Samanta Paunković in Lala

Samanta Paunković in Lala. Courtesy of Transmedia Production

È corretto allora dire che questo suo cinema sia politico, legato all’empowerment femminile?

Sì, è cinema politico soprattutto nella forma, perché pone il pubblico a una distanza critica, come un momento di “sospensione brechtiana”. E per me è una forma di liberazione dello spettatore. Il fatto di riflettere sulla natura di ciò che si sta guardando secondo me è politico in sé. Non lo dico io, lo diceva bell books, insieme a molte pensatrici femministe della lotta per i diritti civili. È una riflessione che si è sviluppata nell’arco degli ultimi 50 anni.

Qual è allora il suo obiettivo con Lala?

Spero prima di tutto che il film vada bene nelle sale, per dare la possibilità ai ragazzi e alle ragazze che hanno partecipato di sentirsi presenti e rappresentati nella società civile, andare al cinema a parlare con il pubblico, avere contatti diretti. Questa è anche una forma di superamento dei muri del pregiudizio e di abbattimento di alcune grosse barriere invisibili. Poi per me sarebbe importante che circolasse un film in cui un corpo femminile non normativo, diverso da quelli normalmente rappresentati, sia sullo schermo. E sarebbe bello, a proposito di distanza critica ed educazione ai media, che nelle scuole ci fosse un dibattito su cos’è il cinema oggi, quali sono le storie che vogliamo raccontare. O sul perché ci sono storie che ancora non raccontiamo. Credo, e crediamo, in un cinema popolare, non elitario, quindi vorrei che Lala portasse in sala persone di tutti i i tipi. Non vuole essere un film difficile che ti arrocca in posizioni intellettualistiche, ma che ti rende parte di una storia.