Michele Riondino e l’esordio da regista: Palazzina Laf è il mio personale tributo alla festa dei lavoratori

Direttore artistico dell'Uno Maggio di Taranto, insieme a Roy Paci e Diodato, l'attore pugliese racconta l'esordio da regista. Dal set al concerto, con un solo obiettivo: convincere l'opinione pubblica che quello di Taranto è un problema che riguarda tutti

Le riprese di Palazzina Laf, che ha visto per la prima volta dietro alla macchina da presa Michele Riondino – tra i direttori artistici del concerto dell’Uno Maggio di Taranto – sono finite l’anno scorso. Per il suo battesimo di fuoco alla regia l’attore pugliese, 44 anni, ha scelto una storia legata alla sua città, Taranto, alla fabbrica, al lavoro e agli operai, riunendo nel cast Elio Germano, Vanessa Scalera (diventata popolare grazie alla fiction Imma Tataranni -Sostituto Procuratore) e Domenico Fortunato. Produce la società tarantina Bravo con Palomar, già dietro alla serie spin-off Il giovane Montalbano, interpretata proprio da Riondino.

Da sempre in prima linea contro l’inquinamento, e  le aziende che hanno gestito e gestiscono il centro siderurgico di Taranto, l’attore ha scelto di dedicare la sua prima produzione da regista proprio alla Palazzina Laf, acronimo di laminatoio a freddo (ma il titolo del film, Palazzina Laf, potrebbe essere provvisorio). In quell’edificio venivano confinati dai proprietari dell’azienda siderurgica tutti gli impiegati e magazzinieri che si opponevano al declassamento attraverso la cosiddetta “novazione” del contratto: la cancellazione della mansione svolta fino a quel momento, sostituita sul contratto da una nuova posizione da operaio. Chi non accettava era destinato alla Palazzina Laf, dove veniva “piazzato” e pagato per non fare nulla.

I lavoratori privati della loro dignità e inviati nel “lager”, come venne etichettato quel posto a fine anni ’90, furono 79. Una massa di persone che si aggiravano per i corridoi, senza avere a disposizione uffici e strumenti per lavorare, in attesa che scadessero le otto ore d’ufficio. Nel novembre del 1998 l’allora procuratore Franco Sebastio, insieme ai Carabinieri, “liberò” quei 79 lavoratori. La storia culminò in un processo che condannò in tutti i gradi di giudizio i responsabili e gli alti dirigenti dello stabilimento.

Il cinema può aiutare a raccontare il dramma di Taranto? 

In questi anni ho ricevuto più di una proposta per raccontare, in maniera laterale, l’eterno problema di Taranto. Ho sempre rifiutato perché quei progetti non mi sembravano né efficaci, né corretti. Essendo io stesso tarantino, ho una vicinanza più oggettiva con la realtà. Non vorrei peccare di presunzione, ma ci ho messo sette anni per scrivere il soggetto del film, che ho girato l’anno scorso. Non parla della questione ambientale, ma di quella lavorativa. Parla dei problemi dei lavoratori. In tutto questo tempo il cinema ha provato a raccontare Taranto, ma non ho mai trovato una sceneggiatura o una storia che rispettasse la mia idea di verità. Ci ho messo tutta l’anima e tutto il tempo necessario.

Lo fa per sensibilizzare l’opinione pubblica?

Il film racconta Taranto, ma anche una specifica condizione di lavoro. Parlo di mobbing, che è uno stato universale: qualunque lavoratore, ovunque, può trovarsi in quelle condizioni. Parlo di una storia grottesca, scritta spero senza piagnistei, senza drammi, una storia tutto sommato anche divertente. Grottesca perché la vita è grottesca. Quel che accade nel film è successo davvero, in quell’epoca e in quella fabbrica. Forse non smuoverà il sistema, ma magari potrà informare meglio qualcuno.

Recita? Quando uscirà?

Ne ho curato la regia e l’ho interpretato anche io, insieme a Elio Germano e altri amici. Uscirà l’anno prossimo.

Ha ancora senso organizzare L’Uno Maggio di Taranto? 

La prima cosa che ci siamo chiesti con i miei colleghi, dopo dieci anni, è se esistano ancora motivi per essere qui e urlare le nostre verità, per raccontare la nostra storia. La risposta è che è ancora necessario, purtroppo. In dieci anni la città è diventata una piazza importante per la festa dei lavoratori. Quella di Taranto è un’arena necessaria per parlare di tutte le mancanze, del non lavoro, delle promesse non mantenute, del problema ambientale che è rimasto fermo a dieci anni fa. Impianti dichiarati non compatibili con la vita umana, a dieci anni di distanza sono ancora lì, sequestrati ma attivi. E continuano a devastare l’ambiente e la salute dei cittadini.

Non è proprio cambiato nulla?

Basta leggere le dichiarazioni dei sindacalisti, dei politici, degli industriali, del Governo, che pretendevano di contenere il problema tutelando il lavoro, senza risolvere la questione ambientale e sanitaria. Fuffa: lo dimostrano i fatti. I posti di lavoro non sono stati tutelati, i nuovi proprietari pretendono ancora cassa integrazione, gli indotti non sono stati pagati, la questione sanitaria non è stata risolta, quella ambientale nemmeno. Qui si continua a morire di cancro. Diversi lavoratori sono morti in fabbrica, dal 2012 a oggi.

Morire di fame o morire di tumore. Il ricatto resta?

Per questa città è la normalità. Il tarantino vive una anormale normalità: accetta un destino fatto, in un modo o nell’altro, di morte. Una prospettiva drammatica, dal punto di vista delle libertà e dei diritti. In questa città si muore, di fame o di tumore. La politica non sa affrontare il problema, perché tutti i partiti sanno che su Taranto si sporcherebbero le mani di merda, di fango, di sangue. Nessuno vuole affrontare il punto, ovvero la mancanza di diritti costituzionali. Lo ha dichiarato la Corte Europea: i tarantini vivono un corto circuito di giustizia e di diritti.

I colleghi sono sensibili al vostro appello?

Quando ho pensato a questo evento, Roy (Paci, ndr) e Antonio (Diodato, ndr)  hanno sposato subito la causa. Abbiamo sempre parlato di un concerto, quindi è il mondo della musica a essersi sentito chiamato in causa. Per quanto riguarda il cinema, ci penserà il mio film. È il mio personale Uno Maggio.

Salire su quel palco: per dire cosa?

Vogliamo coinvolgere l’opinione pubblica. Affronteremo il problema con Valentina Petrini (la giornalista d’inchiesta tarantina, ndr), parleremo di democrazia diretta. Dell’ignoranza della maggioranza, quando prende decisioni sottovalutandone le conseguenze, e dei difetti della democrazia moderna.

E’ fiero di essere tarantino?

Molto. Decisamente.

Cosa le ha dato Taranto e cosa le ha tolto? 

Mi ha tolto la possibilità di alimentare la mia passione, perché sono dovuto scappare da qui per fare il mio lavoro. Ma pur levandomi questa possibilità, mi ha dato il privilegio di conoscere il mondo. E di tornare.