Napoli Centrale. Una veloce scorsa all’orologio, l’altra a Google Maps. Mad Entertainment, 33 minuti a piedi. Un’occasione d’oro. L’oro di Napoli, che nell’episodio I giocatori di e con Vittorio De Sica, è stato girato proprio a Palazzo Pandola, che alla fine di una splendida passeggiata, tra vestigia del terzo scudetto del Napoli di una Napoli ancora grata e gli angoli di una città sfacciata nella sua bellezza distratta, ti si para davanti.
Ti sembra di vederli il Conte Prospero e Gennarino giocare a scopa. Il primo perdere, il secondo vincere riluttante, perché vorrebbe giocare a palla. E quando prendi l’ascensore che ha più di un secolo, la guardi da sopra e per un attimo Sophia Loren-Filumena Marturano sembra parlarti da una scena di Matrimonio all’italiana.
Mad Entertainment, il sogno diventato realtà
Entri. Senza suonare, senza farti annunciare. La sede della Mad Entertainment è uno di quegli spazi magici napoletani in cui la pianta dell’immobile ha una sua unicità, un piccolo dedalo sulle cui parete c’è cinema, ovunque. Film prodotti, voluti, cercati o semplicemente amati. Saranno centinaia, un caos di registi, attori, storie che lì sembrano avere una coerenza chiara. Ti perdi, volentieri, in quei sogni.
Mad Entertainment. Mad. Pazzo, pazza. Perché un po’ bisogna esserlo, per immaginare un’impresa così. MAD, l’acronimo di Movies, Animation and Documentaries (anche se in origine la M stava per Music, malattia da cui qui tutti sono affetti, testimoniata dagli studi di registrazione ancora presenti).
Luciano Stella, con i figli Carlo e Lorenza e la sodale di sempre Maria Carolina Terzi aspetta, sorridente e gentile. Con un regalo, una sorpresa. Le prime immagini dell’opera più attesa della factory boutique napoletana, tratta dall’omonima graphic novel a firma di Saviano e del fumettista israeliano Asaf Hanuka, uno dei più importanti disegnatori israeliani che ha lavorato a Valzer con Bashir. Sono ancora vivo, il titolo, una coproduzione internazionale MAD Entertainment e Lucky Red (Italia), GapBusters (Belgio) e SIPUR (Israele). Il film è scritto dallo stesso Saviano con Alessandro Rak, Filippo Bologna, Stefano Piedimonte. Un’autobiografia animata. Dal coraggio di Roberto, politico, sociale, narrativo e ora anche cinematografico.
Ha vinto il Premio Eurimages per la Coproduzione alla 25ma edizione del Cartoon Movie di Bordeaux. “Il mio film è la storia di un ragazzo di 26 anni condannato a morte da un’organizzazione criminale – racconta Roberto Saviano – Un ragazzo cresciuto in una terra dove – in una manciata di anni – la camorra ha ucciso 4000 persone. La condanna arriva a quel ragazzo perché ha deciso di scrivere quello che vede intorno a sé. Ecco. Quel ragazzo sono io. Sono ancora vivo è il film con il quale ho deciso di riportare sullo schermo quello che fin oggi ho vissuto”
Immagini belle e potentissime – ma è ancora presto per dare ulteriori dettagli – e allora volentieri racconta, il 69enne geniale produttore (ed esercente in passato e distributore e maieutico levatore di progetti), di un’avventura infinita e bellissima.
Le scarpe di Alessandro Rak
Indica disegni, cimeli, foto, locandine. Tutto ha una storia, a partire dalle scarpe di Alessandro Rak, l’autore de L’arte della felicità, che ha da pochi mesi compiuto 10 anni. Il film, non il regista, che pure si porta benissimo i suoi anni. Che sembrano sempre 40, da quando ne ha 25. Tutti erano convinti fossero un portafortuna, in realtà erano le uniche calzature eleganti dell’artista. Due anni dopo la messe di premi vinti con quel lungometraggio che iniziò la sua cavalcata trionfale dalla Settimana della Critica di Venezia per arrivare agli Efa, si ruppero definitivamente.
Vecchissime, Rak non poté buttarle. Sono diventate le ospiti d’onore della sala principale di Mad. “Lo conosci Alessandro, anche adesso ha quella faccia un po’ così, da studente fuori sede, lo avevo convinto a farsi un abito su misura per gli European Film Awards. Andammo in giro per i migliori negozi e sartorie di Napoli, tutti pensavano fossimo una coppia, perché volevo regalarglielo. Ma lui a un certo punto, a misure prese, esce fuori dal negozio e dice “non ce la faccio”. E mi porta ai Quartieri, dove si compra un normalissimo abito nero. Fortuna che è ‘nu bello guaglione e gli stava bene uguale. Sulle scarpe non sentì ragioni. Mi dice “ho queste” e mi indica quelle che ha i piedi, marroni e sfondate. Quando non è più riuscito a metterle ho preteso di averle e di incorniciarle”.
Tutto parte da Martin Scorsese
Ma tutto parte da Martin Scorsese. Da Taxi Driver. “Sì, ero stato assunto nell’ufficio auto pubbliche a Milano, predisposto alle licenze per i taxi. Me la feci incorniciare e la misi lì in bella vista”. Una provocazione elegante, nello stile di quest’uomo ironico, acutissimo e giocoso, pur nascosto da un’eleganza aristocratica tutta sua.
E ancora animali fantastici, gli innamorati del bellissimo video che fecero per i Foja – Dario Sansone è uno dei registi di MAD -, la locandina de La Parrucchiera di Stefano Incerti “perché ci proviamo sempre a fare anche film non d’animazione, quello fu un tentativo mio e di Maria Carolina di creare un immaginario napoletano diverso, quasi bollywoodiano”.
Dopo qualche minuto lo riconosci. Se provi a immaginarlo senza tutte quelle immagini e cornici, è lui, è proprio l’appartamento de L’oro di Napoli, e l’ascensore è quello che prende Vittorio De Sica per andare a giocare a carte.
“Era l’ufficio di mio padre, che faceva il distributore. La sua storia è particolarissima: iscritto a economia e commercio partì per la guerra. Faceva qualche lavoro per la Minerva Film, ma poi va al fronte, finendo subito prigioniero a Tobruk, in Libia e trasferito in un campo di concentramento in Australia, perché a catturarlo erano state le truppe del Commonwealth. E lì, organizzava le proiezioni di film, traduceva dall’inglese per gli italiani e dall’italiano per gli anglosassoni. La lingua la imparò proprio durante la prigionia e gli fu utile al ritorno, perché sapeva di cinema e conosceva la lingua di Hollywood, così divenne il distributore della Universal e dei nordamericani in generale. Che poi allora quello era il cinema d’autore, di nicchia, i film commerciali erano quelli italiani, il cinema americano non era mica dominante al botteghino come ora”.
Guarda fuori dalla finestra. Sembra che un viaggio nel tempo si srotoli davanti ai suoi occhi. “Piazza del Gesù Nuovo era il mercato della distribuzione cinematografica, come a Roma erano gli isolati dietro la stazione o a Milano Via Superga. Qui c’erano i depositi delle pellicole, da qui partiva a arrivava tutto, in questa piazza arrivavano dalle province per prendere i film”. E nell’appartamento, non a caso, ci sono ancora gli scaffali rinforzati, con tanto di rostri, dove si tenevano le famose “pizze. Qui c’era una confusione, non sai quante pellicole si sono rubati, alcuni lo facevano per rimetterle nel mercato clandestinamente, altri, non pochi, per farsi la propria cineteca personale!”.
In principio fu il Modernissimo
Torna nel 1985, Luciano Stella, dopo tutt’altro percorso. “Facevo politica e molto altro, il cinema non l’avevo neanche sfiorato. Avevo 31 anni, non ero neanche così giovane. Però mi sono subito appassionato, tanto che sempre da queste parti poi aprimmo nel 1994 il Modernissimo, mentre tutti annunciavano l’ennesima morte del cinema noi scommettevamo su un multisala d’autore e allo stesso tempo pop, che proprio nel 2024 fa 30 anni. L’abbiamo tenuto fino al Covid, ora è della catena dei Lucisano. Ci siamo voluti concentrare sulla produzione, ma il Modernissimo era il luogo in cui essai e i grandi film Disney, come il Re Leone, si incontravano e convivevano. Un po’ quello che ora succede a Milano, con l’Anteo”.
Il cinema non muore, finché ci sono realtà come MAD. “Non muore, come non muore il teatro greco, magari si sposta. La sala cinematografica non è più centrale come prima, ma gli spettatori cercano ancora questa forma di narrazione, che è rimasta centrale nel nostro immaginario. Da appassionato di musica – Luciano accenna un piccolo sbadiglio, è appena tornato da un paio di migliaia di chilometri fatti per godersi un concerto di Sting, per il secondo anno consecutivo, a Milano – capisco che un certo tipo di esperienza è irripetibile e insopprimibile. Vale per un live, un concerto o per una proiezione con cast e regista presenti, magari. Cambia il modo di fruire l’arte: un tempo spendevi centinaia di migliaia di lire per i cd o i dvd, ora invece migliaia di euro per i concerti o i festival”.
L’arte della felicità, il film che fu Festival. E che ha fatto nascere Mad Entertainment
Festival, la parola magica. “Sì, organizzavamo questa iniziativa che non c’entrava col cinema, una manifestazione di parola, un festival
culturale dove erano venuti registi come Bellocchio e intellettuali come Marc Augé, grandi filosofi, a partire da Zygmunt Bauman, e ancora psicologi e monaci, uno sguardo non accademico sulle emozioni e si chiamava appunto L’arte della felicità. Volevamo farne un documentario, ma non bastava. Bisognava andare oltre e cominciò a rodermi il tarlo che per rendere tutto quello che rappresentava e provocava quella realtà, servisse la libertà e la bellezza dell’animazione”.
Comincia, Luciano Stella, a girare con questo progetto pazzo. “Ma quell’idea era un guazzabuglio, l’unica a crederci subito fu Maria Carolina Terzi e ancora mi chiedo com ha fatto a capirla e da lì nasce quel film ma anche MAD, coinvolgendo Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e via via sempre più persone tra cui Dario Sansone (i quattro poi dirigeranno il bellissimo e coraggioso Gatta Cenerentola). Anche se ho continuato a fare il distributore e e l’esercente, vedevo crescere questa realtà tra il talento cristallino di Alessandro e la capacità di Ivan di trovare sempre soluzioni straordinarie, trasformando regolarmente il limite in opportunità, che credo tuttora essere uno dei nostri tratti distintivi”.
Ora MAD obbedisce sempre di più al suo acronimo, la M di Movies ha visto esperimenti meravigliosi e coraggiosissimi e diversissimi, da Achille Tarallo di Antonio Capuano a Rossosperanza di Annerita Zambrano. Un pop d’autore che è quello che ci piace”. Come Caracas – con Toni Servillo e Marco D’Amore, che ne è anche il regista – in uscita il 29 febbraio 2024.
“Il titolo prende spunto dal soprannome del protagonista del romanzo Napoli Ferrovia di Ermanno Rea. A noi piacciono le cose difficili ed è diventata una piccola ossessione portare questo genio della letteratura al cinema, con i suoi libri larghi e complessi. Come abbiamo fatto per Nostalgia, Mario Martone lo abbiamo chiamato noi e poi abbiamo portato avanti il tutto in alleanza con Pico Media, stesso modello produttivo e creativo seguito ora per Caracas“.
E ancora “Crazy for Football, documentario che ha vinto il David Donatello e la fiction Rai a esso ispirata. Nasce tutto da quel no budget, L’arte della felicità. E dire che l’animazione non si improvvisa, e infatti non lo facemmo. Ma da quel miracolo artistico e produttivo, da quel lavoro che sembrava impossibile nacque questa società. E nasce tutto da un nucleo di animatori indipendenti, degli underdog, che quando riesco a spiegare la mia idea mi dicono: l’unico che ti può aiutare è Alessandro Rak. A lui confessai che l’idea dell’animazione per raccontare la magia di quel festival che non riuscivo a spiegare mi è nata con Valzer con Bashir (il cui designatore ha lavorato con Saviano alla graphic novel Sono ancora vivo), l’idea che Sabra e Shatila potesse essere raccontata così era geniale.
Gliene parlo, convinto che mi avrebbe sparato, lui è un austriaco nell’animo, ha un carattere bello ma molto particolare. E infatti strabuzza gli occhi. Poi chiede un attimo di pausa, scende, fa una telefonata, probabilmente per chiedere a qualcuno informazioni su di me. Mi aiutò il fatto che fossi più vecchio di lui, sembravo adulto e responsabile. Sembravo. Accettò, ma premettendo che lo avremmo scritto insieme. Aveva ragione, quello che gli avevo portato era incomprensibile, era un desiderio, un’idea. Io gli sono stato utile come pungolo, lui deve lavorare per qualcun altro e sentire la responsabilità, è quell’architetto che se ha un terreno a completa disposizione si blocca, ma se ne ha uno scosceso e in mezzo c’è uno scoglio, una roccia o una cascata diventa Frank Lloyd Wright, l’opera artistica meravigliosa te la realizza sul limite”.
I dieci anni de L’arte della felicità. Ma Mad Entertainment nasce sopra un cinema
Il resto è quasi un romanzo picaresco. “Prendo una stanza sopra il Modernissimo, la riempio di tavoli stile Ikea e faccio una mini installazione con pc e altro perché sembrasse un vero studio d’animazione, una render farm. Poi scopriamo Blender, un software proprietario open source di un olandese che era free e permetteva a tutti di usarlo condividendo evoluzioni, aggiornamenti e migliorie con tutti. Certo, essendo on line, poteva crashare da un momento all’altro, rischiavamo ogni giorno di perdere tutto il lavoro, vivevamo in uno stato di costante e febbrile terrore!
Ma fu una scelta giusta, conta che Gatta Cenerentola è interamente realizzato in Blender, che è una cosa bella non solo produttivamente, ma anche politicamente. Condividere, invece che competere l’uno contro l’altro. Noi fummo i primi a realizzarci un lungometraggio con quel programma, lo collaudammo, poteva davvero succedere di tutto”.
E così accadeva negli uffici della nascente MAD, che annoverava “un concentrato della tipica genialità napoletana. Da noi è arrivato persino un genio, Paolino, che divenne ammiratore perché voleva fare un corso regionale d’inglese ma sbagliò stanza. E fece quello di animazione. Meno male”.
Nessuno riesce a credere a quello che sta succedendo, a quel film che prende forma. Quando cominciano a mostrare L’arte della felicità per venderlo, quando cominciamo a girare l’Europa, i mercati e i festival d’animazione, “ci chiedono il budget. Che è praticamente zero e quindi mentiamo. Diciamo, pensando di esagerare, “un milione di dollari”. Scopriamo che il nostro concorrente più sfigato ne ha spesi almeno trenta”. Non è un momento facile. “Nessuno ci prende sul serio. Tranne Antonio Fresa, che vuole farci le musiche. Poi, a un certo punto, dalla Francia arriva una società, Elle Driver (il nome del personaggio di Daryl Hannah in Kill Bill), una boutique studio di vendita, e così abbiamo un distributore estero. Prima di Venezia! Cambia tutto e inizia un sogno: arriviamo in Laguna, per tre o quattro giorni non si parla altro che di noi”. È il 2013. Sono dieci anni da quando quel capolavoro ha cambiato il destino di molti artisti e di un genere, l’animazione europea “che non vuo’ fa l’americana, perché esplosioni ed effetti speciali riusciranno sempre meglio a loro. Dobbiamo mantenere la nostra personalità unica, europea, fatta di un livello qualitativo altissimo e di una sensibilità estetica diversa”.
Mad Entertainment, la factory boutique
Raramente si è vista una cosa del genere, nei festival e nell’animazione. E Stella non si accontenta. Vuole una factory. “Ma che mantenesse quella filosofia di lavoro. Non so se è stata una scelta solo industriale rimanere indipendenti, mantenere il controllo di tutta la filiera, mantenere un impronta arthouse, immaginando un’animazione adulta. Siamo rimasti una boutique studio quando ancora non era di moda. Ora con A24 tutti scelgono questa strada, ma quando abbiamo deciso di farlo noi non era così scontato, con altre dimensioni di esempi così avevamo solo Miramax e Pixar, che comunque avevano tutt’altra dimensione, economica e produttiva. Nel nostro caso ti privavi di una serie di processi industriali, come la serialità televisiva, decisamente redditizi”. Ma vuol dire, voleva dire, non perdere un’identità già precisa, riconoscibile.
“È un po’ come aver scelto questo palazzo come sede: non ci puoi arrivare in macchina, devi calarti nella città, a piedi, devi viverla. E tenere tempi non frenetici. Rimanere umano tu e a misura d’uomo il lavoro. Per noi è rimasta fondamentale la qualità della vita. Un po’ alla studio Ghibli, ma senza quel mercato domestico enorme che ti dà opportunità infinite”. Poi con Food Wizards (ora venduto a Netflix, un altro grande passo per MAD) arriva pure la serialità e di grande successo: 28 milioni di visualizzazioni, 26 puntate di 11 minuti che Ivan Cappiello è riuscito a domare e governare”.
Una terza via alternativa all’industrializzazione alla Rainbow o l’arthouse spesso frutto di coproduzioni all’esteri dei D’Alò o dei Mattotti. “Ci ha forse aiutato anche l’essere periferici e napoletani, un limite anche qui divenuto un’opportunità. Un esperimento unico in cui abbiamo formato generazioni di animatori, un modello economico e creativo in cui puoi fare cose belle con buone performance, senza diventare società di service o catene di montaggio, ma crescendo nella pipeline internazionale artistica e produttiva, rimanendone i leader. Poi ci sono collaborazioni, per cui adesso per alcune cose, ad esempio lavoriamo con il Belgio (e francesi e israeliani), per ottimizzare alcuni processi. Poi conta anche dove sei: ti faccio un esempio da ex esercente. Qui a Napoli e dintorni avevamo 3000 cinema e 2964 proprietari, questa zona è naturalmente individualista, lo dice anche un vecchio detto. “La migliore società è formata da una persona”. Io in questo sono diverso, se ho un talento é quello di mettere insieme caratteri e talenti differenti e farli convivere e lavorare insieme”.
Napoli è New York
Con le radici ben piantata dentro Partenope. “Napoli è New York, Napoli è commedia e crime, il territorio è già di suo cinematografico. Compriamo libri, abbiamo idee, ma non riusciamo a prescindere da questo luogo meraviglioso e complesso. Che partorisce storie e caratteristi naturalmente, che ama il cinema e ama l’arte che parla di lei. Guarda la Campania, nessuna regione incassa con film fatti dentro i suoi confini come lei. Napoli con il suo cinema è una sorta di Motown nera, questo è un posto in cui Salemme può battere Guerre Stellari. E in cui la commedia regna, da Roma in giù c’è il 70% degli incassi per questo genere. Questa è una sorta di repubblica indipendente dove gli artisti autoctoni riempiono i teatri. E piacciono fuori, vedi Nostalgia, storia napoletanissima che è stata venduta in 42 paesi”.
Il motivo è semplice “che appunto Napoli è come New York, ha accolto lo swing di Carosone, un crooner come Peppino Di Capri, il blues di Pino Daniele come se fossero parte integrante e normale della propria cultura. D’altronde si dice che la canzone napoletana sia nata fondendo la poesia partenopea con la musica portoghese, il fado, e infatti siamo un impasto di francese e spagnolo, pure in cucina mischiamo cose stranissime. Il problema è che qui non c’è indotto e allora fai fatica a costruire qualcosa. E questo limite, se lo superi, come ho già detto diventa appunto opportunità: vi prego non chiamatela arte dell’arrangiarsi, parliamo di talento e capacità, di una società che parte da 7-8 persone e ora ne ha 40, che ha un fatturato dieci volte più grande di quando ha iniziato e in un settore, l’animazione, in cui un film sono tre anni di lavoro, non 4, 8 o 12 settimane come nel live action. Ci sono persone che sono qui da 13 anni, altri appena arrivati, chi come me e Carolina porta l’esperienza e chi, come i miei figli, Carlo e Lorenza che portano studi e gioventù e proposte”.
Proposte, novità, che continuano ad arrivare. E che Luciano Stella, affiancato da Maria Carolina Terzi appena diventata presidente di Cartoon Italia, racconta. “Uno su tutti, emblematico, è Nottefonda di Giuseppe Miale di Mauro, il regista del NEST (Napoli Est Teatro) con Francesco Di Leva, che per noi è un progetto creativo e anche politico.
Per noi è l’esordio di un nucleo artistico fondamentale per questa città, perché lì hanno reinventato e rovesciato De Filippo con Il sindaco del Rione Sanità poi portato al cinema da Martone. E lo hanno fatto a San Giovanni a Teduccio, ex zona comunista e operaia, in una palestra che hanno fatto diventare il centro di gravità permanente della sperimentazione culturale di questa città. Hanno occupato un luogo dimenticato e l’hanno reso una fabbrica di sogni e cultura, nel Bronx, lì dentro c’è un’energia incredibile. E infatti la storia è fortissima, con uno switch incredibile. E con Francesco c’è Mario Di Leva, sì, suo figlio, che ha fatto il duetto con Amadeus al Sanremo scorso”.
Luciano Stella sorride. Guarda quelle mura, sembra riascoltare le sue ultime parole e già sempre pregustare le prossime scene che vedrà, la prossima avventura. Sempre a Napoli, per proiettarsi nel mondo.
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