“Siamo solo noi? Bene. Intimo”. Austin Butler, t-shirt bianca alla James Dean e jeans, accoglie così THR Roma verso la fine di una giornata di interviste. Al suo fianco Jeff Nichols, regista di The Bikeriders – dal 19 giugno in sala con Universal Pictures – camicia azzurro scuro, occhiali da sole poggiati in testa e una Coca Cola nascosta dietro la sedia che, di tanto in tanto, sorseggia. I due sono arrivati alla tappa finale del tour promozionale del film. Li incontriamo in una stanza d’albergo nel centro della capitale, in lontananza il rumore della strada e della musica che arriva da piazza del Popolo.
La pellicola, ispirata all’omonimo fotolibro del 1968 di Danny Lyon, racconta le storie dei Vandals, un gruppo di motociclisti di Chicago capitanati da Johnny (Tom Hardy). Il punto di vista è quello di Kathy (Jodie Comer), una giovane donna che incontra e si innamora di uno di loro, Benny (Austin Butler), finendo per sposarlo nel giro di poche settimane ed entrando in quel mondo fatto di regole diverse da quelle della società. Il suo sguardo permetterà al giovane fotografo con il volto di Mike Faist di testimoniare non solo il cambiamento del club nell’arco di un decennio, ma quello degli Stati Uniti stessi. Un Paese fondato sul mito della strada.
“La società americana è costruita sullo spazio. È un grande paese. E quindi le strade sono un collegamento naturale con questi luoghi. È tutto molto pragmatico”, sottolinea il regista. “Ci sono le macchine, dei bozzoli in cui vai in giro e che ti portano da un posto all’altro. Ma la moto è qualcosa di diverso. È più immediata e non offre alcuna protezione. Se sei uno di quegli esseri umani che sceglie di guidare una moto, stai annunciando molto chiaramente qualcosa di te stesso. Non devi nemmeno dirlo. Il che è fondamentalmente come accelerare e andarsene se ci si mette nei guai, oppure accettare le conseguenze di quello che si sta facendo”.
The Bikerriders. O di come catturare una sensazione
The Bikeriders ha avuto una lunga gestazione. Jeff Nichols ha scoperto il fotolibro per caso grazie al fratello che ne aveva una copia in casa. Una sorta di colpo di fulmine e un’ossessione che non ha mai abbandonato il regista. Il desiderio di riuscire a catturare un sentimento scaturito da quelle immagini. “Mi ci sono voluti vent’anni”, confida il regista.
“Mentre le guardavo, pensavo: ‘Perché mi fanno sentire così? Che cos’è? Di cosa si tratta veramente?’. Danny ha un occhio meraviglioso per la fotografia perché cerca davvero di arrivare all’essere umano. Sarebbe davvero facile perdersi tra le moto e i vestiti. Ma basta guardare i volti per capire cosa sta realmente facendo o quando leggi le interviste e cogli tutti i loro comportamenti negli aneddoti. Quelle interviste si leggono come monologhi. La sensazione che stai cogliendo è proprio lo spirito di quelle persone in quel momento. Una sensazione che non esiste più”.
“La prima foto è di Benny sul tavolo da biliardo”, continua il regista parlando del personaggio realmente esistito interpretato da Austin Butler. “Perché è così bello? Non lo so. Per me non è una domanda retorica. Me lo chiedo ancora. Lo riconosco come bello, però. Non so cosa dire della postura di quel ragazzo con la testa abbassata. Conosco Danny adesso. Non me l’ha detto, però ha colto quel momento. Forse c’è qualcosa in quel cercare semplicemente di catturare le persone così come sono”.
Il rumore del motore, la giacca dei Vandals, il vento sul viso, il manto stradale. Quello di Benny è un personaggio che vive di questi elementi. E che Butler ha usato per modellarlo insieme alle foto e le registrazioni raccolte tra gli anni Sessanta e Settanta da Danny Lyon. “Come ci si sente a cercare di catturare una sensazione? All’inizio, è come se fossi un detective”, ammette l’attore.
“Entri e cerchi di catturare tutti i dettagli e di capire chi sono questi esseri umani e cosa si prova nella loro pelle. Per me si trattava di provare la sensazione di essere su una moto. Una presenza incredibile e connessa a tutto ciò che stavo attraversando e non limitata all’interno di un’auto. E poi anche il pericolo che ne deriva. Il fatto che la tua vita è nelle tue mani”, prosegue Butler.
“Significava anche capire queste persone attraverso tutte le ricerche che ho fatto. Ma credo che gran parte del riuscire a catturare delle sensazioni sia stato merito di Jeff e la sua squadra. È lui il capitano della nave, sono sue le scelte di dove mettere la telecamera e quando riprendere al rallentatore o da dietro. Abbiamo parlato molto del mito di Benny nel libro. Non vedi mai il suo volto. Si trattava di catturare la sensazione di quel ragazzo che non potrai mai far sedere per un’intervista. Perché non ne ha mai concessa una”.
Il lato oscuro degli Stati Uniti
Il film non è solo il ritratto di un gruppo di motociclisti che non si sentivano parte della società e si sono aggrappati ad una passione comune. The Bikeriders è anche una fotografia degli Stati Uniti e della sua classe operaia, prima e dopo la guerra in Vietnam. Il racconto di come da club incentrato sulle moto – con tutti i limiti che il punto di vista di Kathy non dimentica mai di sottolineare per evitarne l’esaltazione – i Vandals diventano altro. E insieme a loro il Paese e tutti gli altri gruppi di motociclisti sparsi per i vari stati. “È direttamente collegato a ciò che accade ai Vandals. E probabilmente è direttamente collegato a ciò che sta accadendo ai gruppi di outsider in questo momento, non solo negli Stati Uniti. Immagino che ne abbiate qualcuno anche a Roma”, afferma Nichols.
“La verità è che questo è un ciclo che si ripete. È nella natura umana che le persone che sentono di non appartenere alla corrente principale ne escano, ne siano costrette a uscire o scelgano di uscirne poi per provare a creare qualcosa di unico che gli appartenga. È molto attraente per il mainstream”, continua il regista.
“Ma quando si parla di pericolo in questi gruppi, quello che mi interessava era che Danny non li ha fotografati perché erano pericolosi. Li stava fotografando e cercava di parlare con loro perché sentiva che erano un gruppo con cui nessuno voleva davvero relazionarsi. Stavano scrivendo storie e articoli su di loro. Ne parlavano durante le cene e dicevano quanto ne fossero spaventati. Ma nessuno si sarebbe avvicinato loro. E questo è quello che ha fatto Danny. Questo è ciò che il film cerca di fare”.
“Immagino che ai miei film sia sempre stato attribuito, giustamente o meno, il merito di mostrare persone della classe operaia alle prese con le lotte della loro vita e dell’umanità. E vedere i nostri comportamenti in loro, li umanizza. Penso che Danny stesse facendo questo con la sottocultura, che la maggior parte delle persone liquida come violenta. La cosa veramente interessante in queste interviste è che non sono solo violenti. Alcuni di loro lo sono, certo. Non nego questa parte. Ma è interessante sentire il resto. Come funziona il loro cervello”.
The Bikeriders e il racconto di un’amicizia maschile
Uno degli aspetti più interessanti del film è quello dell’amicizia tra Johnny e Benny. Perché se da un lato gioca con regole non scritte che negano agli uomini di mostrare emozioni, dall’altro mette in campo aspetti più profondi. Addirittura dolci. “Penso che entrambi volevamo buttare giù ogni barriera e far sentire i nostri personaggi collegati tra loro”, racconta Austin Butler parlando del suo rapporto con Tom Hardy e del lavoro fatto insieme.
“Tom stato molto affettuoso nei miei confronti, fraterno. Abbiamo trascorso molto tempo insieme e abbiamo fatto tutto il possibile per coltivare quel sentimento di amicizia e connessione. Abbiamo entrambi fatto i nostri compiti e lavorato individualmente. Ma poi sul set te ne dimentichi e lasci che quel rapporto evolva. Provi a trovare la vita di quel momento e cerchi di sorprenderti. Ci sono molte volte in cui Tom mi ha sorpreso con decisioni e idee che non mi aspettavo. È stato meraviglioso poter recitare davanti a lui”.
“Devo dargli molto credito per avermi aiutato a capire qualcosa di veramente importante in quella relazione”, gli fa eco il regista parlando dell’apporto di Hardy al personaggio e alla storia. “Molti dei miei film parlano di padri e figli. È un solco piuttosto profondo nel mio cervello a cui sarebbe davvero facile e molto comodo per me tornare. Ma in realtà non vedo Johnny e Benny come una relazione padre/figlio. Penso che con un attore diverso, magari più grande, che ti mette un braccio intorno e dice “Ti guardo le spalle” sarebbe stata una cosa molto facile in cui cadere”.
“Ma quel che Tom ha portato consapevolmente è che brama questo giovane: vuole ciò che rappresenta, vuole quello che ha e sa che non può averlo davvero. Gioventù, libertà, mancanza di legami. C’è un’amicizia in corso tra di loro, ma c’è anche altro”, conclude il regista. “Perché se fai un passo indietro ti accorgi che è terrorizzato da ciò che questo club potrebbe portare nella sua vita. E vuole darlo a Benny. È quasi dannoso, se ci si pensa. ‘Prendi questa cosa che penso mi ucciderà’. C’è questa corrente sotterranea nella performance di Tom. Ha una certa sensualità. Aggiunge tensione e oscurità, ma è mescolato con la fratellanza. Ma due come Tom e Austin possono reggere il peso di tutto questo”.
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