“È la mia prima volta a Roma. Spero di avere il tempo di poterla girare un po’”. Capelli lunghi, giacca scura e una gentile timidezza. Incontriamo Warwick Thornton su un divanetto di Casa Alice. Il suo film, The New Boy, dopo essere stato presentato nella sezione Un Certain Regard di Cannes 76 è ora una delle proiezioni speciali che arricchiscono il programma di Alice nella città. Una storia ambientata nell’Australia degli anni Quaranta dove un orfano aborigeno (Aswan Reid) viene portato in un monastero e affidato alle cure di Suor Eileen (Cate Blanchett).
Un film che parla di colonialismo da un punto di vista inedito, unendo tematiche importanti come la fede ad elementi magici. “È quasi come se oggi i colonizzatori avessero la penna. E ora noi colonizzati, noi indigeni, avessimo il cinema. Stiamo cercando di raccontare la nostra versione della storia”.
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Ha lavorato a questa storia per quasi 20 anni. Poi Cate Blanchett si è unita al progetto. Cosa pensa abbia aggiunto il suo punto di vista?
Originariamente il personaggio di suor Eileen era un prete. La sceneggiatura originale si chiamava Padre e figlio. Era come un albero o un cespuglio che non avrebbe mai fiorito. In parte perché probabilmente non era scritto molto bene (ride, ndr). In Australia abbiamo molti problemi con i preti e la pedofilia. Come in tutto il mondo, del resto. Se l’avessi lasciato così, anche se il film non trattava quell’argomento, ci sarebbe sempre stata la sensazione che il tema fosse quello. Poi durante il Covid è arrivata Cate.
Parlavamo del fatto che dovevamo fare un film insieme perché eravamo entrambi bloccati da quella situazione. Ricordo che le dissi: “Magari puoi leggere la sceneggiatura. Parla di un prete, ma scambiamolo con una suora mantenendo l’arco del personaggio originale facendole fare tutto quello che avrebbe fatto lui”. Così, all’improvviso quell’albero è fiorito ed è stato bellissimo. La sceneggiatura ha iniziato a funzionare. È bastato che si allineassero alcuni elementi perché il film potesse brillare.
Il suo film parla anche grazie ai paesaggi. Come ha lavorato su quelle inquadrature e cosa rappresentano per lei?
Sono cresciuto in una città molto piccola dell’Australia centrale. Avevamo un solo cinema, che proiettava esclusivamente film di Hollywood come Lo Squalo e Guerre Stellari. Insomma, quel tipo di cinema. Poi, all’inizio degli anni Ottanta, sono arrivate le VHS. E improvvisamente potevi scegliere i film che volevi vedere, anche se su un televisore, rispetto a quelli che ti venivano proposti in sala. È così che ho scoperto Sergio Leone, e tutti gli straordinari western che ha fatto. Ed è lì che, da qualche parte nel mio cuore, il paesaggio è diventato così importante. Sono cresciuto nel deserto dove, da aborigeno, il paesaggio è centrale. I miei antenati e i loro spiriti sono lì. Forse, in modo subliminale, ho collegato me e la mia spiritualità a Sergio Leone e a Federico Fellini. È per questo che è così bello essere qui a Roma, una sorta di paradiso cinematografico.
I suoi personaggi sono speculari. Sia il ragazzo che suor Eileen cercano di sopravvivere. Lei fingendo che il prete del monastero sia ancora vivo, lui ritrovandosi lontano dalle sue radici. Era interessato a mostrare due personaggi che lottano per rimanere in equilibrio?
Penso siano entrambi innocenti. Non volevo tracciare una linea di demarcazione che dicesse: “Non ci sono buoni o cattivi in questo film”. È solo pura sopravvivenza. Suor Eileen è ingenua, il che è un po’ pericoloso. Lo stesso vale per lui. Ha dei poteri magici, ma non sa come usarli correttamente. E li mette in pratica per le ragioni sbagliate. Non tanto per guarire chi ne ha bisogno, quanto per arrivare primo alla fila per il cibo. In un certo senso sì, viaggiano davvero sullo stesso binario. Cercano entrambi di sopravvivere.
Aveva dei riferimenti visivi pittorici o scultorei? La locandina del suo film ricorda La Pietà di Michelangelo
Ci sono molti grandi italiani nel film. Non sono riferimenti chiari, ma subliminali. Non progetto un’inquadratura perché rimandi a un grande pittore o scultore ma ci sono comunque. Non sono io a controllarlo. É quasi come se fossero loro a controllare me.
La colonizzazione è uno dei temi del film, ma l’affronta in una nuova prospettiva. Perché ha scelto questo approccio?
Quando fai un film vuoi che la narrazione sia senza tempo. Così cerchi di bilanciare gli elementi a tua disposizione. “Funziona davvero nel presente anche se parla del passato?” Conosciamo la tragedia del fascismo. Ma oggi sta risorgendo. Credo che si tratti di un ciclo. Come esseri umani, impariamo davvero qualcosa dal passato? Continuiamo a dimenticare. Se si riesce a rendere il film senza tempo nonostante il periodo in cui è ambientato, credo ci si trovi narrativamente al sicuro.
Il cinema è sempre politico. Ma per lei, regista aborigeno, cosa significa fare film?
Penso che sia un’occasione per far sentire la voce della propria comunità. È incredibilmente importante come regista o narratore indigeno. Al momento, stiamo ancora cercando di riparare ai torti subiti. Lo facciamo raccontando storie vere. Sono molto onorato di avere accesso allo schermo cinematografico. E non voglio sprecare quest’opportunità. Voglio parlare di verità, di temi che devono essere raccontati. È quasi come se oggi i colonizzatori avessero la penna. E ora noi colonizzati, noi indigeni, avessimo il cinema. Stiamo cercando di raccontare la nostra versione della storia.
Due leggende della musica come Nick Cave e Warren Ellis hanno lavorato alla colonna sonora.
Li conosco da molto tempo, ma non avevamo mai lavorato insieme. Avevo comprato loro musica per altri miei film, ma si trattava di qualcosa di già esistente. All’inizio ho detto loro: “Faremo un film molto scarno di musica, molto simile al cinema italiano degli anni Settanta. Sarò incentrata sul respiro, una specie di colonna sonora dell’aria”. Poi abbiamo fatto un primo montaggio. Ed è stato proprio il film a richiamare una grande colonna sonora. Era come se quelle immagini dicessero: “Come osi cercare di farmi diventare un film piccolo? Io voglio essere un grande film”.
E a quel punto cos’è successo?
Ho dovuto chiamare Warren e Nick e dire loro: “Ok, mi dispiace davvero tanto. Ma il film mi ha chiesto di dirvi che voglio una grande colonna sonora. Un sacco di violini, un sacco di violoncelli (ride, ndr). E loro hanno risposo: “Oh, merda”. Perché non fanno questo tipo di colonne sonore. Li ho davvero messi fuori dalla loro zona di comfort. Quindi non gli sono piaciuto per un paio di settimane (ride, ndr).
Aswan Reid non ha mai recitato prima. Quanto era importante per il personaggio? Perché come il protagonista, anche lui si è ritrovato in un nuovo mondo.
È interessante che l’abbia notato perché Aswan era perfetto per il ruolo. Ma ciò che era più importante del suo aspetto era che lui, in realtà, è davvero il new boy del film. È un sopravvissuto. Quando è arrivato sul set era appena uscito dal deserto. Si è ritrovato circondato da luci e camion. Come il protagonista aveva un background di sopravvivenza nella vita reale. Quindi capiva il personaggio. Quando gli chiedevo di fare qualcosa, lui rispondeva: “Oh, sì, certo. È quello che farei io. È quello che sto facendo adesso sul set”.
È anche il direttore della fotografia del film. Usa molto l’arancione. Cosa simboleggia per lei questo colore?
Difficoltà e speranza. Nel mio paese c’è una terra molto rossa e un cielo azzurro. In mezzo, se si abbinano i due colori, si ottiene questo bellissimo colore. Il cinema è diventato più blu e verde. Ma credo che abbia più bisogno di arancione (ride, ndr).
I poteri del ragazzo rappresentano l’unicità della sua eredità in opposizione al cristianesimo che vuole convertirlo?
In Australia, prima che arrivassero gli inglesi, c’erano 400 lingue aborigene diverse. Queste lingue avevano connessioni spirituali molto diverse con il mondo. Avevamo molti dei, e tutti coesistevano. Dovevano riconoscersi l’un l’altro per poter esistere davvero. Ma quando è arrivato il cristianesimo ci è stato detto che esisteva un solo dio e che i nostri dei non erano reali. È stato un pensiero così tragico che ha davvero estinto le nostre religioni. Avevano un grande potere. Allo stesso tempo, tutti i pastori sparavano alla nostra gente per sbarazzarsi degli aborigeni, così da poter mettere le loro mucche sulla nostra terra.
Per salvarci, correvamo a nasconderci nelle missioni. E loro ci dicevano: “Se venite qui non potrete parlare la vostra lingua. Non potrete cantare o ballare le vostre canzoni. Dovete solo credere in quello in cui crediamo noi”. La sopravvivenza totale. Ed ecco la metafora. Per sopravvivere, devi cambiare. A volte è molto brutto. A volte funziona.
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