30 Anni Senza Gian Maria Volonté

Sono passati 30 anni da quando è venuto a mancare quello che non sono in pochi a considerare il più grande attore della storia del cinema italiano, un titolo “ad honorem” che ci sentiamo di dargli noi, senza appello né ripensamenti: il più grande di tutti.

Ricordare un nome come quello di Volonté non vuol dire trincerarsi nei confini di un lungo elenco di fatti che si sono susseguiti nel tempo. Nessuno che ama la storia è realmente interessato a feticci e corollari, ma vuole comprendere il senso di un racconto. Chi si aspetta di trovare in queste poche righe i drammi dell’infanzia, la morte del padre fascista, l’abbandono degli studi, i lavori come contadino in Francia e i primi successi all’Accademia D’Arte Drammatica, è completamente fuori strada. La tuttologia amichettista la lasciamo di buon grado ad altri nomi più capaci nell’usare la penna a servizio di questo o quel “padrone”. Perché? Perché quando si parla di Gian Maria Volonté, non si parla solo di un attore, ma si parla di un simbolo, un punto di riferimento culturale oltre che artistico, si parla di storia. 

Contrariamente a quello che il volgo usa pensare, al netto dei nomi straordinari del cinema neorealista, da De Sica a Fabrizi, dai De Filippo a Totò, il numero degli attori italiani degni di una memoria storica non è così ampio. Sì, abbiamo avuto Sordi, Manfredi, la Loren, la Lollobrigida e via così per star nostrane che più o meno hanno anche travalicato l’oceano fino ad approdare a Hollywood, ma chi di questi era Volonté? Vien da dire, nessuno. 

Gian Maria non era una star, non voleva esserlo, era l’antieroe, o forse è meglio dire l’anti-attore, nel senso più italiano del termine. Camaleontico e capace di interpretare qualsiasi ruolo, dal drammatico alla commedia, assumendo con disinvoltura le forme che la sceneggiatura comandava, non si è mai rinchiuso in un’immagine e in un personaggio. Avete presente gli attori che tristemente tutti si ricordano solo per quel film o quella battuta? Ecco, non è il caso di Volonté che, insieme a Carmelo Bene e Gassman, componeva quello che possiamo definire il triumvirato della più sublime arte della recitazione. 

Pochi, nel tempo, si sono avvicinati ai suoi livelli. Giannini, Mastroianni e la Melato, se guardiamo al recente ieri, Servillo e forse, ma molto molto forse, Favino se guardiamo all’oggi. Tutti nomi straordinari, ma sempre un pelo sotto di lui. 

Eppure, per quanto pluripremiato con David di Donatello, Globo D’Oro, Leone D’oro e via così per un numero quasi infinito di riconoscimenti, Volonté non è mai stato l’attore delle copertine patinate e dei grandi trionfi. Nato uomo del popolo, ha vissuto da uomo del popolo e come tale è morto. 

Gian Maria non era attore perché incantato dai fatui luccichii della ribalta, dalla fama, o dal consolidamento di uno status. Il suo amore per l’arte della recitazione era mosso dal puro desiderio di essere artista, un’artista anche impegnato a livello politico e intellettuale, ma era proprio l’amore per l’arte che muoveva tutto. 

Non c’è un solo film che si dica uno, che lui non abbia scelto scientemente o per il quale abbia accettato il ruolo in funzione del guadagno. 

Da “Le Quattro Giornate Di Napoli” a “Per Un Pugno Di Dollari”, da “L’Armata Brancaleone” a “Faccia A Faccia”, e via così ricordando “Indagine Su Di Un Cittadino Al Di Sopra Di Ogni Sospetto”, “Cristo Si è Fermato a Eboli”, “Il Caso Moro”, fino a “Il Tiranno Banderas”, pur avendo interpretato ruoli sempre diversi e distantissimi tra loro, Volonté ha mantenuto la costante di uno stile unico che lo rendeva distinguibile fra mille. Le sue smorfie, i suoi occhi, i suoi sorrisi come le sue espressioni più disperate, insieme componevano una palette di colori che pochi, forse nessuno nel nostro cinema ha mai potuto vantare. 

Dicevamo che il suo impegno artistico era anche politico. Sì, perché non si può separare l’attore Gian Maria dalla sua militanza tra le file dei più autentici marxisti. Se è vero che per accettare un ruolo cercava nel copione qualcosa di più di un testo e una storia, ma voleva un messaggio, una morale che potesse arrivare allo spettatore anche se in forma allegorica, è anche vero che alcune delle sue interpretazioni più importanti le ha accettate proprio perché pregne delle ragioni della sua lotta politica, basti pensare a “La Classe Operaia Va In Paradiso”, o alla trasposizione del romanzo di Sciascia su pellicola firmata da Petri, quel “Todo Modo” con Mastroianni, la Melato e un incredibile Ciccio Ingrassia, più che un film un manifesto comunista contro il compromesso storico. A tal proposito, è giusto ricordare cosa disse in tal senso: “Io accetto un film o non lo accetto in funzione della mia concezione del cinema. E non si tratta qui di dare una definizione del cinema politico, cui non credo, perché ogni film, ogni spettacolo, è generalmente politico. Il cinema apolitico è un’invenzione dei cattivi giornalisti. Io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c’è la necessità di intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione. Essere un attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita”.

A latere di queste produzioni, dicevamo, c’era anche un impegno politico vero, concreto, ma romantico, incredibilmente romantico. 

Nel 1975, eletto Consigliere alla Regione Lazio per il Partito Comunista Italiano, dopo meno di sei mesi si dimise dichiarando “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso”.

Ove ciò non fosse abbastanza per comprendere l’uomo, Volonté era talmente idealista che nel 1981 aiutò l’amico Oreste Scalzone, militante di Potere Operaio, a fuggire in Francia per evitare il carcere, una storia che da sola varrebbe un film. 

Lontano, come dicevamo, dalle luci della ribalta, gli ultimi anni della sua vita si trasferì a Velletri, ambiente in cui si sentiva più uomo, più umano. Nel 1994 accettò di prendere parte a quello che sarebbe potuto essere il suo ultimo grande capolavoro, “Lo Sguardo di Ulisse” di Theo Angelopoulos, una rivisitazione dell’”Odissea” di Omero che rileggeva la caduta del comunismo nei Balcani, ma un infarto lo stroncò il 4 Dicembre del 1994.

Questo è quanto. Come dicevamo, poche righe per ricordare non un grande attore, ma il più grande attore della storia del cinema italiano, una figura per cui le parole non saranno mai abbastanza. 

In chiusura, riportiamo quanto dichiarato dal regista Francesco Rosi su Gian Maria Volonté, in occasione della sua scomparsa: “È stato, e resta, uno dei più grandi attori del cinema mondiale”. Amen, aggiungiamo noi.

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