I dati demografici di Twisters negli Stati Uniti sono impressionanti: è apprezzato in egual misura da donne e uomini, e attrae sia i giovani che gli adulti. Il punteggio dei critici su Rotten Tomatoes è un discreto 77%, ma il punteggio del pubblico è molto più alto, 92%. Il film segna il più grande debutto di sempre per un film catastrofico in USA, portando a casa la bellezza di 80,5 milioni di dollari a livello nazionale nel weekend di apertura (arrivati ora a 150 milioni di incasso worldwide). Un successo che sembra scontato, ma non lo è, soprattutto considerando il percorso di Lee Isaac Chung. Figlio di immigrati coreani di prima generazione, Chung cresce in una piccola fattoria nell’Arkansas rurale e poi frequenta la Yale University, specializzandosi in Ecologia. Durante l’ultimo anno, Chung abbandona gli studi per dedicarsi all’audiovisivo. Studia cinema alla Utah University, diplomandosi nel 2004. Il suo primo film, Munyurangabo, viene presentato in anteprima al Festival di Cannes del 2007 con grande successo. Variety lo descrive come “un debutto sorprendente e magistrale;” il critico americano Roger Ebert lo definisce “un film bello e potente – un capolavoro.” Il suo secondo film, Lucky Life, viene sviluppato dalla Cinéfondation del Festival di Cannes e debutta nel 2010 al Tribeca Film Festival e anche al Torino Film Festival. Due anni dopo esce Abigail Harm con Amanda Plummer nei panni di una donna che vive in una New York City romanzata, in un film scritto e diretto da Chung, liberamente tratto da una favola popolare coreana. Il film partecipa a diversi festival cinematografici, ma non ottiene una distribuzione ampia e non registra incassi significativi. Viene proiettato in alcune sale selezionate, come a Manhattan il 30 agosto 2013, ma nessuno va a vederlo. Nel 2018, dopo avere lavorato su un film come aiuto regista, su un’altro come microfonista, Chung ormai si rende conto che la sua carriera cinematografica potrebbe essere finita. Decide di scrivere una sceneggiatura semi-autobiografica intitolata Minari. Come spesso succede quando un autore si rimette in gioco con sincerità e onestà, nel febbraio 2019 la società Plan B compra la storia di Chung sulle sue esperienze da bambino nella fattoria di famiglia in Arkansas. A24 si unisce al progetto come distributore e Chung, che si trova in Corea del Sud e lavora come insegnante, a Luglio dello stesso anno si ritrova catapultato sul set del suo film a Tulsa, Oklahoma, location scelta per ricreare i suoi ricordi d’infanzia. (Chung ha poi insistito affinché anche Twisters fosse girato in Oklahoma).
Minari debutta al Sundance Film Festival nel 2020, dove vince il Gran Premio della Giuria e il Premio del Pubblico. Il film esce nelle sale a dicembre 2020, prima di ottenere sei nomination agli Oscar, tra cui due per la regia e la sceneggiatura di Lee Isaac Chung. L’interprete, Youn Yuh-jung, vince l’Oscar nel 2021 come migliore attrice non protagonista. Dopo il successo da favola di Minari, Chung per la prima volta nella sua vita si trova di fronte a diverse possibilità di scelta per il prossimo film. Prima di venire risucchiato dalle trombe d’aria di Twisters, fa volutamente una tappa in una galassia lontana lontana, imparando ad usare gli effetti speciali (CGI). Dopo aver completato l’episodio “Chapter 19: The Convert” della terza stagione di The Mandalorian, Chung dirige un altro episodio della serie televisiva di Star Wars per Skeleton Crew di Jon Watts e Christopher Ford. A quel punto, la numero uno di Lucasfilm, Kathleen Kennedy, diventa una fan di Chung e lo raccomanda a suo marito, Frank Marshall, che è in cerca del regista giusto per dirigere il tanto atteso sequel di Twister (1996) di Jan de Bont.
Quando Chung viene convocato per esporre le sue idee sul progetto, fa il suo pitch di fronte a Marshall, alla produttrice esecutiva Ashley Jay Sandberg, e si trova di fronte anche un certo Steven Spielberg. Per la sua presentazione, Chung aveva preparato un “mood reel”, cioé un vero e proprio “trailer” del sequel in oggetto ottenuto montando scene del Twister originale insieme a una scena del suo Minari in cui la famiglia Yi vive per la prima volta l’esperienza di un allarme tornado. Il mood reel colpisce Spielberg, dato che anche il suo film semi-autobiografico, The Fabelmans, aveva una scena in cui la sua famiglia inseguiva un tornado nel New Jersey. Spielberg, insieme al direttore della fotografia Dan Mindel, si rivelerà importantissimo per Chung nella scelta di girare Twisters su pellicola 35mm, una rarità nell’era attuale dei film digitali.
Innanzitutto vogliamo sapere se è vero che i produttori hanno visto la scena dell’allarme tornado in Minari e ti hanno affidato Twisters. È stato questo l’inizio di tutto?
Ho inserito quella scena nel mio mood reel per dimostrare che Twisters è in realtà un sequel di Minari. Ma non credo che loro se ne siano mai accorti. Ashley Sandberg stava cercando un filmmaker nato in quella zona geografica (soggetta alle trombe d’aria ndr). Penso fosse questo ciò che stavano cercando. Avevo anche lavorato con Kathleen Kennedy per delle serie Lucasfilm, e lei mi ha aiutato molto.
Ti ha raccomandato al suo partner, Frank Marshall, il produttore di Twisters.
Sì, ne sono stato molto colpito. Era contenta di quello che avevo fatto per loro.
I due episodi Star Wars sono stati un modo per testare con mano questa arena più grande? Una sorta di riscaldamento?
Non proprio. Quando ho accettato quell’incarico, alcune persone mi dicevano: “Stai facendo grandi progressi”, e io pensavo: “Cosa faccio adesso? Posso farlo adesso?”. Sono un grande fan di Star Wars. Sono un po’ un nerd e adoro Mandalorian. Secondo me è stato inglobato in Star Wars in un modo meraviglioso. Così ho chiesto un incontro con Jon Favreau e abbiamo parlato un po’ di Minari. A lui era piaciuto il mio film, così alla fine gli ho chiesto: “Ehi, mi piacerebbe girare un episodio per voi se mi vuoi.” E lui disse: “Sì.” Non potevo crederci. Ho persino dovuto telefonare al mio agente: “Penso abbia detto che mi vogliono affidare un episodio, ma puoi ricontrollare?” (Ride.) Così è venuto fuori tutto questo. È stato un buon trampolino di lancio per me col senno di poi, in termini di apprendimento degli effetti CGI e di come strutturare una storia piena di scene d’azione e momenti salienti, piuttosto che pensare semplicemente a una sceneggiatura con la struttura tradizionale in tre atti. Tutto questo è stato un insegnamento fondamentale.
Ho appena parlato con Michael Sarnoski, che è passato da Pig a A Quiet Place: Day One, e ha detto che era un po’ intimorito di passare a un progetto diverso, in questo caso una franchigia cinematografica, dopo aver avuto successo con un film indie. Ma il reclutamento di registi indipendenti per costose franchigie è ora più diffuso che mai. Hai provato qualche riluttanza?
In un certo senso… non so perché dovrei essere imbarazzato per questo. Mi accorgo che tutti me lo chiedono, e la trovo una domanda interessante, ma è difficile rispondere. Non so se le persone desiderino che io protegga un certo lato di me stesso o se pensano che dovrei rimanere fedele a ciò che sto facendo. E non sto criticando affatto Michael. Ho amato Pig; ho pensato che fosse un film incredibile. Non ho ancora visto il suo nuovo film, ma non credo molto nella teoria dell’autore. Non prendo molto sul serio questa cosa e non mi prendo molto sul serio come artista. Quindi, lavorare su una grande produzione non penso sia un problema. Anzi, mi sembra che sia un sogno che si avvera. Poter affrontare un progetto così grande, un progetto che significa davvero molto per questa industria. Abbiamo bisogno che progetti come questo abbiano successo. Molti dei nostri lavori dipendono da questo, e l’esperienza pura da sala cinematografica che stiamo cercando di portare al pubblico, dobbiamo mantenerla viva. Quindi sento che c’è una grande responsabilità, ed è stato davvero stimolante poter lavorare in questo ambito, con questo cambiamento di prospettiva.
Hai la stessa data di uscita che aveva Oppenheimer l’anno scorso, e anche quel film è stato girato su pellicola. Ma è stato anche diretto da uno dei pochi cineasti che si è guadagnato il diritto di stabilire le condizioni e prendere le decisioni. Hai iniziato a girare prima che quel film uscisse, ma dato che la produzione sapeva di Oppenheimer, pensi abbia in qualche modo coadiuvato il tuo desiderio di girare in pellicola?
Non mi è sembrato così quando l’ho chiesto. Ho capito che per loro era complesso girare su pellicola. Vogliono ridurre i rischi che esistono nella produzione, e la pellicola può spesso sembrare un’incognita aggiuntiva. Quindi ho capito la loro posizione, ma io amo davvero la pellicola. Ho girato i miei primi due lungometraggi su pellicola, ed è così che ho imparato a fare film a scuola (di cinema). Fondamentalmente, è stato grazie al lavoro con (il direttore della fotografia) Dan Mindel, e anche grazie a Steven Spielberg che è intervenuto dicendo: “Per favore, lasciatelo girare su pellicola.” Questi due fattori hanno permesso che la cosa si realizzasse, quindi lo devo a loro e li ringrazio per questo.
Girare su pellicola è diventato un elemento che viene messo in risalto nel marketing dei film per attirare l’interesse del pubblico, e questo onestamente mi rattrista. La pensi allo stesso modo?
Sì, rattrista anche me. So che è una cosa soggettiva, ma visivamente parlando, i film girati su pellicola mi emozionano di più. Adoro come si comporta la pellicola sul grande schermo, la resa dei colori sugli ambienti e sui volti.
I sequel legacy spesso riciclano luoghi comuni simili tra loro, ma fortunatamente non è il tuo caso. Sì, c’è Dorothy, la battuta “Non sono tornato”, la maglietta dei Bombers, la scena del cinema, ma il tuo film non lavora costantemente al servizio del sequel. Lo avevi pensato così sin dall’inizio?
Assolutamente. Questa sceneggiatura sembrava una storia completamente nuova, contemporanea e adatta al mondo di oggi. Ho pensato che fosse audace il fatto che non seguissero un certo modello di sequel legacy. Gli unici riferimenti al primo film li ho decisi io, non la produzione. Così, insieme ai miei capi reparto — che sono anche fan del primo film — abbiamo inserito quegli elementi, inclusa la maglietta dei Bombers. Sono davvero felice che tu l’abbia notata.
Ci sono alcune cose davvero sottili. Anche il cameo di James Paxton non sarà notato dalla maggior parte delle persone fino a quando non ne leggeranno. Sei stato molto abile a girare questo film, non era semplice.
Lo apprezzo. Mi piace che queste cose non attirino l’attenzione, ma per noi hanno significato molto mentre stavamo lavorando al progetto!
Lavorare con Frank Marshall e Steven Spielberg è una posizione intimidatoria in cui trovarsi, e probabilmente loro lo sanno, quindi cosa hanno fatto per metterti a tuo agio?
Sin dall’inizio, mi hanno parlato come se fossi un collega. Frank è anche un regista, e Steven ovviamente è una leggenda. Ma quando ero in un meeting con loro, mi parlavano come se fossi un collega storyteller, da subito. Questo mi ha aiutato a sentirmi molto rilassato e libero mentre pianificavo e cercavo di risolvere le cose. Mi dicevano che il loro ruolo come produttori in questo progetto era di mettermi nelle condizioni di fare il mio lavoro di regista e realizzare la visione che stavo impostando per questo film. Quindi, per molti versi, li ho visti come produttori ideali per un regista.
David Corenswet interpreta, letteralmente, un personaggio rigido e inflessibile, un po’ noioso.
(Ride.) Sì.
Il contrasto tra il suo personaggio qui e il suo prossimo personaggio, Superman, sarà davvero interessante. L’hai mai visto fare preparativi durante il tempo libero? Era già in quella modalità?
Stava facendo provini per Superman mentre stavamo girando, e David è il tipo di attore che mantiene un po’ del personaggio dentro di sé anche fuori dal set. Non è un attore completamente di “metodo” [Stanislavskij ndr], ma si porta dietro qualcosa del personaggio certe volte. Quando è tornato da Los Angeles dopo i provini, è tornato come Superman. Ho visto Clark Kent nel modo in cui mi sorrideva e nel modo in cui mi parlava, e ho realizzato: “Oh, ha riportato qui anche il provino.” Quindi ho avuto l’intuizione che dovevano averlo preso, perché quando l’ho visto come Superman sapevo solo che sarebbe stato perfetto in quel ruolo. Poi quando abbiamo girato il momento in cui Tony [Anthony Ramos] guida il camion lontano da lui e lo schizza di fango, David, in uno dei ciak, si è girato verso la telecamera davvero arrabbiato e si è strappato la camicia. (Ride.) Quindi è stato un momento un po’ “meta” per me quando l’ho visto dietro il monitor. Lo vedevo fare ciò che probabilmente farà in [Superman 2025], ma per noi era ovviamente molto più arrabbiato. Era [il personaggio di] Scott, ma adoro il fatto che la sua mente potesse essere un po’ quella di Superman in quel momento.
Infine, ora Twisters è un enorme successo, ma non molto tempo fa avevi deciso di abbandonare questo lavoro. Quali consigli ti senti di dare che potrebbero aiutare altri registi di fronte a un bivio simile?
È davvero difficile dare consigli perché ciò che mi è successo ha dell’impossibile. Non riesco a spiegare come mi trovo in questa posizione ora, e non ho vere perle di saggezza su cosa fare per arrivare a questo punto. Mi sento solo molto fortunato. Posso dire che, per un lungo periodo, ho pensato che tutto fosse finito in termini di carriera nel cinema per me, e che avrei dovuto smettere. E mi sono davvero rassegnato a questo. Ho fatto a fatica ad accettare la sensazione di essere un fallimento, professionalmente. E poi sono arrivato dall’altra parte di questa lotta con me stesso e ho sentito una profonda pace su quello che avevo fatto e sul punto in cui ero. E se avessi smesso di fare il regista, lo avrei accettato serenamente. Ho molte cose nella mia vita di cui sono grato, che mi avrebbero portato alla prossima avventura. Quindi ho scoperto che tutto questo mi ha dato molta più forza in tutto il lavoro che ho fatto successivamente. È stata la lotta con il fallimento e anche quel duro lavoro di arrivare a farci pace e trovare un’àncora interiore. E quindi l’unico consiglio che potrei davvero dare alle persone è di sforzarsi davvero di trovare la propria àncora. Ha significato molto per me ora nel lavoro. Mi aiuta a contestualizzare i problemi che ho quotidianamente mentre lavoro. Anche lavorando con la troupe, posso vedere oltre le priorità del progetto e assicurarmi che vivano una buona esperienza e che sia un buon ricordo nella loro formazione personale nella vita. Quindi tutto questo conta sicuramente, ed è più importante che semplicemente avere successo nel fare un film.
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