Controcorrente: Carmelo Bene, Venezia e il Compiacimento del Già Visto: Uno Sguardo Diverso Sul Festival

Mi sono fatto la domanda che gli amanti dell’arte, quella vera, ogni anno si pongono puntualmente in occasione della Mostra del Cinema: Cosa direbbe Carmelo Bene?

Non c’è bisogno di scomodare le paraboliche riflessioni di Deleuze e Popper per comprendere che viviamo, o almeno abbiamo deciso di chiuderci, nel mondo dell’immagine spogliata dai colori, semplice parafrasi per dirvi che viviamo nell’era dell’apparenza privata della sostanza.

Le giornate passate dell’81esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia hanno lasciato perplesso lo scrivente che, per quanto lontano nella fisicità, ha comunque seguito attentamente il prosaico susseguirsi degli eventi.

Chiamatemi, se volete, un Contrarian, oppure in italiano, uno un po’ controcorrente.

Al netto dei commenti sugli abiti indossati dalle star, i soliti gossip di routine, e le solite polemiche sulla perenne crisi economica dell’industria cinematografica, che tanto mi ricordano il mai firmato nuovo contratto dei metalmeccanici, tutte parole inutili che dovrebbero fungere esclusivamente da corollario dell’evento, il grande assente, avrebbe detto un platinato e giovane Carmelo Bene, è stato il cinema. 

In tal senso, prima di approfondire la nostra breve disanima, risuonano a me attualissime le sue parole in occasione della 40esima edizione della Mostra “Ho scambiato quattro chiacchiere con un paio di giurati imbarazzatissimi che hanno definito le proiezioni robette commerciali che si vendono a prescindere. Non vedo il perché di un Festival, basta una telefonata in America per comprare un intero stock di questi prodotti. Siamo ridotti a una vetrina”, ha detto Bene, “Le arti figurative stanno tacendo. La pittura si è arresa dopo l’astrattismo, ha avuto Pollock, ha avuto De Chirico, qui un film astratto non se lo sogna ancora nessuno, tutti cercano l’attore, il cast, le cose. Il pubblico viene trattato con uno spirito De Sadiano, con queste sale buie. Il cinema dovrebbe lavorare sul linguaggio invece di raccontare storie, queste maledette storie datatissime che non valgono neanche l’anno dopo, non seguono nemmeno una moda, non sono nemmeno conflittuali, ignorano la contemporaneità”.

È cambiato qualcosa nei 41 anni che ci separano dalle parole di Bene? Poca roba, per quanto le cose sembrino migliorate o peggiorate a seconda della prospettiva. Il cinema non ha ancora iniziato neanche a ipotizzare l’idea di lavorare sul linguaggio, di offrire un prodotto astratto nel senso di astrattismo dal già detto, dal già visto, ma qualcosa si muove. 

L’81esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia è stata però la testimonianza della perseveranza nell’errore, almeno per quel che riguarda i big. La vedo così.

I film di cui si è parlato di più? Maria, con la Jolie, l’ennesima storia tragica sugli ultimi giorni di una star decaduta; The Order, con Jude Law, l’ennesima storia vera di una banda criminale; Conclave, con Ralph Fiennes, l’ennesima speculazione sull’elezione di un nuovo Papa; Babygirl, con Nicole Kidman, un ripescaggio del genere erotico degli anni ’90; Beetlejuice Beetlejuice, di Tim Burton, seconda parte di una favola nera che aveva già detto tutto 25 anni fa; Queer, di Guadagnino, l’ennesima trasposizione su pellicola di un romanzo, questa volta neanche un capolavoro se guardiamo all’intera bibliografia di Burroughs; Joker: Folie À Deux, con Joaquin Phoenix e Lady Gaga, seconda parte di una narrazione che aveva esaurito le sue ragioni nel primo capitolo del 2019.

Ancora una volta, un pubblico indegno di rispetto e trattato al pari di un obeso che cerca il suicidio salato nei fast food, viene messo all’ingrasso con storie e parole vecchie che non hanno un domani, prive di quel flavour che conserva l’immortalità della grande opera. 

Troppo severo?

Fateci caso, tutte queste pellicole hanno un minimo comune multiplo, guardano al passato, nel senso che raccontano ciò che è stato o, come dei moderni Dottor West di lovecraftiana memoria, cercano di dare vita a ciò che è morto. 

Come dicevamo, però, qualcosa in senso contrario sembra muoversi, questo grazie a un Direttore Artistico, Alberto Barbera, che ancora una volta ha cercato di portare una ventata d’aria fresca puntando anche, non solo, sulla ricerca. Basti pensare a un progetto innovativo come Venice Immersive, un’intera sezione del Festival dedicata alla realtà espansa e ai media immersivi che include tutti i mezzi di espressione creativa XR: opere di qualsiasi lunghezza, incluse installazioni, haptic e mondi virtuali. Così come, nell’ipotetico solco tracciato da Bene, Barbera ci offre Harmony Korine, forse il più eccentrico tra i registi presenti, con il suo Baby Invasion, una follia che ha l’aspetto di una burla con cui sfida il pubblico tramutando i giochi per l’infanzia in un lungometraggio non-sense. Senza infine dimenticare l’immensa Alice Rorwacher che, con Allègorie Citadine, ci offre un Platone visionario.

Ora, rileggendo le citazioni di Bene scritte poco sopra, ponetevi una domanda: è cambiato qualcosa in tutti questi anni? Qualcosa si. Se a livello mainstream parliamo solo di attori, cast e cose, il cinema più “artigianale”, per quanto ancora marginale, sembra anche  vivo.

Allora non ci sarebbe da stupirsi se, probabilmente, oggi CB avrebbe ripetuto le stesse parole di 41 anni fa, con una piccola differenza, ovvero il probabile elogio proprio a Barbera per aver cercato di andare ben oltre i grotteschi limiti dei tanti che fanno cinema credendosi ciò che non sono, artisti. Barbera, fortunamente, è un Direttore Artistico, saggio, e con un gusto molto aperto alla New Generation.

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