
Da vicino colpiva la sua singolare somiglianza con James Stewart e Stan Laurel: un morphing delle due facce, due emblemi di umanità rassicurante, pacifica o addirittura inoffensiva che il cinema americano ha provveduto a rendere popolari in tutto il mondo per decenni.
Lynch è invece il regista che più di altri ha saputo scovare la lingua del mistero e dell’angoscia che si annida nell’apparenza più innocua della realtà quotidiana. Nelle sue inquadrature, come nei quadri di Edward Hopper, tutto ciò che è consueto, ordinario e familiare si caricava di suggestioni oscure ed enigmatiche.
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Velluto blu, nel 1986, provocò un piccolo scandalo perchè la Mostra di Venezia rifiutò di selezionarlo giudicando oltraggiosa l’aria di libidine e sadismo del reggiseno e delle mutandine nere di Isabella Rossellini, prigioniera di un compagno che la costringe a sordide prestazioni. In realtà è un film in cui le scene di criminalità e perversione (l’orecchio mozzato, le sevizie sulla protagonista, le infinite brutalità praticate dal suo compagno, il voyeurismo che ne è oggetto) turbano quanto quelle di felicità assoluta e cartellonistica (lo steccato bianco, i tulipani carnosi, il pettirosso stucchevole).
L’ attrazione per la vulnerabilità dei corpi che si respira in tutto il film è, allo stesso tempo, disturbante e sensuale, il carattere convenzionale della finzione quasi televisiva è scosso da una visione della natura, dei legami sociali, del desiderio erotico che si avverte appena sotto ogni inquadratura come un rombo sordo e minaccioso.
Spesso, nei primi film di Lynch, c’ è un personaggio dal capo fasciato cui sono state praticate torture sconosciute, una cantante che esegue in uno stato di trance melodie anacronistiche (“Blue Velvet” è un brano degli anni ’50) e antri e corridoi illuminati da tetre apliques: segni che si è tentati di leggere come frammenti di una scena traumatica infantile come farebbe uno psichiatra in un film di Hitchcock. Ma ciò che più impressiona è l’infallibilità e sicurezza da artista d’avanguardia con le quali coltiva questa sospensione in ogni inquadratura: difficile trovarne qualcuna, nei suoi film, che non liberi “l’odore dei corpi, la densità del quotidiano, la sostanza delle cose, lo scandalo della vita”, come ha scritto uno studioso francese, Michel Chion.
La sua passione per mondi malati, al confine tra deviazione e follia, non era, però, una condizione sufficiente per mettere in dubbio la sua ricerca di armonia, benessere, ironia. “Mi piacciono le tenebre, la confusione e l’assurdo ma mi piace anche credere che ci sia una piccola porta che mi permetta di uscire da tutto questo per raggiungere un mondo di felicità”. In questo inesausto artigiano della perturbazione emotiva, c’era qualcosa di inguaribilmente vicino all’americano medio, al piacere di poter accedere in qualsiasi momento in un locale dove trovare un boccale di caffè e ed una fetta di torta, evento che produce un’estasi particolare in tanti suoi personaggi. C’era, nonostante tutto, qualcosa che somiglia davvero a James Stewart in David Lynch.
Pittore, regista, fumettista, musicista, sostenitore entusiasta e testimonial d’eccezione della meditazione trascendentale, Lynch, al cinema, parte con le movenze tipiche dell’indipendenza assoluta.
Il suo esordio, Eraserhead, girato nel garage di casa, è un incubo kafkiano in cui un catatonico travet, che porta sulla testa una zazzera a forma di incudine, accudisce una creatura in fasce, mostruosa e repulsiva, in una squallida periferia perlopiù immersa nel buio. Diventa un film di culto nelle programmazioni di mezzanotte di una celebre sala d’essai, l’Elgin di New York, sulla scia di film feticcio come El Topo, La notte dei morti viventi, Rocky Horror Picture Show.
Con i successivi L’uomo elefante o Dune viene reclutato nella grande produzione dove non cessa di investire con una messa in scena dotata di risorse visionarie e un uso inquietante del fantastico, alcuni generi tradizionali come il melodramma in costume o il film di fantascienza.
Negli anni ’90, addirittura, il mondo di Lynch incontra quello delle serie tv: ciò che ne viene fuori, “Twin Peaks” – che godrà di uno stupefacente revival con una nuova eultima stagione nel 2017 – è destinato non solo a raggiungere attenzione e gradimento di pubblico eccezionali, ma anche a segnare profondamente le forme di narrazione del genere più popolare che ci sia: prodotti come Desperate Housewifes o Lost sono discendenti realizzati da sceneggiatori e registi cui queste forme complesse e non conformiste di televisione siano state rese possibili proprio dalla esperienza dei sobborghi corrotti, la narrazione piena di enigmi e il quotidiano pullulante di angoscia della contea in cui fu uccisa Laura Palmer.
Nei suoi film era difficile non riconoscere l’istinto caratteristico di chi vuole scandalizzare innanzitutto squadernando ciò che per la normalità costituisce motivo inconfessabile di repulsione. Epidermidi mappate da ulcerazioni ed escrescenze fantasiose, bulbi oculari che sembrano intrappolati nelle palpebre, teste che rotolano, orifizi che rilasciano liquidi bui e densi, orecchi e mani mozzate, eppure, questa materia apparentemente oscena e disgustosa è perlustrata con la stessa convincente fascinazione con la quale Lynch guarda il corpo delle donne.
I suoi film traboccano di erotismo con la stessa facilità con la quale le ferite dei suoi personaggi liberano laghi di sangue o ne sono pittorescamente imbrattati. Se si riguardano tutti i suoi film, infatti, si scopre che David Lynch, che è nato lo stesso giorno del mese di Fellini (regista per il quale aveva una scoperta devozione) aveva un occhio prensile, morbido e sensuale, per i seni delle donne, i loro capezzoli, le curve del loro corpo e il tremore delle loro labbra. I fianchi pallidi e materni della Rossellini in Velluto Blu, le coppe piccole, lattee e rotonde di Naomi Watts in Mulholland Drive, e i numerosi bordeggiamenti che il lavoro della macchina da presa compie nel suo cinema intorno a polpacci, caviglie, addomi femminili, parlano di un cinema che ama la mostruosità degli uomini con lo stesso incanto con il quale si inebria dell’infinita voluttà con la quale una macchina da presa può far scorrere il proprio sguardo su rientranze e volumi del loro corpo, come una goccia che scivoli sulla loro epidermide.
In ogni caso, è un occhio che dispone di una gamma decisamente più ampia di quella standard.
Chi scrive ha avuto il privilegio, nel 2006, di incontrarlo, di fronte al pubblico, all’Auditoriu Parco della Musica di Roma dove parlò con tenerezza ed eccitazione del corpo di un topolino che una volta rasò completamente con una crema depilante. Lì dove qualcuno scorge le tracce della perversione, lo sguardo del suo cinema affonda radici sconosciute nello scoprire nuove e infinite forme di bellezza.
Cronenberg ha usato il cinema per dimostrare quali meravigliosi paesaggi si celino all’interno dei nostri corpi, Lynch ha trasmesso un’analoga eccitazione, a metà tra l’orrore per la mostruosità e lo stupore per l’infinito calore e tepore e desiderio e paura che si annidano in ogni cosa che abbia pelle, capelli, occhi.
canone standard della bellezza dei corpi, appare ridicolmente limitato per l’idea di fisicità ed esistenza e sensualità che trasuda e cola dal suo cinema.
Disse allora, qualcosa che suonava come un’eresia: “Ho sempre pensato che il digitale fosse il giocattolo e la pellicola la cosa seria. Ma mi sbagliavo. Più lavoravo col digitale e più capivo le sue potenzialità e mi rendevo conto che la pellicola è in realtà un vecchio gioco per dinosauri: ingombrante, pesante e precario”.
Autore di immagini e suoni dal design straordinariamente curato e raffinato, Lynch, quella notte a Roma fu responsabile di uno strappo dal sapore epocale: “I love bad quality”. E’ la rivincita delle immagini che a volte rivelano la quadrettatura dei pixel, dei bianchi sfondati, del freddo livore elettronico.
Se qualcuno si chiede ancora se esistano i veri autori e che cosa siano, provi a cercare qualcosa di simile a ciò che si prova in uno dei suoi ultimi grandi film, Inland Empre, ovvero quella sensazione di minaccia quasi personale che si libera da quelle inquadrature digitali, da quei volti e ambienti che non hanno la definizione smagliante del 35 mm, quando uno dei personaggi minori si reca a casa della protagonista (Laura Dern), attrice in un film dal titolo Il buio cielo del domani, per consegnarle una pericolosa premonizione nascosta in questa parabola ermetica e maligna: “Un bambino un giorno andò fuori a giocare. Quando aprì la porta di casa egli vide il mondo. Nel passare attraverso la porta per uscire egli causò un riflesso. Il male era nato. Il male era nato e seguiva il bambino”.
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