
Ci sono dei finali felici, gli happy-end hollywoodiani. E poi c’è il finale del nuovo film Free Leonard Peltier, imprevedibile fino all’ultimo istante.
Peltier era imprigionato da oltre 45 anni quando David France e Jesse Short Bull hanno deciso di fare un documentario su di lui. L’attivista, nativo americano, sta scontando due ergastoli in una prigione federale per aver ucciso due agenti dell’FBI in una sparatoria nella riserva indiana di Pine Ridge, in South Dakota, nel 1975, anche se ha sempre sostenuto di non essere lui il colpevole.
L’FBI e altri gruppi delle forze dell’ordine hanno condotto una dura campagna contro qualsiasi modifica della condanna di Peltier, il quale infatti non è mai uscito dal carcere.
Tutto ciò ha costituito l’interessante materiale narrativo di Free Leonard Peltier, che ha avuto la sua prima mondiale al Sundance Film Festival. La vicenda sembrava destinata a finire come tante storie di Peltier, che è un simbolo quasi folkloristico dell’indipendenza e della resistenza dei nativi americani e di coloro che sperano invano nella sua liberazione. Dopo tutto, avvocati e gruppi di attivisti non erano mai riusciti a cambiare la situazione prima, attraverso una serie di appelli e manovre risalenti agli anni ’70.
Eppure, lunedì scorso, è finalmente arrivata la risoluzione: nei 14 minuti rimasti alla sua presidenza, il presidente Joe Biden ha commutato la pena di Peltier. L’attivista nativo americano sarà rilasciato 30 giorni dopo la commutazione, il 18 febbraio, per scontare il resto della pena agli arresti domiciliari.
“È stata una corsa contro il tempo, anche a causa dell’intervento dell’FBI all’ultimo minuto e della sua grande influenza”, ha detto domenica a THR Nick Tilsen – un attivista della Nazione Oglala Lakota che ha fondato l’NDN Collective ed è uno dei personaggi centrali del film.
Una volta arrivato l’ordine, anche il film è cambiato. Fino a una settimana fa, Free Leonard Peltier si concludeva infatti con il suo protagonista, ora ottantenne, che semplicemente sperava, con tono sommesso, di essere rilasciato un giorno. I
l nuovo montaggio presentato in anteprima a Park City include invece un nuovo finale: Tilsen e altri attivisti, tra cui Holly Cook Macarro, membro della Red Lake Nation, che festeggiano in un parcheggio del penitenziario federale di Coleman mentre arriva la notizia. Gli attivisti e la troupe cinematografica si sono recati lì e hanno aspettato fuori per tre giorni chiedendosi se l’ordine sarebbe arrivato, ma ci è mancato poco che non succedesse. “Ero così preoccupata. Pensavo che ‘l’FBI ci stesse facendo scadere il tempo'”, ha detto Cook Macarro in un’intervista.
“È stata un’attesa straziante. Con il passare di ogni ora sembrava sempre più improbabile che accadesse. Biden e Trump erano già seduti all’inaugurazione. Non ce lo aspettavamo affatto”, ha detto France.
Ora il film ha cambiato titolo per i sostenitori, passando con grande gioia da verbo ad aggettivo.
Ma anche mentre festeggiano, i sostenitori si preoccupano per la sicurezza di Peltier. Si ritiene che sia in cattive condizioni di salute, poiché soffre di una serie di patologie mediche. “In questo momento Leonard è ancora in una situazione rischiosa – dice Tilsen – quella struttura non ha la capacità di supportare le terapie mediche adatte alle sue condizioni di salute. Ed è stato un obiettivo primario dell’FBI per 49 anni. È pericoloso per la sua sicurezza. Vogliamo assicurarci che la gente capisca che non è ancora libero”.
Costruito attorno a un’intervista in prigione di Peltier risalente ad oltre quattro decenni fa (non gli è stato permesso di parlare pubblicamente dagli anni ’90), il film di France e Short Bull si intreccia con la narrazione della sparatoria che ha portato dietro le sbarre il nativo americano, dipinta da molti media come un “botta e risposta” ma che in realtà è stata causata da un’incursione del governo degli Stati Uniti in terre indigene.
La sparatoria ha provocato la morte degli agenti dell’FBI Jack Coler e Ronald Williams, nonché del nativo Joe Stuntz, e da allora è diventata una sorta di simbolo per entrambe le parti. Molti nativi americani hanno ritenuto che questo fosse l’ultimo esempio di sfruttamento coloniale; l’FBI, ancora oggi, vede l’incidente come uno degli assalti più sfacciati ai loro stessi agenti e ha esercitato forti pressioni per la punizione dei sospetti. (l’ex direttore dell’FBI Christopher Wray si era espresso chiaramente contro la modifica della condanna di Peltier).
Tre nativi americani furono perseguiti per la morte degli agenti dell’FBI; Peltier fu condannato mentre Robert Robideau e Dino Butler furono assolti. Non fu intrapresa alcuna azione legale per la morte di Stuntz.
Il film segue sia l’incidente, mescolando materiale d’archivio e ricostruzione, sia le manovre legali che ne seguirono. L’ingiustizia è al centro della narrazione, molto spazio ha infatti il racconto dell’estradizione di Peltier dal Canada, costruita su quella che sembra essere una falsa dichiarazione giurata, così come i dinieghi di libertà vigilata e gli appelli che, nella rappresentazione del film, non sono altro che il sacrificio di un uomo innocente atto a soddisfare il mero esercizio del potere dell’FBI.
Gli sforzi per liberare Peltier si sono si sono fatti più serrati nel 2000, mentre Bill Clinton lasciava l’incarico e un perdono sembrava imminente. Ma la grazia non arrivò mai. Una decisione che causò una frattura tra il sostenitore di Peltier David Geffen e i Clinton. Ma la causa Peltier trovò poi il sostegno di Barack Obama nel 2008.
Peltier si è sempre fermamente rifiutato di confessare gli omicidi, cosa che lo avrebbe agevolato per ottenere la libertà vigilata o anche il perdono. Nel film, Peltier si dice colpevole solo “di aver difeso” i diritti del suo popolo: “sono colpevole di aver cercato di fermare l’oppressione che ho subito e che ho visto subire alla mia gente”.
Nessuno contesta che Peltier abbia sparato quel giorno di giugno. Ma il resoconto del governo e di Peltier differiscono ampiamente proprio nel racconto della dinamica della sparatoria: i pubblici ministeri dicono che ha sparato agli agenti secondo una vera e propria esecuzione, mentre Peltier dice di non essere stato nemmeno nella posizione giusta per farlo e di essere stato usato semplicemente come capro espiatorio. “La gente sa dove è il mio cuore. Non sono un assassino a sangue freddo”, dice Peltier.
Questo esempio di ingiustizia del governo statunitense è servito da metafora per molti nativi americani: “tutto ciò che sta accadendo ora è uno specchio di ciò che è accaduto al popolo indigeno nel corso della storia”, dice Tilsen nel film.
L’annuncio di questa svolta, di conseguenza, è stata particolarmente gratificante: “È un buon giorno per essere nativo americano”, ha detto Cook Macarro quando è arrivata la notizia della liberazione di Peltier.
France osserva che nonostante la pena si stata commutata c’è ancora molto di irrisolto: “l’FBI non ha mai dovuto fare i conti con la sua storia nel territorio indiano, che è una storia di tragedia e di pesanti traumi”, dice, mentre Tilsen afferma: “zio Leonard tornerà a casa. Continueremo a fare luce sulla sua storia non solo per ciò che ha fatto lui, ma per tutto quello che ha rappresentato e ancora rappresenta l’American Indian Movement nella lotta per i diritti indigeni e umani”.
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