La Resistenza è un po’ come la bicicletta, dice la giovane Marina, parte della staffetta partigiana, in una delle storie raccontate nel videogioco Venti Mesi realizzato da Claudia Molinari e Matteo Pozzi di We Are Müesli. “Messaggio dopo messaggio, azione dopo azione, come una ruota che gira spingendo forte sui pedali, sembra inarrestabile”.
La sua è una delle tante testimonianze che lo studio di sviluppo di Milano ha deciso di inserire in questo docu-game sulla Resistenza italiana. Venti mesi, venti storie di civili e partigiani dalle zone di Milano e Sesto San Giovanni dal settembre del 1943 all’aprile del 1945.
Pubblicata nel 2015, quella di We Are Müesli è una visual novel, cioè un romanzo interattivo: animazioni semplici, disegni colorati e minimali, poche scelte e dialoghi d’impatto. A dire il vero, Venti Mesi è una scatola di fiammiferi, come la guerra, dicono. Una scatola di storie tutte insieme, di fiamme che si accendono, brillano e poi si spengono.
Riappropriarsi della Resistenza
Il titolo di Molinari e Pozzi, disponibile gratuitamente, oltre a essere un magnifico gioco ricco di senso civico democratico, rappresenta anche un caso abbastanza unico nel panorama dei videogiochi italiano.
Questo non soltanto per le sue caratteristiche, come l’immediatezza del linguaggio, o per la sua capacità – attraverso un semplice sistema di scelte – di evocare le sensazioni di dubbio, angoscia e tensione che si provano durante un periodo di oppressione fascista, ma anche perché rimane uno dei pochissimi videogiochi che racconta la Resistenza italiana.
La seconda guerra mondiale, nei videogiochi come nel cinema, è tema abbastanza ricorrente. Ma nei mondi virtuali è sempre uno scontro tra eserciti, e l’Italia è un grande palcoscenico in cui le forze alleate sbarcano – come ad esempio in Medal of Honor Vanguard – per poi risalire lungo tutto lo stivale. Fine, poche variazioni sul tema. E molti di questi giochi sono di produzione statunitense, ed è quindi il loro punto di vista quello privilegiato durante il racconto.
Dei partigiani, degli sforzi dei civili per resistere all’oppressione nazi-fascista, nessuna traccia. Nella grande narrativa dei videogiochi, loro è come se non fossero mai esistiti. Ci sono piccole flebili tracce, di contorno, laterali.
Il Rosso e il Nero
C’è stato un altro titolo, per la verità, pubblicato nel 2003 dalla software house italiana Blacksheep Games, intitolato Il rosso e il nero. Un videogioco vagamente ispirato – forse solo il titolo – da Rosso e nero, il controverso libro-intervista pubblicato nel 1995 di Renzo De Felice e Pasquale Chessa.
Certo, il videogioco, che era uno sparatutto in prima persona in cui si scontravano fascisti e partigiani, aveva questi come unici elementi in comune con la ricostruzione storica di De Felice. Ed esattamente come quel libro, anche il gioco ricevette aspre critiche.
Nel 2004, il giornalista Antonio Carioti, sul Corriere della sera, accusò il gioco di revisionismo intenzionale, e molti altri critici accusavano lo studio di aver appiattito lo scontro a due fazioni pressoché simili e intercambiabili, solo ideologie che si scontrano, solo colori. Una volta l’uno, una volta l’altro. E non basta, si legge in un articolo su Molleindustria, scrivere “uccidi tutti i fascisti” all’inizio di una missione per dare al gioco una connotazione antifascista.
Il rosso e il nero, che è introvabile anche online, non è quindi l’esempio migliore di rappresentazione della guerra di liberazione che si può trovare nel mondo dei giochi digitali. Ma è tra i pochi. E mentre l’industria italiana di videogiochi si sta pian piano ritagliando il proprio spazio, tra sperimentazioni ad alto livello artistico e commerciale, ecco che mancano le storie della Resistenza. Nel virtuale non ci siamo ancora riappropriati della narrazione della liberazione.
Se è vero che la Resistenza è come la bicicletta, come dice la giovane Marina, allora dobbiamo cominciare a pedalare.
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