
Maria Pia Ammirati, direttrice di Rai Fiction dal 2020, è stata inserita l’anno scorso da The Hollywood Reporter Usa nella lista delle 35 donne più potenti al mondo della televisione. Una carriera tutta interna alla tv pubblica: è stata vicedirettrice di Rai1, presidente del Comitato Pari Opportunità della Rai, direttrice di Rai Teche, responsabile di numerosi programmi di successo tra cui Uno mattina, Linea Verde, Verdetto finale, La vita in diretta e Domenica In e, dulcis in fundo, Presidente dell’Istituto Luce Cinecittà.
Originaria di San Giuseppe Vesuviano, calabrese di adozione, romana per scelta, Ammirati è cresciuta in una famiglia quasi tutta al femminile. “Essendo la prima di quattro figlie, tutte donne, c’era anche una cura che dovevo prestare alla famiglia stessa. Immagino ci fosse già un sorta di principio inoculato di servizio verso gli altri. Nelle famiglie tradizionali della mia generazione – sono nata negli anni Sessanta – la prima figlia aveva anche dei doveri, non solo dei piaceri”, ricorda la giornalista e scrittrice di successo (un suo romanzo, I cani portano via le donne sole, è stato selezionato tra i finalisti del Premio Strega, e con Se tu fossi qui nel 2011 ha vinto la Selezione del Premio Campiello) che abbiamo incontrato nel suo ufficio al secondo piano della sede Rai.

Maria Pia Ammirati
Seduta dietro la sua scrivania sommersa da libri, alle spalle due opere dell’artista Anna Maria Tulli – “una grandissima fotografa che rilavora foto digitali su queste lastre di ferro. Questi due sono bidoni di combustibile abbandonati su una spiaggia che lei ha fotografato. Mi piace questo concetto di riuso delle cose. Ne ho altri due a casa”. L’ufficio affaccia con delle grandi vetrate sul verde di viale Mazzini; al lato opposto della stanza, un enorme muro a forma di libreria che pullula di premi vinti: numerosi Nastri D’argento, un ABU Prize. “Guardi quello del 2018 l’ho vinto quando stavo alle Teche come miglior restauro al mondo per La lunga strada del ritorno di Alessandro Blasetti. Anche se quelli a cui tengo di più, come il Campiello, ce li ho a casa “.
Cosa sognava di fare da bambina?
La sarta, la suora o il medico. Devo dire che, essendo una bambina molto curiosa ma timida e introversa, sono cresciuta con sogni miei, privati, su come aiutare gli altri. Ero anche molto empatica.
È la professione che ha sempre desiderato di fare, questa?
Già con l’università mi sono occupata di narrativa, di narrazioni. Ho scelto una strada diversa da quella che desideravano per me i miei genitori, non ho voluto fare l’avvocata. Di narrativa mi sono occupata sia come critica che come studiosa: in questo, penso che ci sia la radice del fatto che adesso faccio questo lavoro. Per me le storie, i romanzi, le novelle, tutte le strutture narrative hanno sempre rappresentato una sfida, un piacere. Come critica, ma anche come lettrice naturale. Questo ha influenzato il mio approccio, che è decisamente analitico. Studiare le strutture narrative, i linguaggi, gli stili – ma anche la storia, la storiografia – secondo me porta un inevitabile cambio di gusto, rendendolo più ricercato. Da lì, è inevitabile fare uno scarto in più dall’essere un semplice fruitore.
Famiglia di molte donne. È cresciuta nel matriarcato?
Anche le nonne erano molto forti. Forti, autonome ed entrambe grandi lettrici, infatti mi chiedevano sempre libri da leggere. Ad un certo punto facevo la loro spacciatrice di libri. Mia madre, poi, ci ha cresciute con il mito della cultura, della necessità di studiare per rendersi autonome. Questo è stato un principio che mi ha aiutato nella vita, perché per me la stella polare è sempre stata la cultura. C’è stato un momento in cui ho anche pensato di rimanere all’università come ricercatrice di Letteratura Italiana.
Pensa di aver soddisfatto le ambizioni che avevano i suoi genitori per lei?
Penso di sì. Quando ho lasciato giurisprudenza per lettere, mio padre era assolutamente disinteressato: per lui l’importante era studiare. Però è sempre stato un amante della letteratura, quindi forse in qualche maniera mi invidiava. Mia madre invece no, ha provato in tutti i modi a farmi desistere, dicendomi che con una laurea in lettere non avrei mai combinato nulla nella vita. Queste sono le sue ultime parole, scolpite, anche se poi ha persino negato di avermelo detto. Chiaramente, questo è sintomo di soddisfazione del fatto che è stata contenta non solo di me ma di tutte le altre sue figlie. Tutte abbiamo lavorato su noi stesse per fare promozione culturale, e poi naturalmente per raggiungere l’indipendenza economica da tutti. Adesso purtroppo ha l’Alzheimer e… [si commuove e per questo ci fermiamo qualche minuto, ndr].
Quanto è stato importante l’esempio materno?
In realtà mia madre aveva sempre da ridire. Mi ripeteva: “Tu fai troppe cose, devi concentrarti solo su una!”. In realtà ero appassionata di tutto, mi piacevano l’arte, la musica, mi piacciono ancora tutte queste materie. Sono cose che non riesco a scindere: se non vedo una mostra, se non vado nello studio di un pittore, io mi appassisco.

Maria Pia Ammirati
Nel corso degli anni che lavori ha fatto?
Questo mio desiderio di indipendenza dalla famiglia a un certo punto si è fatto urgente. Ho iniziato subito a fare presto la babysitter e a dare lezioni private. Un mese dopo la laurea ho fatto il commissario di esame di maturità. Ho cominciato a insegnare italiano, storia, latino, nei licei romani. Insegnare mi è rimasto molto nel cuore, anche se è un mestiere che non volevo fare. Non lo so perché, ma non mi attraeva, e invece poi è stata una delle avventure più belle del mio percorso professionale. Ricordo con enorme piacere il rapporto con i ragazzi. Durante quel periodo ho fatto anche diversi esami per entrare come ricercatrice all’università, ho fatto ricerche al CNR. Facevo mille cose per cercare non solo di fare qualche soldo, ma anche di crescere. Mi sono occupata per anni di arte. Nel frattempo scrivevo sui giornali anche di narrativa italiana. Mi sono laureata in narrativa italiana contemporanea con una tesi sugli anni Ottanta che è stata, probabilmente, il viatico.
Il lavoro che le è rimasto nel cuore?
Uno dei lavori che rimane importante per me è stato quando ho cominciato a scrivere di arte contemporanea. È stata una fase forse aurea della mia vita, perché ne sono sempre stata molto appassionata. Ho cominciato a studiarla un po’ all’università, ho seguito anche critici d’arte importanti con cui ho curato alcune mostre in Italia. Ho conosciuto alcuni grandi artisti, sono stata molto legata a Carla Accardi, per esempio. Conoscevo molto bene anche Toti Scialoja, Pietro Consagra, Achille Perilli e Mario Schifano, poco prima che morisse. Una passione, quella per l’arte contemporanea, che forse è solo vicina a quella che avevo da piccola per la musica.
Suonava anche qualche strumento?
Ho cominciato a studiare pianoforte a sei anni, ma ero troppo piccola. Ho quasi costretto i miei a portarmi da una maestra di pianoforte, anche se in un piccolo paese come il mio nemmeno ce n’erano tanti.
Questo amore per l’insegnamento ha influito anche nella scelta di alcuni progetti? Penso per esempio a Un professore.
Il mondo dei ragazzi è un mondo bellissimo, l’insegnamento andrebbe curato di più. La scuola è una fase necessaria nella vita di tutti, non solo in quella dei giovani: è il momento di snodo. Anche io devo tutto all’istruzione, del resto ho fatto tutto il mio percorso in scuole e università pubbliche. Io credo che un po’ tutto mi influenzi, così come mi influenza molto la musica, come dicevo. Quando vado in una proiezione, quando leggo una sceneggiatura e immagino un film, per dire, penso anche alla musica.

Maria Pia Ammirati e Vittorio Gassmann
Si ricorda il suo primo giorno in Rai?
Certo. L’avventura in Rai è stata molto strana: cominciai come autrice di testi per la radiofonia. Allora già insegnavo ed ero giornalista, quindi prestavo grande attenzione al lato della scrittura. A un convegno incontrai un collega della Rai, che mi propose di aiutarlo in un programma radiofonico. Ricordo che il primo giorno mentre, timidamente, firmo il contratto, una funzionaria mi disse: “Magari questo sarà il primo di una lunga carriera”. Al tempo pensai, figurarsi se continuerò con questa cosa. Invece poi ci fu un altro contratto, poi iniziai con ad andare anche in voce, leggendo i miei testi, e poi passai alle critiche letterarie – ero appassionata di giovani scrittori: Pier Vittorio Tondelli, Aldo Busi, Daniele Del Giudice, avevo lavorato molto su questa nuova generazione. E infine entrai in organico nel ’92 con un ruolo più amministrativo.
Solo tre anni di precariato?
Sì, pochissimo. Sono stata molto fortunata, ma ero brava. All’epoca facevo mille lavori per farmene pagare uno e penso che la combinazione delle cose abbia funzionato.
Una volta entrata in organico, come ha fatto carriera?
Ho cominciato con un contratto da impiegata, perché nonostante avessi il tesserino da giornalista mi dissero che in Rai già ce n’erano troppi. Io non ero molto convinta. Mi proposero di andare a Rai 2, ma io dissi che volevo andare al DSE, Divisione Scuole Educazione, poi Rai Educational. Mi guardarono come se fossi matta, ma lì c’erano i corsi d’inglese, la cultura, il lavoro sulla parte scolastica ed educativa. La mia radice era quella, e sono stata molto felice di aver lavorato lì.
Cosa le piaceva di quel posto?
Lì si faceva tutto, e quindi ho imparato tutti i mestieri della produzione televisiva: l’assistente ai programmi, la programmista regista, la curatrice, la produttrice, la regia, la conduttrice di programmi culturali. Per due anni ho fatto programmi bellissimi che conducevo io, ho seguito il Festival di Venezia e quello di Spoleto, un festival straordinario. Il DSE è stata la mia vera palestra per la televisione: mi ero molto affezionata, ho fatto la carriera lì fino ad arrivare quasi a fare la dirigente. Allora il direttore era Renato Parascandolo, che mi chiese di fare il capostruttura. Per me era già l’apice della carriera, perché potevo fare io programmi, con le mie mani: ne feci uno bellissimo con Vittorio Gassman.
Come è stato entrare nei posti di comando?
Bellissimo! Ho imparato dai grandi prima di me. Allora c’era Franco Matteucci, un grande regista e capostruttura, e Franco Scaglia, che è stato un amico, un vice direttore appassionato. Ho lavorato accanto a persone molto brave che mi hanno trasferito con grande generosità il loro sapere e non ho mai sentito con loro né la differenza sessuale, né quella d’età, anche se ero più giovane. Mi hanno aiutato a crescere.

Maria Pia Ammirati ,2021
Quando arrivò a Rai1?
Maurizio Beretta, allora direttore di Rai 1, fece a Pierluigi Celli, direttore generale, il mio nome. Stava cercando in azienda le persone che lui riteneva migliori. Ricordo che piansi tutta una notte perché volevo rimanere al DSE. Arrivai a Rai1 come capo della segreteria di rete, quindi ero praticamente incaricata del coordinamento di tutto, poi capoprogetto, capostruttura e poi vice direttore.
Come ci si trova ad essere donna in un’azienda pubblica, politicizzata e anche molto maschilista?
Quando sono arrivata io era un’azienda che non aveva donne al comando. Ce n’erano tante, forse anche più del 50%, ma solo nella parte impiegatizia, nella parte di cura delle segreterie. Allora esistevano le segreterie di rete che erano comandate da queste funzionarie perché il top che potevano garantire era il funzionariato. Ed erano potentissime, perché mantenevano la conoscenza di tutta la struttura: i personaggi di snodo di un’intera filiera di produzione. Questo fino a quando non si è cominciato a fare pressione per avere anche dirigenti femminili. Ancora nel 2000 il comando era sostanzialmente ancora molto maschile, tant’è che quando sono arrivata a Rai 1 i capistruttura erano tutti uomini. Poi è arrivata la prima donna vice direttrice. Oggi è sicuramente diverso.
Trova?
L’avvento delle donne al comando ha chiaramente cambiato anche il modo di guardare il mondo, perché lo sguardo femminile è sicuramente uno sguardo diverso da quello maschile. Non c’è niente di male a dirlo, anzi: è importante che la diversità venga accettata, capita. Questo ci ha permesso anche di cambiare i linguaggi e di essere più vicini anche al nostro pubblico, molto femminile. Oltre agli anziani, davanti alla tv ci sono le donne che non lavorano, che si occupano della casa e dei bambini. Questa credo sia stata la grande rivoluzione di un’azienda che evidentemente nei primi anni Novanta era a trazione maschile e forse anche maschilista.
Ha avvertito su di lei questo maschilismo?
Per noi pioniere non è stata certo una passeggiata di piacere. Chiaramente, a un certo punto, la mia generazione – e anche quella dopo di me – percepiva che avrebbe fatto carriera, perché erano donne molto brave, animate di passione e determinate. Oggi è più naturale vedere sullo stesso piano un uomo e una donna. Quando sono arrivata a Rai Fiction i capistruttura e i vicedirettori erano tutti maschi. Oggi c’è una donna a dirigere una struttura e ne stanno arrivando altre due al comando. Non si può pensare a una struttura solo maschile, solo perché io sono una donna e quindi vi garantisco la quota. Bisogna superare anche questo concetto della quotazione, perché non ha senso: serve per imporre e per aggiustare un sistema che è ammalato. I sistemi non devono essere mai ammalati da una parte o dall’altra, noi rappresentiamo una società che deve essere più larga e inclusiva possibile.
Le arrivano anche segnalazioni?
Rai Fiction è una struttura molto, troppo “skillata”, c’è bisogno di tanta professionalità. Noi siamo alla ricerca sul mercato di professionisti, anzi ce li possiamo anche rubare tra noi. Non è facile che ci si inventi un editor, no? Devi avere professionalità adeguate, buone conoscenze del mercato editoriale, dei romanzi, delle novelle, degli adattamenti, degli sceneggiatori. Devi avere anche una passione per la serialità, per il cinema. E sono tutte cose che non puoi inventarti, non tutti le hanno, queste qualità. C’è una generazione di giovani, meravigliosa, che le possiede e che a volte se le è formate da sola: perché un altro grande tema è che noi, spesso, non facciamo formazione.

Vincenzo Ferrera con la direttrice di Rai Fiction Maria Pia Ammirati, Francesco Panarella e Serena Codato
Come può migliorare l’ingresso dei giovani in questo settore?
Nei nostri gruppi di lavoro, per esempio, mettiamo sempre dei ragazzi, giovani, soprattutto nella parte di sceneggiatura, e pretendiamo di mettere junior. Molte sono donne, perché mostrano evidentemente una cura, un’attenzione particolare e anche una capacità di stare bene anche nei gruppi. Non è facile scrivere in gruppo. L’inclusività non può essere solo un tema che serve ad accontentare, deve essere un tema reale, lo devi sentire. L’inclusività significa la rappresentatività di tutte le facce di questo paese e del mondo, perché significa essere aperti sul mondo, non solo sulla nostra capacità di narrazione.
Mentre la regia rimane ancora un territorio prettamente maschile.
È vero, abbiamo una buona quantità di donne sceneggiatrici, ma mancano le registe. Ne sto vedendo tantissime e le stiamo anche facendo esordire e in questo bisogna avere anche un po’ di coraggio. Non hai mai fatto una serie? Ti buttiamo, ti aiutiamo e la facciamo fare comunque. Magari troviamo la “geniaccia”, quella che comunque ha tutto in testa, perché magari è giovane, ha 30 anni, ha vissuto la vita a vedere serie, ha fatto tanta pratica magari con documentari, con trailer eccetera, che poi alla fine ti diventa un fenomeno della serialità.
Un talent su cui ha puntato molto?
Stiamo puntando tantissimo su talent giovani. Basti pensare a cosa è successo con Mare Fuori o Un professore. Non è facile andare a scoprire i talenti in un mondo e in un paese dove i talenti sono tanti. Vedo che c’è veramente una grande generazione di talenti. Grande, davvero, non scherzo. In questo mercato così fiorente, questa golden age che sta un po’ traballando nella serialità si può invece servire di ossigeno fresco a tutti i livelli. A partire dalle maestranze, perché non dimentichiamo che ci sono ragazzi giovani che cominciano adesso ad appassionarsi per esempio a montaggio, riprese, fotografia, musica.
Ci faccia almeno un esempio?
Leo Gassmann. L’abbiamo tirato fuori con un provino ed è stata una delle rivelazioni dell’anno, giovane, bello, intelligente, empatico, e con una ottima capacità oratoria.

Leo Gassmann in Califano
Ha notato delle resistenze da parte delle vecchie generazioni a lasciare il passo ai giovani?
C’è sempre qualcosa da fare. Forse sta dentro il nostro essere umano la paura di uscire dal cono di luce. Uccidere il padre è quello che sostanzialmente facciamo, così cambiamo. A un certo punto farsi da parte è complicato per chi ha lavorato tanti anni e si è sentito protagonista. Anche il contadino che ha coltivato, ha curato le terre, i campi, i vigneti, gli uliveti poi deve lasciare tutto al figlio, e magari quello non sa che poi arriva il verme e si mangia tutto. Chiaramente più sono mestieri importanti più il cono di luce è potente, e più è complicato dire: “Adesso mi faccio da parte!”. Però diciamo sarebbe giusto e onorevole uscire prima.
Fare carriera in una Rai politicizzata è sicuramente difficile. Se lei ha un talento che vale e vuole promuoverlo, è ancora difficile promuoverlo?
La Rai non è diversa da altre aziende, tutte le logiche industriali purtroppo sono feroci. Sono logiche che in parte garantiscono la possibilità anche di fare determinati percorsi, perché se non fossero così ci sarebbe la fantasia al potere e in un’azienda non può funzionare. Insomma, la Rai ti mette alla prova, è faticosa, però forse è anche una garanzia. E, forse, un’eccessiva apertura ci metterebbe in una situazione di difficoltà dal punto di vista della tenuta della qualità della classe dirigente. C’è sicuramente difficoltà nell’aiutare soprattutto i giovani. Quando sono arrivata io ho promosso tre dirigenti. Sono molto contenta, perché erano, sono e saranno le risorse del domani.
Chi sono?
Paola Claps, Walter Ingrassia e Luigi Mariniello, tre risorse eccezionali. E poi Anouk Andaloro, che è la nuova capostruttura, e ce ne saranno in futuro altre due, due donne che abbiamo individuato e che sono potenzialmente il futuro di Rai Fiction. Il mio orizzonte, come quello di altri colleghi, sarà a breve termine: ci sarà presto un ricambio generazionale.
Tra quanto?
Per quanto mi riguarda tra sei anni, credo. Il nostro dovere vero sarà lasciare un’azienda sana, giovane, rinnovata e inclusiva, aperta. Questo potrebbe essere il nostro vero obiettivo: perdere il servizio pubblico in questo paese sarebbe un gravissimo danno e l’unico strumento che hai è farlo crescere. Per farlo crescere però devi selezionare, e fare selezione significa avere persone brave in principio, classi dirigenti del futuro che a loro volta potranno scegliere e formare.
Ha rinunciato a qualcosa per il lavoro, per la carriera?
Penso di sì, purtroppo. Poi io sono contenta perché ho fatto e imparato tanto: in un mondo pieno di cose che puoi prendere, tutto ciò che hai ricevuto bisogna restituirlo. Rifarei tutto, perché poi si fanno sempre gli stessi errori.
Non c’è proprio nulla che le è mancato?
Forse avere più figli, perché mi piacciono molto i bambini e le famiglie numerose. Credo che fare la mamma siano una cosa importantissima. Ho provato l’adozione ma ho avuto difficoltà, perché ho lavorato troppo.

Maria Pia Ammirati, Direttrice Rai Fiction all’ AVP Summit 2024
Come madre come si giudica?
Dovrebbe chiederlo a mio figlio, però penso che lui stia bene con me.
Si è mai sentita professionalmente usata?
Sì, probabilmente sì.
In questi casi come si è comportata?
Le dinamiche sociali e umane mi divertono molto: cerco di scoprirle, capirle. Quando ci riesci, ti fermi e dici no, ho capito il tuo gioco, da questo momento in poi hai finito. Forse ognuno di noi in qualche maniera usa la seduzione, insomma, usa gli strumenti che ha a disposizione. Non mi piace l’imposizione, quella diretta, per principio. Tutto si può fare, ma bisogna capire i percorsi, bisogna condividerli: se tu mi dici solo “devi fare questo perché è così”, io mi irrigidisco. Però è un mio difetto.
Si è mai vendicata?
No, non mi piace la vendetta, penso che sia uno strumento che avvelena gli animi e la nostra società. Pure io provo rancore e odio verso chi mi fa del male, però la mia tecnica è fermarmi, allontanarlo da me, far passare del tempo per evitare il meccanismo della vendetta. Infatti dopo un po’ mi passa e dico “ma che mi frega”, poi cerco di capire perché gli altri facciano così. Mi metto sempre a disposizione, e secondo me sono una narratrice per questo: perché cerco di capire perché qualcuno si sta comportando così. Dal mio vocabolario mancano la vendetta e l’invidia, due cose che non sopporto.
Cosa vedremo prossimamente su Rai Fiction?
Avremo una meravigliosa stagione fatta di grandi eventi. Una miniserie su Giacomo Leopardi, interpretata da Leonardo Maltese con la regia di Sergio Rubini, che vedremo tra ottobre e novembre. Avremo Il conte di Montecristo che dovremo vedere tra dicembre e gennaio, forse il grande evento della stagione. Si tratta di una co-produzione internazionale, Palomar, TF1, per la regia del premio Oscar Billy August, con protagonista Sam Claflin. Poi ci sarà Belcanto, una serie sul melodramma. La regia sarà di Carmine Elia, con protagonista Vittoria Puccini che farà la mamma di due ragazze, due cantanti d’opera, di cui una brava e una no. Poi naturalmente vedremo l’ultima stagione dell’Amica Geniale, che partirà il 25 novembre, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Vedremo inoltre Don Matteo, una nuova Mina Settembre straordinaria… abbiamo finito di girare a Napoli e abbiamo trasferito tutto negli ultimi mesi a Roma. Vedremo una seconda stagione sull’avvocato Malinconico. C’è tanto, davvero.

La quarta stagione de L’amica geniale sarà presentata al Tribeca Film Festival di New York
E l’anno prossimo?
Cominceremo a girare Un professore 3, poi avremo un altra stagione di Doc -Nelle tue mani. Ci stiamo preparando al 2025 con altri titoli importanti. Ce ne saranno anche di impegno sociale fortissimo, come per esempio L’altro ispettore, dedicato alle morti sul lavoro. L’impegno dell’azienda si concentrerà anche su un tema gravissimo per il Paese, le famose morti bianche. Siamo riusciti a farne una serie di tre serate su Rai 1. Il servizio pubblico, quando si mette d’impegno, riesce a tirar fuori anche cose di questo tipo. Poi, naturalmente, ci impegniamo sulla criminalità, sul mondo della legalità, sul mondo femminile, le nostre eroine. Imma Tataranni ripartirà con la quarta stagione, cominciamo le riprese a settembre. È uno dei titoli più venduti all’estero insieme a Montalbano.
Come vanno le vendite internazionali?
Ogni anno aumenta la cifra di vendita all’estero dei nostri prodotti. Dal 2020 le vendite sono cresciute del 49 per cento con circa 7 milioni di introito. Il comparto internazionale diventa sempre più attivo, il prodotto italiano è sempre più accattivante. BBC ci chiede di produrre insieme, e infatti produrremo probabilmente qualcosa con loro; siamo in fase di pitch tra noi per capire quale potrebbe essere il titolo migliore da produrre insieme. Insomma, Rai Fiction è in ottima salute, non solo dal punto di vista della narrazione contemporanea del Paese, ma anche da quello internazionale.
Gli stranieri sono interessati al racconto attuale dell’Italia?
Gli stranieri sono sempre interessati all’Italia, perché la cultura italiana è la cultura che piace di più al mondo. Perché è fatta di arte, di musica, di melodramma, di ballo, di canto, ha un sound particolare. Anche gli italiani piacciono – sono comunque percepiti all’estero come divertenti, simpatici, affabulatori. Tant’è che il nostro confronto con l’estero è un altro lavoro: abbiamo ampliato il rapporto non solo con l’alleanza con cui siamo una parte in causa – perché l’alleanza tra Germania, Francia e Italia produce già titoli insieme – ma proprio con tutto il resto del mondo. Con la Finlandia, per esempio, avremo un titolo che si chiama Torna a Suriento, dove gireremo sia in Finlandia che in Campania. Il rapporto con la BBC è molto avanzato, e noi non ci tiriamo indietro: abbiamo un comparto di attori e maestranze pronto a lavorare per l’estero. Il conte di Montecristo, per esempio, è girato in inglese – così come Sandokan, che stiamo girando qui in Calabria.

Can Yaman è Sandokan
Perché proprio Sandokan?
Sandokan sarà un grande evento: un adattamento nuovo, un chiave più moderna, dove i temi sono sociali. Un esempio è il rapporto tra indigeni e colonialisti e lo sfruttamento delle risorse prime, con il relativo impatto sull’ambiente. Sono cose che oggi sappiamo che sono esistite, e che dobbiamo mostrare.
Molte di queste cose che ha citato le ha in fin dei conti ereditate. Qual è, quindi, la cosa di cui lei va più fiera, che è partita da una sua intuizione?
La verità è che faccio fatica a individuare una cosa specifica. Sandokan, Il conte di Montecristo, Leopardi, sono tutte cose che ho fatto io e di cui sono contenta. Adesso stiamo girando a Vicenza una serie che si chiama Costanza, una paleopatologa che si affaccia sul mondo della narrazione e della serialità italiana. Penso che andrà benissimo, perché anche lì esploriamo la contemporaneità del femminile.
Invece quella che non è stata capita dal pubblico, su cui lei puntava tantissimo…
Magari non è stata capita, ma il pubblico ha sempre ragione. Non lo so, abbiamo fatto per esempio Il clandestino con Edoardo Leo. Un crime un po’ più raffinato, se vuole. Complice anche una fase del palinsesto, diciamo, un po’ particolare, non ha avuto gli ascolti che credevamo. In generale, abbiamo talenti meravigliosi – Leo stesso, Alessio Boni, Alessandro Gassman, Lino Guanciale. Questa è solo la parte maschile, chiaramente. Serena Rossi, Luisa Ranieri, Maria Chiara Giannetta, Vanessa Scalera, Sabrina Ferilli, forse dimenticherò qualcuna, però obiettivamente abbiamo un parco di talent, diciamo, molto riconoscibile.
Stiamo notando anche una certa transumanza di talenti verso le piattaforme streaming.
Sì. È vero ma è anche inevitabile.
Una serie come La vita che volevi, con la prima protagonista transgender, l’avrebbe prodotta?
Beh, Ivan Cotroneo ha sempre prodotto anche con noi. E, devo dire, non vedo perché no: l’inclusività chiama in causa tutto il mondo, non solo maschi e femmine. Io penso che siamo pronti e che ormai abbiamo sdoganato tutto in Rai. Non parlo solo di Rai 2, dove Rocco Schiavone, per esempio, negli anni è stato un avamposto. Ormai ne sono passati tanti, c’è un mondo di diversità, di rottura, anche di provocazione, se vuole, no? E credo che Rai 1 abbia accettato tutto, abbia capito che la società è molto più complessa di quello che a volte vogliamo rappresentare. Penso abbia capito anche che bisogna affrontare tematiche magari minori, indagare quelle cose che o non vogliamo vedere, o non vediamo, o ci sembrano eccentriche.

Maria Pia Ammirati
Quindi possiamo dire che la sua Rai Fiction sarà aperta veramente a tutto?
Non parlo solo a nome mio, ma di tutta la squadra – perché per fare Rai Fiction, o hai una squadra che lavora all’unisono, o non la fai. Credo che oggi ci siano la maturità e l’interesse da parte del pubblico di vedere tutte le diversità del mondo. Bisogna leggere la storia, la verità che guida è la storia, sempre: e la storia deve essere coerente, bella, positiva. I nostri telespettatori questo ci chiedono, storie positive, intelligenti e non troppo complesse da seguire. E noi cerchiamo, diciamo, da una parte di accontentare i gusti, dall’altra parte di essere d’indirizzo. Non solo accontentare, ma anche alzare sempre un po’ l’asticella per poter dire: “Guarda, caro pubblico, caro signore di 80 anni, cara signora di 50, caro ragazzo: qui, in quest’angolo c’è anche questo mondo”. E, secondo me, accendendo tutte queste piccole lampadine qua e là, noi portiamo le persone a una coscienza di quello che è la realtà.
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