Paolo Bernasconi, il magistrato che rende pop i diritti umani

Il fondatore del Festival dei Diritti Umani di Lugano si racconta al The Hollywood Reporter Roma

Paolo Bernasconi, 81 anni, di Lugano ma con un’anima milanese, è il fondatore del Film Festival dei Diritti Umani di Lugano, un evento giunto ormai alla sua undicesima edizione, nato con l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico sui temi dei diritti umani attraverso il potere, la capacità di creare emozioni ed empatia che ha il cinema. Il Festival, che si è aperto da qualche giorno a Lugano e durerà fino al 20 ottobre (LINK: https://www.festivaldirittiumani.ch/it/), vede anche quest’anno la proiezione di oltre 30 film in tre sale luganesi, la partecipazione di molti registi e testimoni e il coinvolgimento di oltre 3000 ragazzi delle scuole. Nonostante un passato prestigioso come procuratore, che lo ha visto al centro di inchieste importanti nell’Italia degli anni ‘80 e ‘90, Paolo Bernasconi oggi si concentra quasi esclusivamente sul festival, che vede come uno strumento fondamentale per stimolare dibattito e coscienza collettiva. In questa intervista con The Hollywood Reporter Roma, ci racconta come è strutturato il festival, le sue sfide e il suo impatto sui giovani.

THR Roma: Cosa rende unico il Film Festival dei Diritti Umani di Lugano rispetto agli altri festival cinematografici?

Bernasconi: Ogni anno riceviamo circa 80 candidature per partecipare al concorso, e ne selezioniamo solo una parte: quest’anno sono 30 ad esempio le opere selezionate. La prima sera di questa edizione, durante la discussione, qualcuno in giuria ha chiesto: “Cosa può fare un film per i diritti umani?” Beh, la risposta è semplice: un bel niente, se il film non è di qualità. Non basta che un film tratti un tema rilevante, deve essere ben fatto. E’ per questo motivo che abbiamo più fiction che documentari, perché la fiction è più credibile e facilita l’immedesimazione, soprattutto tra i giovani e ancora di più tra le giovani ragazze. Ed è sempre per questo motivo che cerchiamo film che non parlino solo di conflitti, ma anche di temi come la censura, la privazione delle libertà fondamentali, le carceri o gli ospedali psichiatrici.

Qual è l’obiettivo principale del festival?

Il nostro obiettivo è sensibilizzare il pubblico in modo indiretto. Non vogliamo film che facciano propaganda, ce n’è già troppa in giro: puntiamo piuttosto a storie che tocchino il cuore delle persone. Dopo un buon film sui diritti umani, il pubblico è spesso travolto dalle emozioni che ha provato. Se lo mandassimo a casa senza null’altro, non provocheremo quel sussulto interiore che invece si può trasformare in impegno, azione o anche solo consapevolezza profonda. Ed allora la nostra parola magica è “dibattito”: dopo la proiezione, apriamo il palco a testimoni diretti, attivisti, giornalisti o persone che hanno vissuto le situazioni raccontate nei film. Portiamo sul palco persone che potremmo definire ‘influencer’ nel loro campo: testimoni diretti di quella vicenda, che possano con il loro racconto, con la loro esperienza di vita far immedesimare i presenti, soprattutto i più giovani. Questo è il momento in cui l’emozione può trasformarsi davvero in impegno concreto.

In poche parole, cercate di rendere “pop” un tema delicatissimo, complicato e spesso drammatico come quello dei diritti umani?

Hai colto nel segno.

Come coinvolgete i giovani nel festival?

I giovani sono il nostro pubblico principale, soprattutto attraverso le scuole. Ogni anno coinvolgiamo circa 3000 studenti. Non si tratta solo di portarli al cinema, come alternativa divertente allo stare in classe: gli insegnanti ricevono delle schede preparatorie sui film, sui paesi e sui problemi affrontati, per discuterli a scuola, per preparare i ragazzi. Questo metodo di preparazione è fondamentale per facilitare la riflessione. E non parliamo solo di licei: coinvolgiamo anche le scuole professionali, cercando di raggiungere un pubblico il più vario possibile. A volte i risultati sono davvero inattesi. Ad esempio, a Ginevra c’è un’organizzazione chiamata TRIAL che fa arrestare grandi violatori dei diritti umani. Ricordo anni fa una proiezione durante la quale, dopo aver visto un film su uno di questi casi, una ragazza si alzò e chiese: “Cosa posso fare?”. La laconica risposta fu: “Devi studiare”. Ecco, dopo un po’ di anni quella ragazza ha studiato ed ora si sta concretamente dando da fare. Il nostro obiettivo è questo: suscitare la consapevolezza e stimolare la voglia di fare. E spesso ci riusciamo.

Il festival si concentra solo su guerre e conflitti?

No, e ci teniamo a sottolinearlo. Certo, dei conflitti parliamo spesso, ma cerchiamo di concentrarci molto anche su storie di resistenza, di piccola e grande portata. Quest’anno abbiamo una storia molto toccante sull’Armenia e il Nagorno-Karabakh, un tema su cui c’è poca attenzione, ma che riguarda la fuga di 120.000 persone. Il regista del film sarà presente, così come alcune persone provenienti da quella regione. Ma il nostro obiettivo è parlare anche di situazioni vicine a noi: cosa succede in Svizzera, in Germania o in Italia. Ad esempio, per parlare della nostra Europa, quest’anno con un film e il dibattito che ne seguirà raccontiamo l’infiltrazione degli integralisti islamici salafiti nelle scuole del Belgio.

Come è cambiato il racconto sui diritti umani in questi undici anni, con un quadro internazionale che si sta via via complicando?

Il conflitto è il parossismo delle dittature: è spesso il risultato inevitabile di regimi che non rispettano la democrazia e i diritti fondamentali, dove l’uso della forza e della repressione diventa l’unico strumento per mantenere il controllo o espandere il potere. Ma non puoi parlare solo di questo. Cerchiamo anche di far capire che le democrazie sono in grande pericolo. Noi che al mondo viviamo in una democrazia siamo una minoranza, una piccola porzione di popolazione mondiale che è privilegiata. E se è vero che nel colonialismo l’Occidente sfruttava i paesi più poveri, le sfide che abbiamo di fronte sono più grandi e ben diverse: le grandi potenze autoritarie puntano a dominare il mondo, non solo a sfruttarlo, ed a toglierci la libertà. Qui sta l’importanza di una parte della missione che ci siamo dati: spiegare la democrazia. Perché la democrazia non si mangia e non si beve, devi farla capire: devi far concretamente capire cosa è la non libertà. Dove non ci sono i giornali, dove non c’è libertà di stampa, dove non c’è libertà di espressione.

Che ruolo giocano le ONG e altre istituzioni al festival?

Abbiamo sempre coinvolto ONG nel nostro festival. Ogni anno, una ONG seleziona un film per il Premio Diritti Umani. Accanto a questo, ogni anno un premio viene assegnato da una giuria a un film ed un altro ancora del pubblico che vota con le cartoline. 

Cosa accomuna la tua attuale attività sui diritti umani con il tuo passato da procuratore e magistrato al centro di importanti inchieste?

Nei 20 anni che ho fatto il procuratore pubblico a Lugano, ho seguito moltissime inchieste che si sono intrecciate anche con l’Italia, come quella sull’Ambrosiano o quelle contro la mafia. Ho avuto l’onore di lavorare molto con Giovanni Falcone. Ho seguito tantissimi casi di criminalità finanziaria, di riciclaggio di denaro sporco, ma anche di lotta contro i proventi enormi che la criminalità iniziava a fare con la droga. Sono stato poi per 30 anni nel board della Croce Rossa Internazionale, nella sede di Ginevra che opera direttamente in prima linea nei conflitti sparsi per il mondo. Cosa accomuna quel che ho fatto con questa mia attività più recente? Beh, la risposta è semplice e sta in una sola parola: giustizia.

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