“Mi considero una raccontatrice di storie. Niente a che fare col cinema”. Stupisce per la lucidità dei suoi racconti, Dacia Maraini. Sentirla parlare non è così diverso dal leggere uno stralcio di pagine dei suoi romanzi.
Ottantasette anni e una vita che basterebbe per dieci persone. Ne racconta in maniera vivida e dettagliata, come se stesse descrivendo attentamente le esistenze dei suoi personaggi o le ambientazioni in cui si avvicendano. La lungimiranza e la reattività che hanno sempre caratterizzato i suoi racconti li dimostra anche a parole. Priva di confini, di pregiudizi e di retaggi legati a un periodo tanto diverso quanto poco mutato, parla di femminismo, delle mutazioni della lingua italiana e delle difficoltà dell’editoria contemporanea.
Parla di Moravia, Pasolini e Fellini, normalizzandone le abitudini e gli usi, rendendoli – davanti ai giornalisti che le parlano alla roundtable del C-Movie di Rimini, neonato festival sul cinema discusso e fatto da donne – uomini comuni, fatti anche di velleità e difetti, invece delle solite entità che tutti raccontano. E fa lo stesso con se stessa, senza mai darsi per scontata, interrogandosi continuamente sul valore dell’arte, del privilegio e della scrittura, che “è vita, è respiro”.
Sin da subito la sua famiglia l’ha esposta al mondo. Racconta di aver viaggiato tanto, di aver letto sin da bambina. Pensa che questa curiosità sia stata poi la base della sua professione del suo scrivere?
Credo che metà della costruzione del mondo venga da quello che abbiamo alle spalle, dal posto da dove veniamo, dalla cultura, dalla famiglia. L’altra metà, poi, è la passione che ognuno ha.
Io ho due sorelle, una si occupa di musica, una di storia, il che fa capire che non è necessario riprendere le passioni della propria famiglia, però il fatto di aver trovato tanti libri sulla mia strada fin da piccola sicuramente ha avuto significato.
Perché è così necessario portare avanti dei festival di cinema al femminile?
Il teatro è stato per millenni escluso alle donne, perfino nel Medioevo la Madonna veniva fatta da un prete con una maschera. Il sacro era interdetto alle donne. Il cinema è cominciato molto più tardi, e lì più che il sacro è sempre valso il fatto economico. Puntare soldi sul lavoro fatto da una donna era visto come qualcosa di perdente. Quando ho cominciato a fare teatro, non c’erano donne di cinema. C’erano Lina Wertmuller, Liliana Cavani, ma nulla prima.
Penso ci sia stata una prevenzione di origine culturale ed economica. Non si fidavano veramente di una donna regista. Adesso per fortuna le cose sono cambiate, ma non in tutto il mondo: pensiamo sempre di essere un piccolo giardino privilegiato, ed in effetti lo siamo, ma non siamo separati dal mondo intero.
I festival sono delle occasioni importanti, in questo ambiente di confusione culturale. Non ci sono più luoghi dove ci si incontra, come succedeva negli anni subito dopo la guerra. Questa è un’occasione pubblica per riflettere su temi fondamentali, come la discriminazione, la creatività, la capacità, i rapporti.
Quali furono le difficoltà nel cimentarsi nella regia del film L’amore coniugale, tratto dal romanzo di Alberto Moravia?
Quello de L’amore coniugale fu un caso. Era un modo diverso di guardare la realtà che mi è servito ad avere uno sguardo diverso, anche sui dettagli della visualità. Un giorno arrivò Gian Vittorio Baldi che mi disse “tu devi fare un film”: io lì per lì ero molto perplessa, poi ho deciso di fare un esperimento. La cosa è finita lì, non tanto per l’accoglienza che ebbe, piuttosto perché non era il mio campo.
Avvertì ostilità da parte dell’ambiente cinematografico dell’epoca?
Da noi c’è un po’ quest’idea per cui se lavori in un campo, non puoi sperimentare in un altro, perché non ti appartiene. Come a dire “stai nel tuo mondo, la letteratura ti basta”. È lo stesso problema che ebbe Pasolini con il teatro: c’è un’idea di chiusura alla base. L’ho notato spesso, e nel teatro mi fa soffrire ancor di più.
A che punto è il cinema italiano in quanto a progresso femminile?
Quel che sta avvenendo adesso è una cosa strepitosa. Penso a quando ho cominciato io: c’erano due registe su duecento, era una cosa molto limitata. Il caso di Paola Cortellesi è senz’altro un segno che ha toccato la popolarità. Il cinema delle donne, prima, era un cinema di nicchia, un po’ da cantina. Lei invece ha dimostrato che facendo il cinema femminista si può anche diventare popolare, il che è segno che si è aperta una strada.
Non credo ci sia uno stile femminile, credo che ci sia un punto di vista storico, culturale, che parte dall’esclusione dal potere e dalla rappresentanza. Dal fatto che non abbiamo mai potuto rappresentare un paese, uno stato, un governo, una comunità.
Come si pone rispetto agli attuali cambiamenti della lingua di cui si discute tanto, come il “genderless”, l’uso della schwa?
La lingua non è quella che sta nei vocabolari, è un corpo vivo. Si cambia piano piano dal basso, creando una consapevolezza collettiva. E in questo senso sta mutando, perché non diciamo più “serva”, abbiamo capito che è umiliante: ora si dice collaboratrice domestica, assistente.
Non credo si cambi meccanicamente, attraverso la modifica di una vocale. Quello della schwa lo trovo un intervento troppo astratto e meccanico, non mi convince. Mi convince invece il fare un lavoro culturale: cominciare a non dire “l’uomo” per dire l’umanità. L’uomo comprende la donna, però la donna non comprende l’uomo, linguisticamente il maschile è universale, il femminile è il particolare. Perciò quando scrivo, io dico “l’essere umano”, non più “l’uomo”, perché non è giusto.
La grammatica piano piano si evolve, la lingua altrettanto, cambia piano piano. Certe parole vengono eliminate, altre si modificano, trovano degli equivalenti, ma gli interventi meccanici non mi convincono per niente.
Il festival si è aperto con La città delle donne di Federico Fellini. Cosa ricorda di lui?
Era un uomo squisito, delizioso, molto ironico. Lavorava sempre a Cinecittà: per lui anche il mare era dentro Cinecittà, la nave stava dentro Cinecittà. Era la sua casa, e contrariamente agli altri registi che di solito si chiudono, non fanno entrare nessuno, lui a mezzogiorno faceva apparecchiare la tavola, chiamava lì i suoi amici e tutti si univano a mangiare con lui. Poi, chi voleva rimaneva anche a vedere le riprese. Io l’ho fatto diverse volte.
Non l’ho mai visto arrabbiato, rancoroso, aggressivo. Anche quando girava era sempre tenero ed affettuoso, mentre altri registi erano durissimi e cattivi. Ogni tanto parlavamo di femminismo, mi prendeva in giro con questo suo tono un po’ ironico. Però ne era attratto: da una parte diceva che il femminismo non gli interessava, che era una cosa ridicola. Dall’altra parte ne era incuriosito, mi chiedeva “cosa fate?”, “dove andate?”, “perché lo fate?”. Era curioso di tutto ciò che stava avvenendo di nuovo, e il femminismo era una novità in quel momento. Aveva dei luoghi comuni in testa, ma poi li vinceva con l’arte, con la gioia di stare al mondo, con la curiosità.
Oggi cambierebbe qualche aspetto de L’amore coniugale?
Cambierei le cose più vicine alla politica, allo sperimentalismo. Mi terrei più sulla relazione dei due protagonisti. Terrei il rapporto con la mafia, che a me interessava, e nel libro non c’è. Mi interessava il fatto sociale che si svolge in Sicilia, era importante far capire che l’amore esiste anche in relazione con l’ambiente sociale, non è un fatto astratto fuori dalla realtà.
Allora mi sembrava più importante qualche immagine sperimentale, ci ho messo qualcosa di teatrale che oggi non metterei, dei momenti in cui esco dalla realtà del loro rapporto. Ora è cambiato il mio punto di vista, ma le cose in realtà hanno una loro specificità legata al momento. Appartiene a un certo momento storico e va visto in relazione a quel periodo.
E della situazione attuale dell’editoria che ci dice?
È diventata una specie di ruota che corre con rapidità. Quasi la metà dei libri che escono vengono messi al macero. Prima si contava e si puntava su un libro, oggi se ne pubblicano 100 per venderne 20: se entro una settimana il libro non ha fatto una certa quantità di vendite, si butta via.Per i giovani è terribile, perché devono avere il tempo di farsi conoscere. Io sono nata prima, ho già il mio pubblico, ma uno che comincia ora come fa? Non ha neanche il tempo di farsi conoscere.
Per tenere conto di questo ritmo ho pubblicato altri libri contemporaneamente, circa uno ogni anno, ma sono raccolte di racconti o articoli. Per scrivere un vero romanzo, ho bisogno di minimo due anni.
Oggi che cosa vuol dire scrivere per lei? È ancora una necessità, una passione?
È come respirare, è la vita. Io non potrei mai non scrivere, non riuscirei a fare nient’altro, sarei molto addolorata se non potessi farlo. È come per Fellini girare.
Quali sono le sue passioni cinematografiche?
Fellini senz’altro, l’ho sempre amato. Ho visto tutti i suoi film e sono stata sua amica. Poi mi piace il cinema americano, il cinema francese, il grandissimo cinema italiano, il cinema giapponese. Vado continuamente al cinema, ho visto adesso La zona d’interesse, e l’ho trovato un bellissimo film. Mi è piaciuto molto Rapito di Bellocchio, anche Io Capitano di Garrone.
Qual è l’ostacolo più alto che ha dovuto sormontare nella sua carriera ?
Essere presa sul serio in quanto donna. Il primo libro che ho scritto, La vacanza, è del 1962, e ricordo di essere stata presa di mira, ma non perché pensassero che era brutto. C’era un atteggiamento di superiorità, come a dire “ma questa a vent’anni che pretende di scrivere? Che cosa vuole?”.
Ciò che chiede una persona che scrive un libro è di essere presa sul serio. Criticata o elogiata, ma che sia con degli argomenti. E questo atteggiamento di sufficienza è durato fino a Marianna Ucrìa. Quello è stato il primo grande successo internazionale, l’hanno tradotto in tante lingue, ha avuto tanti premi e ha fatto sì che cambiasse l’atteggiamento nei miei confronti. Come a significare che bisogna aspettare l’approvazione generale per arrivare.
Crede che ora sia più facile?
Assolutamente no. Sicuramente è più facile pubblicare, escono migliaia di libri di giovani ragazze. Ma proprio perché se ne pubblicano tanti, molti spariscono. Anche libri che hanno successo, magari tendono a durare una sola stagione, poi è tutto finito. È molto difficile durare, ma questo per entrambi i sessi, perché il consumo è questo, ed è un guaio. C’è una specie di damnatio memoriae in atto, nel cinema, nel teatro, nell’arte.
In Vita Mia narra la sua prigionia in Giappone. Ne ha parlato più volte come di un’opera complessa da portare a compimento, anche per tutto il materiale emotivo che veicola. Quanto è doloroso vedere che è un racconto ancora tanto attuale?
L’ho cominciato tantissimi anni fa. Già nel 1990 avevo iniziato a scriverlo, però ogni volta lo lasciavo, lo riprendevo e poi lo ri-lasciavo. Adesso, vedendo l’aria di guerra che tira, io sono molto preoccupata. Parlare di guerra in astratto va bene, lo fanno tutti ed è giusto, ma le testimonianze sono importantissime, perché ti danno un’idea concreta e carnale delle cose. Ho detto “forse questo è il momento”. E mi sono sforzata di finirlo.
Però paradossalmente, mentre lo scrivevo, mi sono accorta che in un certo senso mi liberavo. Aveva ragione Freud, bisogna parlare, bisogna tirar fuori i propri dolori. Mi sono venuti fuori dei ricordi che avevo dimenticato, è stato terapeutico. E poi, spero che serva a qualcuno. Almeno per chi non ha vissuto quel periodo, per chi non c’era. Per far capire che cosa può essere la guerra vista da una bambina di sette anni, come lo ero io.
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