(Di seguito un estratto in anteprima di La donna della bomba atomica. Storia dimenticata di Leona Woods, la fisica che lavorò con Oppenheimer di Gabriella Greison, in libreria dal 2o febbraio edito da Mondatori)
Mi chiamo Leona Woods, sono nata il 9 agosto 1919 nello Stato dell’Illinois, la cui capitale è Springfield, famosa soltanto per aver ospitato la serie tv dei “Simpson”; e poi c’è Chicago, la mia vera casa. Sweet Home Chicago.
È stata la mia fortuna nascere qui, e in questo particolare momento storico. Ho potuto conoscere tante menti brillanti, mettere alla prova la mia e diventare quello che ho sempre sognato: una fisica nucleare. Se fossi nata in un altro posto e in un altro periodo, non so se ce l’avrei fatta. Sono Leona Woods, una donna che rompe il silenzio. Sono stata intervistata tante volte nella mia vita. Ormai le interviste che ho rilasciato non le conto più, ma credo certamente di aver superato Michelle Obama. Anzi, potrei tranquillamente insegnare io a Oprah Winfrey come condurre un’intervista. Anche se quello che chiede Oprah non ha nulla di nucleare. Mi faccio una domanda: «Leona, come vedi la vita?».
Be’, grazie della domanda, Leona. La vita delle persone andrebbe disegnata non come una linea verticale, ma come una mappa orizzontale infinita, con dei rami che si biforcano incessantemente. Solo così possiamo capire in cosa ci stiamo trasformando e trovare le connessioni gli uni con le altre, le une con gli altri. Oggi, guardandomi alle spalle, riesco a farlo. Ieri, mentre la vita la vivevo, non ci riuscivo. Oggi riesco a disegnare le mie braccia che diventano rami e si intrecciano ad altri rami, a cui sono attaccati altri corpi, altre anime, da cui prendo linfa vitale e vado avanti a espandermi, e lo stesso fanno loro. Dagli alberi abbiamo sempre qualcosa da imparare.
Penso al professor James Franck, che subito dopo la laurea mi ha preso a lavorare con lui. O meglio, a lavorare gratis per lui, perché alle donne non era certo permesso prendere uno stipendio se volevano lavorare in campo scientifico; erano queste le regole della società del XX secolo. Ma se lavori gratis, non stai lavorando. Il lavoro prevede uno stipendio. Quindi, ero un’hobbista. L’hobbista più talentuosa che potreste immaginare.
La tesi l’ho fatta sulla chimica, perché le porte erano leggermente più aperte in quella disciplina. Mi sono laurea- ta molto presto, all’età di 18 anni; ero un vero prodigio da ragazza, me lo dicevano tutti. Tutti tranne quel professor James Franck, che per me si rivelò un vero e proprio osso duro da gestire, il primo di una lunga serie. In ogni caso, devo ringraziarlo. Iniziando da lui, ho pre- parato le mandibole per ossi che spaventerebbero i più affamati dei mastini. Una vita, la mia, che non ha nulla da invidiare a Scooby-Doo, in quanto a ossi e mostri.
Notai Franck a un seminario, nell’auditorium dell’Università di Chicago. Spiegava le zone di Brillouin, era abile nella parlantina, veloce nel pensiero e svelto nel fare i calcoli, quindi lo andai a trovare nel suo studio e gli proposi di prendermi come sua studentessa laureata (ai miei tempi, gli studenti laureati potevano affiancare i professori e fare gavetta). Mi tenne, e mi accolse tra i suoi allievi con la frase: «Sei una donna, quindi morirai di fame in questo ambiente». Gli sorrisi gentilmente e gli risposi: «Bene, ci tengo alla linea!», e la presi come una sfida. Franck era un premio Nobel, e non per la simpatia; aveva un modo di fare tipico dei professori di quel tempo: duro, inscalfibile e, come ciliegina sulla torta del savoir-faire, la battutina contro le donne sempre
pronta dietro l’angolo.
Una vera tortura. Ma perché rendere ancora più difficile la vita di una persona? Ho scelto di intraprendere un percorso scientifico, e quindi mi sono già autoesclusa dalla vita sociale dei miei coetanei. Che bisogno c’è di far sentire una donna costantemente inferiore? Domande che mi accompagneranno per tutta la vita. Durai qualche anno con il professor Franck, poi ne conobbi un altro più bravo e mi proposi per fare il dottorato con lui. Si chiamava Robert Mulliken, e in seguito vinse anche lui il premio Nobel. Io mi tratto bene, ragazzi.
Stavolta riuscii a dirigermi verso la fisica. Mi concentrai sulle bande di ossido di silicio, e su questo argomento scrissi la mia tesi di dottorato, concludendola in fretta, in anticipo rispetto ai ragazzi della mia età: era il 1942 e avevo soltanto 23 anni. Ho già detto che ero un fenomeno, no? A 23 anni iniziò veramente la mia vita. Durante la discussione della tesi di dottorato, tutti rimasero a
bocca aperta per le argomentazioni che adducevo e per l’eloquio forbito con cui trattavo la materia dei miei studi. Una donna che parla così? Pazzesco, vero? E infatti mi fecero un applauso talmente fragoroso che ancora se lo ricordano le matricole di quell’anno. Accorsero tutte nell’aula.
Il mio relatore, il professor Mulliken, disse: «Forse non tutto quello che le ho insegnato è andato perso». Si trattava di un
complimento, nella sua lingua, sia chiaro. Da parte sua è stato come elargire la più alta lode, da parte mia significava incidere un altro segno indelebile sulla corteccia della mia crescita. Tra i commissari che ascoltavano la mia esposizione c’era un certo professor Herbert Anderson, un fisico nucleare, che dopo quel giorno mi volle conoscere. Mi chiese un colloquio privato. Andai a trovarlo nel suo studio, e mi propose di aggregarmi al team con il quale stava collaborando, roba semplice, nulla di speciale. Si trattava solo del team che la- vorava alla costruzione della bomba atomica.
E non come hobby, stavolta… A corredo della proposta, mi scrisse su un foglio di carta la cifra che avrei ricevuto come stipendio mensile. Boom! Quella sì che era una bomba, ragazzi. Naturalmente accettai all’istante. Sarei stata pagata per fare la fisica, il sogno della mia vita. Sono Leona Woods, una delle poche donne del XX secolo pagata per realizzare il suo sogno, una delle pochissime fisiche nucleari ad aver preso parte al Progetto Manhattan, sicuramente la più giovane. Ci sono stati momenti in cui mi sminuivo, altri in cui non rammentavo i dettagli di alcuni episodi, e il terrore di essere giudicata dai colleghi maschi mi gelava le parole in gola. Altre volte ho avuto paura di raccontare le cose esattamente per come sono andate. Oggi tutti quei freni non li vivo più, non mi servono e nemmeno me li ricordo molto bene. E quando mi chiedono cosa ho fatto nella vita, io rispondo
soltanto che ho fatto quello che faceva Enrico Fermi, ma con diciannove anni di meno, e incinta.
Durante la costruzione del reattore nucleare a Hanford, ero l’unica donna. Durante l’esplosione del Trinity Test, ero l’unica donna. Alla riunione conclusiva a Los Alamos, ero l’unica donna. Se avessi ricevuto un dollaro per tutte le volte che ho avuto ragione, ora sarei ricca. Se avessi ricevuto un dollaro per tutte le volte che mi hanno dato ragione, ora avrei un dollaro. E sarebbe il mio.
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