Muore (ne dà notizia, sui suoi social il collega Pedro Armocida), Adriano Aprà, nel pieno della sua maturità creativa, critica, analitica. A 84 anni può sembrare una provocazione e lo è nei confronti di quei colleghi – critici, saggisti e studiosi – che hanno avuto una parabola di illuminazione artistica e intellettuale più o meno breve. Ma limitata.
Adriano Aprà no, non ha mai smesso, di essere in una forma smagliante, almeno a livello mentale. Con quel fare un po’ rabbioso, sempre pronto all’indignazione, perché nulla è marginale nella creazione di un senso e dell’immaginario, a cui lui ha partecipato in ogni ruolo.
Adriano Aprà, una carriera multiforme
Come esegeta e come regista (Olimpia agli amici, presentato a Locarno, e Rossellini visto da Rossellini), come selezionatore e direttore di festival (Salso Film & Tv per 12 anni; la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro per 8 e per cui ha saputo dare vita a sezioni meravigliose anche sotto la direzione di Pedro Armocida, binomio festivaliero tra i migliori degli ultimi decenni; infine quattro anni al comando della Cineteca Nazionale).
Come docente universitario, perché la sua esigente generosità di professore la dimenticheranno in pochi, soprattutto dei suoi studenti.
Ma sempre, e soprattutto, come sguardo sempre laterale, sperimentale, mai accondiscendente.
Non era un tipo facile, Adriano Aprà. Era un combattente, chi lo ha conosciuto di più lo ricorda come appassionato e sempre infervorato – quando non incazzato -, con la capacità di un urlo mai maleducato ma sempre imponente se qualcosa non gli piaceva. Mai incline al compromesso, sempre al confronto, anche ruvido.
Pronto a contestare, perché le epoche attraversate, l’indole e il talento gli impedivano di essere moderato, ribelle dentro e fuori, eclettico come pochi altri: basta scrutare la sua bibliografia per trovare saggi che vanno da Warhol a Matarazzo, da Godard a Rossellini (che senza di lui avremmo capito molto meno e molto male), da Straub e Huillet a Blasetti, da Bazin a Germi, per non dimenticare Stelle e strisce, meraviglioso sguardo su più di mezzo secolo di cinema statunitense fino a uno degli ultimi scritti, Fuorinorma, che non è solo uno sguardo sul cinema neosperimentale italiano ma, forse, il titolo che si potrebbe dare a una vita e una carriera, la sua.
Le parole di Marco Bellocchio
A ricordarlo come merita il nostro regista più ribelle e coraggioso, come lui. Marco Bellocchio. “Con la morte di Adriano Aprà la pura razza dei grandi critici rischia di estinguersi. Era uno che criticava usando l’immaginazione, qualità rara nella categoria, e ha mantenuto fino all’ultimo la passione, sentimento ancora più raro. Ci mancherà”.
Le sue scorribande da attore
Ma è forse un libro piccolo, alcuni direbbero minore, a raccontarne anche l’ironia, la capacità di saper guardare oltre e altrove, ovvero Breve ma veridica storia del documentario, dal cinema del reale alla non fiction, in cui competenza e arguzia si accompagnano in ogni riga, con una pretesa di profondità ma anche di leggerezza che immediatamente non era evidente, nel suo carattere e nella sua analisi, ma che c’era.
E lo vedi nel gioco d’attore che si è concesso a fine anni ’60 (ma non solo) con Schifano, Ferreri (in Dillinger è morto è proprio un critico cinematografico) e Bertolucci (ma anche per Archibugi con Questione di cuore, in cui, non accreditato, è uno psicanalista). Ed era giusto, perché con quel carisma e con quella faccia, in gioventù, che ricordava il Renzo Montagnani de Le folli avventure di Rabbi Jacob con il mitico Louis de Funés, se solo avesse voluto ne avrebbe fatta di strada anche sul set.
Il cinema è più solo, senza Adriano Aprà. Senza chi sapeva capirlo meglio di altri, senza chi pretendeva da lui di essere un’arte alta e piena di opportunità, senza cedimenti. Senza chi generosamente si è dato per migliorarlo, pungolarlo, cercarlo anche nelle sue forme più folli e bizzarre.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma