Roberta Recchia, 52 anni, insegnante di inglese. Ha l’espressione paziente e lo sguardo benevolo, nascosto dagli occhiali, della docente consumata. I modi gentili e l’umiltà di chi non si è resa conto di aver scritto il best seller del momento. Roberta rimane con i piedi per terra, forse con un pizzico di scaramanzia. Le sembra naturale il fatto di dover chiedere l’aspettativa per seguire un tour che la porterà in più di ottanta librerie in tutta Italia. Al termine del quale è pronta a tornare a scuola perché “non si campa di sola scrittura”.
Eppure Tutta la vita che resta, romanzo d’esordio, è già un caso editoriale. Prima ancora di essere pubblicato in Italia (da Rizzoli) a ottobre dello scorso anno è stato protagonista della fiera di Francoforte e ha venduto i diritti per la traduzione in oltre quindici paesi europei. A poche settimane dall’uscita nelle librerie è in tutte le classifiche che contano.
“Si scrive di ciò che si conosce o di ciò che si desidera”. Lo sa bene Roberta Recchia che sembra non aver fatto altro per tutta la vita. E in effetti è così. Roberta scrive da quando ha undici anni. All’inizio racconti e piccole storie che faceva leggere solo alla sorella Paola, oggi bookblogger. Una passione di famiglia, quella per la letteratura. Ed è proprio la famiglia a essere il centro nevralgico di Tutta la vita che resta.
Un romanzo difficile da confinare in un singolo genere. Se da un lato si tratta di una grande saga famigliare, che attraversa tre generazioni, non mancano però elementi del thriller, del romanzo rosa e del romanzo di formazione. Con disinvoltura, Roberta Recchia riesce a tessere un intreccio narrativo senza sbavature.
La storia comincia con un flashback de la vita di prima, prima di cosa ancora non ci è dato saperlo. In una Roma anni ’50 in bianco e nero seguiamo il lento innamoramento di Marisa e Stelvio, lei di buona famiglia, lui umile garzone. Li ritroviamo più di vent’anni dopo, quando inizia la vita che resta, genitori di due figli in quegli anni ’80 dai colori accesi. Umili e felici, nel contesto vacanziero del litorale romano. Poi di colpo il buio.
Senza preavviso, la scrittrice trasforma quell’idillio familiare in un incubo dal quale non sembra esserci uscita. Così dal romanzo rosa si passa al buio pesto del noir, della tragedia. Dai toni favoleggianti di una famiglia perfetta ci ritroviamo immersi nelle atmosfere cupe dei retroscena, dei traumi, del dolore.
“Roberta Recchia è un caso a parte” dice la sua stessa agente. E non è difficile capire il perché. Tutta la vita che resta ha le potenzialità di un classico della letteratura. Un romanzo che le colleghe e i colleghi insegnanti di Roberta potranno sfruttare negli anni per aiutare gli studenti a capire e a capirsi.
Come omaggio alla varietà degli stili decidiamo di farle un’intervista a colori.
Una domanda rosa: In Tutta la vita che resta l’amore gioca un ruolo fondamentale. È salvezza e motore di cambiamento. Cosa rappresenta l’amore per Roberta Recchia e per i suoi personaggi?
L’amore è un sentimento complicato. Per quello che mi riguarda più di una volta mi ha messo in difficoltà. Non sempre sono stata in grado di gestirlo, esprimerlo. Da un punto di vista mi affascina, dall’altro mi spaventa perché fa emergere le mie inadeguatezze.
A volte ho avuto problemi a ricevere e dare amore nel modo giusto. Quello che esprimo nel romanzo è però il suo aspetto più salvifico.
L’amore è quella risorsa che emerge e acquisisce un’importanza fondamentale nel momento in cui nella vita si crea una frattura profonda. Nel romanzo c’è una vita di prima e una vita di poi e nell’affrontare la seconda l’amore diventa l’unica strada percorribile per potersi risollevare.
Una domanda gialla: Cercando di non spoilerare, c’è un delitto a sfondo sessuale che dà il via a una serie di eventi. Le forze dell’ordine investigano con superficialità e pregiudizi. Anche per l’opinione pubblica la vittima diventa presto responsabile delle sue disgrazie. Quanto spesso accade nella vita reale?
Ahimè molto spesso. Fatti di cronaca anche recenti hanno dimostrato che a volte in casi di questo tipo le indagini tendono a stagnare proprio perché frenate da una sorta di pregiudizio. Che non solo viene dall’opinione pubblica ma anche dagli inquirenti stessi. Anche chi indaga si concentra in maniera eccessiva su tutte quelle motivazioni che in qualche modo hanno, secondo loro, potuto causare gli eventi.
C’è un’attenzione morbosa agli atteggiamenti e ai comportamenti della vittima, come per trovare una giustificazione a quello che è accaduto, quasi fosse una conseguenza inevitabile. È un discorso estremamente attuale. Accadeva anni fa, ci siamo illusi di aver fatto dei passi avanti, ma evidentemente non ne abbiamo fatti abbastanza.
Una domanda nera, anzi noir: l’evento cardine del romanzo ha dei punti in comune con casi di cronaca nera molto riconoscibili. Ce n’è uno in particolare a cui si è ispirata?
No, non ce n’è uno in particolare. Io scrivo d’istinto, non parto da un’idea attorno alla quale costruire una storia. Parto da un personaggio e ascolto quello che ha da dirmi. In seguito, parlando, confrontandomi e anche rileggendo quello che ho scritto ho trovato dei punti in comune con alcuni fatti di cronaca.
Nelle presentazioni è uscita più volte una similitudine con il caso di Serena Mollicone. Alcuni elementi rimandano anche al delitto del Circeo e all’omicidio di Wilma Montesi. I riferimenti alla cronaca sono tanti, perché di fatto tutti questi delitti hanno dei punti in comune. Betta è diventata un mosaico di tutte le vittime di questo tipo di reati.
Una domanda verde speranza: il suo romanzo d’esordio sta riscuotendo un notevole successo. Cosa si augura ancora per il futuro?
Per questo romanzo mi aspetto un buon percorso. Chiaramente i numeri sono importanti. Sarebbe ipocrita dire che raggiungere buoni numeri di vendite non sia una delle mie speranze. Ma ancora di più mi interessa il modo in cui il libro raggiungerà i lettori.
Vorrei che lasciasse tanto, che toccasse in profondità. Per il futuro l’obiettivo principale è trovare un equilibrio tra il mio lavoro di insegnante e il mio nuovo ruolo di scrittrice. Ho sempre scritto solo per me stessa, questa figura più pubblica al momento è un po’ complicata da gestire. Devo capire come far convivere i miei due mestieri, facendoli bene entrambi.
Una domanda in technicolor: sia per la caratterizzazione dei personaggi che per le tematiche affrontate, Tutta la vita che resta si presta ad un adattamento audiovisivo. Ci ha pensato? Come se lo immagina?
Dell’adattamento ho un’immagine chiara e molto precisa, perché mentre scrivo il film lo sto già vedendo nella mia testa. Confesso che mi piacerebbe più una trasposizione cinematografica che una serie. Ho ancora questa visione antiquata che un film lasci il segno più facilmente. Le serie televisive per quanto belle ho l’impressione che tendano con il tempo a essere dimenticate. Anche a costo di subire un adattamento più crudele, con molti tagli, preferirei vederlo al cinema.
Il casting è un trauma. I miei personaggi per me hanno già un volto. Per la regia mi piacerebbe vedere una donna. Questo è un romanzo che deve molto alle donne. Il mio agente è una donna, le prime a supportarmi dentro Rizzoli sono state donne, mi sostengono soprattutto le libraie. Non per una questione di sessismo, ma perché abbiamo sempre dato un tocco femminile a questa vicenda e vorrei che continuassimo su questa strada. Anche se qualcuno mi ha detto che le atmosfere rimandano un po’ a Ozpetek che chiaramente sarebbe il benvenuto (ride n.d.a).
Passiamo a tonalità più personali.
Una domanda dai toni seppia: Una foto di famiglia. Tutta la vita che resta è, anzitutto, una grande saga familiare. Tre generazioni di Bassevi, Ansaldo e Balestrieri che si avvicendano sulla scena, con i loro pregi, i loro difetti, gioie e dolori. Quanto c’è della sua famiglia nella storia di questo nucleo allargato?
Quasi niente. Ci sono alcuni aspetti di mia madre nel personaggio di Emma. C’è qualcosa di me. Il personaggio più vicino alla mia esperienza di adolescente è Miriam. Ma sarebbe più giusto dire quanto non c’è della mia famiglia. Mi è mancato un padre protettivo, uno come Stelvio, forse questa assenza mi ha portato a crearlo.
Una domanda giallorossa: nel romanzo descrive una Roma anni Cinquanta, fatta di quartieri che somigliano più a piccoli paesi che alla metropoli di oggi. Come è cambiata per te Roma dalla sua infanzia a oggi?
La Roma della mia infanzia, quella in cui sono cresciuta, purtroppo è cambiata in peggio. È rimasta bella ma ha perso molto del suo fascino. Non è stata sufficientemente amata e tutelata dalle istituzioni ma anche dai romani, che tutt’oggi non la apprezzano e rispettano come meriterebbe.
C’è stato un cambiamento in negativo, come se ci stessimo dimenticando di avere a che fare con una delle città più belle del mondo. Ce ne dimentichiamo noi e lo stiamo facendo dimenticare anche ai turisti. Un segnale positivo rimane il lato umano.
Roma è ancora una delle città più calde e accoglienti. Un po’ ho viaggiato, ho avuto modo di muovermi in Italia, in Europa, nel mondo e stando fuori ci si rende conto ancora di più del calore di cui i romani, quando vogliono, sono capaci.
Una domanda nero su bianco: la scrittura l’ha accompagnata per quasi tutta la vita. Da cosa nasce questa necessità di raccontare e perché solo ora ha deciso di uscire allo scoperto?
Il bisogno di raccontare nasce per un desiderio di fuga, di evasione. Ho cominciato a undici anni ed è stato un rifugio da un’infanzia e da un’adolescenza in cui non mi sentivo a mio agio. Era un desiderio di immaginare una realtà parallela in cui fossi in grado di creare e di sentire cose che non erano.
Poi la scrittura si è evoluta con il tempo. Mi ha letteralmente salvata nel periodo del lavoro aziendale in cui ero costretta per molte ore al giorno a fare cose che mi frustravano. Ha rappresentato quasi una cura. La scrittura curava tutte le insofferenze. Nel momento in cui ho deciso di diventare insegnante ho invece trovato un equilibrio che mi ha permesso di esprimermi. In quel momento la mia scrittura è cambiata. È diventata meno incentrata su di me, sui miei desideri e più sui miei personaggi.
È scattato un meccanismo che dal ricercare me stessa nei personaggi mi ha portato invece ad ascoltarli. Quello è stato il momento in cui ho fatto un salto di livello, anche qualitativo. Mi sono predisposta all’ascolto e ho cominciato a scrivere le mie cose migliori. Quest’equilibrio mi ha anche aiutato a superare la paura del fallimento, che ho sempre vissuto molto male.
Improvvisamente ho capito di essere forte abbastanza, di essere pronta e di non essere più terrorizzata dal fallimento perché sarei stata in grado di rialzarmi. Il mio successo l’ho già raggiunto il 5 marzo, quando ho visto il mio libro in vetrina in una libreria di Ladispoli.
Una domanda blu oltremare: per scrivere Tutta la vita che resta si è trasferita a Ladispoli. Quanto sono importanti per lei la calma e la tranquillità per il processo di scrittura?
Sì, in larga parte ho scritto il romanzo nella mia stanza che dà sul mare. Il mare aiuta sempre. Nel mio romanzo in particolare ha aiutato anche per l’ambientazione. Mi è capitato di notte di uscire e andare in spiaggia perché volevo respirare l’atmosfera. La scena dell’aggressione è stata molto aiutata da quelle passeggiate, dagli odori, dalle immagini e dai rumori che ho visto e sentito.
Calma e tranquillità sono importantissime, quella è la dimensione ideale, ma se sono in “palla”, calata totalmente nella storia, intorno a me potrebbe succedere qualsiasi cosa e non me ne accorgerei. Divento totalmente estranea a tutto ciò che succede, potrei scrivere anche in un treno gremito.
Una domanda arcobaleno: nel suo romanzo si affrontano tematiche di grande attualità. La più evidente è la disforia di genere, incarnata da uno dei personaggi più memorabili di tutto il libro. Nella sua esperienza di insegnante, a contatto con i giovani, come sta cambiando la mentalità delle nuove generazioni in merito a questi temi?
Per la mia esperienza, i giovani hanno tanto da insegnarci. Contrariamente a quello che sento e leggo molto spesso, tutti i giorni assisto a una realtà ben diversa. Nelle mie classi i ragazzi che stanno passando un momento delicato rispetto alla ricerca della loro identità di genere vivono sereni con i compagni, non subiscono né bullismo né vessazioni. Non solo per quello che riguarda la disforia di genere, ma anche in merito all’orientamento sessuale.
Solo in un caso o due mi è capitato di sentire una parola di troppo. In tutti gli altri casi percepisco grandissima accoglienza, grandissima accettazione e, cosa più importante, una profonda normalità. Forse anche perché –purtroppo- questi ragazzi tendono a essere più concentrati su sé stessi e poco sul mondo circostante. È un fenomeno che andrebbe analizzato.
Non vorrei che tutta questa accettazione derivasse anche da una tendenza a isolarsi e a chiudersi rispetto al mondo esterno. Un dato positivo c’è: oggi i ragazzi e le ragazze che affrontano momenti difficili, di transizione, di auto accettazione tendono ad avere una vita più facile rispetto al passato. Nonostante tutto, alcune porte si sono aperte.
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