Zerocalcare, Quando muori resta a me: la recensione del nuovo capolavoro del “giuggiolone di Rebibbia”

Come Dimentica il mio nome, l'ultimo libro di Michele Rech indaga nella sua famiglia, per raccontare ciò che non sappiamo e troppo spesso neanche vogliamo sapere. Le vite segrete e un po' bugiarde degli adulti, qui, si intersecano con la Storia. Ed è di nuovo una delle sue opere più belle

Quando muori resta a me. Lo capisci fin dal titolo, come successe con Dimentica il mio nome, che non sarà come le altre volte. Che poi, con Zerocalcare, non lo è mai, come le altre volte. Sei sempre lì, con un sorriso sornione, tu che sei tra quelli che lo conosce da sempre, quasi infastidito dalla massa che ora lo adora “ma che ne sa del blog, delle locandine, delle tavole che aspettavi avvelenato ogni settimana, anzi due, ovviamente gratis”.

Compri il suo libro appena esce, poi covi la tentazione di scrutare qualche peggioramento, chissà, anche solo perché in fondo adorarlo, considerarlo infallibile, è l’antizerocalcarismo per eccellenza. Deluderebbe pure lui. E lui nelle prime pagine, pure con una certa furbizia, così come aveva fatto nelle prime due puntate di Questo mondo non mi renderà cattivo, ti ci fa credere. Eccolo, il manierismo zerocalcareo, eccolo lì che Rebibbia gli sta stretta. E infatti parte, diavolo di uno Zero. Che poi facci caso, parte quasi sempre, l’unica volta che rimase a Rebibbia era perché era invasa dagli zombi.

Alcune delle prime tavole di Quando muori resta a me

Alcune delle prime tavole di Quando muori resta a me

Quando Zerocalcare è più Michele Rech del solito. O viceversa, chissà

E poi lo vedi dalla copertina, da quel titolo, così familiare, universale, ma suo, che dieci anni dopo, ti porta dalle parti del Premio Strega. Se quest’ultimo fosse un riconoscimento serio, ovviamente, dovrebbe vincerlo per questo libro la seconda volta. Invece arrivò, con Dimentica il mio nome, allo Strega giovani. Il tombolino degli Amici della Domenica per il migliore di tutti, ma che in quei salotti non capiranno mai. Per fortuna.

Ma tanto non aggiungerebbe nulla al percorso di un autore che a 10 anni dal suo capolavoro più bello – Dimentica il mio nome è del 2014 – chiude un’altra decade decisiva per la sua esistenza. Allora aveva appena compiuto i 30 anni, questa volta i 40 e indaga ancora la sua famiglia.

Quando muori resta a me

Commento breve In viaggio con papà. Uno sembra Sordi, l'altro Verdone. Ma a un tratto vi troverete nella Storia
Data di uscita: 07/05/2024
Cast: Zerocalcare, Genitore 2, Marla, Giglio, Armadillo, la Prima Guerra Mondiale, gli Anni di Piombo, Mer-Man e Sara. Che rimane il faro di tutti noi, pure qua.
Regista: Zerocalcare
Sceneggiatori:
Durata: Un paio d'ore. Poi vi servono un paio di vite per riprendervi

Quando si avvicina ai suoi affetti più duri e puri, anche la politica non è una zavorra, uno schema rigido, un totem fatto di regole sacre, ma è impastata con paternità e figlianza, con solidarietà e rancore, con passato e presente, con tutto e niente.

E questa volta, sempre più maturo nella gestione di inquadrature e ritmi – tanto da far pensare alla possibilità di una regia non di una serie, ma di un film (ma in fondo entrambi i suoi racconti seriali sono opere cinematografiche, una di circa due ore, l’altra di tre) -, nel racconto ci incastona nuovamente la sua ascendenza, che ha sempre smitizzato tra “n’é meglio la fregna” e “è sparito Google”, nella Storia. Sì, quella con la S maiuscola, tra grandi guerre e rivolte, tra rivalità provinciali e ribellione all’ordine costituito.

Quando muori resta a me, la trama

Zerocalcare parte con Pingping, il papà, pardon Genitore 2, per Merìn, luogo che custodisce il suo passato. A confermare come la romanità ostinata di Zero sia un’ibridazione di mondi altri – la Francia materna, le Dolomiti paterne (anzi, per la precisione, “un buco di culo sperduto sulle Dolomiti”, come dice nel romanzo) -, che la sua scelta di stanzialità identitaria a Rebibbia sia politica e antropologica, ma anche un’ancora di salvezza, una comfort zone necessaria per chi ha una sensibilità in realtà quasi apolide. Per chi, in fondo, non si sente mai davvero a casa.

Cover Calcare Anno Zero

La Digital Cover che The Hollywood Reporter Roma dedicò a Michele Rech nel giugno del 2023

Parte con lui, perché ha 70 anni e non vuole lasciarlo solo. E in quelle prime pagine ci diverte con la solita dinamica padre-figlio, con la sua insofferenza irresistibile. E pure con qualche facile easter egg tra imprese letterarie e addirittura commerciali.

Gli action figure del suo immaginario li ricorderemo per un bel pezzo, mannaggia a loro: no, non ci provate, non sto piangendo, è solo sudorazione oculare causata da un pezzo di pane abbrustolito nell’occhio).

Il motivo è banale: si è allagata la casa che il papà ha lì, una casa che “quando muoio resta a te, Zerocalcare”. Ovviamente, sarà un viaggio molto più profondo e ancestrale.

Perché una casa, se vuole, sa come farsi notare. Soprattutto se è posseduta dai sensi di colpa, dalla rabbia, dall’oblio.

La recensione dell’ultimo libro di Zerocalcare

E quando gli si dà del profeta generazionale, non si sbaglia. Ma non nel senso facile e facilone di qualcuno che intuisce e scivola sullo zeitgeist della sua contemporaneità e lo fotografa in quel dato momento e poi mai più (da Trainspotting in su e giù, sono tanti gli esempi, quasi tutti gli autori dei loro contemporanei hanno saputo raccontare una sola età), ma di chi intuisce lo spirito di un popolo che nessuno ha capito, intuito, probabilmente neanche considerato.

Zerocalcare, con il suo essere un Woody Allen überpop con il cuore di Pasolini (ma pure il contrario ci sta, eh), prende quella generazione sulle spalle, impietosamente, ogni volta. A trenta, come quaranta anni. E non ci mollerà neanche dopo. E in un martirio letterario – non c’è niente di epico o rigidamente etico in esso, e infatti l’espressione è troppo retorica per la realtà che è l’opera, ma non sapremmo come descriverlo altrimenti -, (vivi)seziona se stesso e noi che lo leggiamo, con naturalezza, ironia a volte dolce e altre bruciante. Usa la risata come sfogo, rifugio, soprattutto in questi lessici famigliari in cui riesce con equilibrio a scaraventarci nella sua intimità senza invaderla, tutelandone i protagonisti (anche se “padrozzo” pare che per tre giorni il muso gliel’abbia tenuto).

La copertina dell'ultimo lavoro di Zerocalcare

La copertina dell’ultimo lavoro di Zerocalcare

C’è Natalia Ginzburg e la capacità che aveva, con un’essenzialità mai scarna, di ritrarre gli altri come pezzi di sé e di una storia totale. Pure se siamo poco oltre l’ombelico di Zero, apparentemente, e in una valle dimenticata da Dio.

Ma prima che quei grigi maledetti – che bravo Alberto Madrigal – ti scavino dentro , quei flashback ti inchiodino ai tuoi di ricordi, quella storia nella storia di un gruppo di amici di inizio secolo (ma quant’è disegnata bene, quanta lacerante ed elementale – sì, con la elle – potenza c’è in quella scrittura, in quel dialetto, in quel viso mai e mal tratteggiato?) ti entrino dentro e ti costringano a fare i conti con loro, tu sei già lì.

In quelle strade, nella superficialità silenziosa di un eroe che ha vissuto l’inferno con disincantato stoicismo, nella normalità di ogni nostra battaglia, ogni nostro dolore.

E qui c’è tutta la bravura di un Zerocalcare che è un Truman Capote dell’inconscio, che tra polpi, mostri marini e armadilli ci ha sempre spinto a semplificare e dare corpo al nostro buio, per poi indagarlo, esplorarlo, fenderlo con la lucidità feroce di un entomologo e la apparente frivola e divertita leggerezza di chi conosce la vita e come prenderla in giro. Restituendocelo in una complessità limpida. Come il tratto con cui, per la prima volta in un suo lavoro, si ritrae con tratti realistici, quasi fotografici.

Che poi ci riempiamo la bocca di grandi autori, ma la verità è che Zerocalcare è uno di quelli che citeremo per spiegare altri e non è abbastanza cercarlo altrove, bisogna affrontarlo in tutta la sua originalità e talento. Così grandi, entrambi, che a volte ci sembra già un classico e allora vorremmo vederlo altrove e diverso, sbagliando. O meglio, lui sa esserlo andando ben più lontano di quello che crediamo. E ce ne accorgiamo sempre dopo.

La scena di Quando muori resta a me che non ci dimenticheremo

Zerocalcare ha usato per anni il senso di colpa come arma comica e al contempo strumento di empatia e condivisione per i propri lettori. Si è creato un popolo, perché questa massa non era rappresentata. Maschi che avevano riferimenti paterni improbabili, incapaci di staccarsi da una certa abitudine al patriarcato, e che hanno combattuto quest’ultimo con le armi che avevano, poche e malridotte. Un po’ di politica, qualche film, una militanza emotiva prima che ideale.

Maschi a cui nessuno ha insegnato a fare i conti con le proprie emozioni, ma da cui si pretendeva che ci riuscissero. Giustamente. E donne, raccontate e mostrate con pudica attenzione, scorse nei loro demoni, senza la presunzione di spiegarle ma neanche la vigliaccheria di evitarle.

Un popolo che si chiede, anche a 40 anni, chi sia. Che si sottovaluta, perché non c’è qualcosa di epico e riconosciuto come una guerra o gli anni di piombo a puntellarne identità e fallimenti, valori ed errori, scelte e fughe. Un popolo sottovalutato che ha fatto una rivoluzione da solo, del proprio io, ma nessuno gliel’ha riconosciuta. Anzi, quasi nessuno l’ha capita. E che a volte, grazie ai pochi intellettuali come Zero, riesce a rintracciare tratti di questo percorso in chi l’ha preceduto.

Un popolo che in Michele Rech ha quel faro che lui vede in Sara, perché Zero non ha paura di mostrarsi nudo. Pur essendo sempre in difesa. Lo ha fatto in Questo mondo non mi renderà cattivo, con una scena meravigliosa, unita al suo monologo più bello.

Sara che lo, li accusa di essere andati avanti, senza guardare indietro, quando lei, invece, ha tenuto il passo di tutti. Perché si tiene sempre il passo del più lento.

Michele Rech, in arte Zerocalcare

Michele Rech, in arte Zerocalcare

Il “cast” di Quando muori resta a me

Quale scrittore ha davvero il coraggio di mettersi dalla parte sbagliata, senza la vanità del bad boy, ma con la spietata descrizione di un errore? Non Moravia, compiaciuto nel guardarsi da fuori, non Mann che si nascondeva nella grandiosità della sua bravura. Non Bukowski, troppo attratto dall’abisso, forse Musil, che però va oltre e altrove.

C’è qualcosa dello Stoner di John Edward Williams a tratti e ovviamente, sì, Il giovane Holden, ma non a caso quelle poche pagine non si sono ripetute nella penna longeva ma poi asfittica di Salinger se non, forse, 10 anni dopo in Franny and Zooey.

Ok, ci siamo ricascati, basta citazioni. Perché poi in fondo quest’ultimo romanzo di Zerocalcare è qualcosa di molto (più) semplice. La sua bellezza sta nel tirar dritto, nel limitare al minimo i pur divertenti stratagemmi comici, nella normalità dei plot twist, nella verità cercata ferocemente che in realtà è un puzzle di storie tutte tronche. Nell’essere il risultato di tutti i suoi esperimenti letterari, dal graphic journalism alle strisce alla Peanuts, fino ai capolavori letterari, perché questo sono. Nell’essere appunto l’incontro di vite mai rotonde, mai compiute, spesso spezzate.

Marla, la cui esistenza è sospesa, ostaggio di una vendetta che non arriva; i villici che annegano in echi di rancori che non finiranno mai; Zero che da Camille in poi, le sue storie le strozza per tenerle con sé.

Sei forte papà

E Genitore 2, che è un eroe come tutti i papà immaginiamo siano, che ha una vita che nessuno gli sospettava alle spalle, che ha fatto le scelte giuste ma è ingabbiato nell’unico passato che gli interessa. E quando scopriamo il suo piccolo grande segreto ha il sapore di una verità tanto ovvia quanto dolorosa, ma proprio per quello il colpo di scena è ancora più forte.

E pensare, lo confesso, che da piccolo Mer-Man mi sembrava un coglione. E invece il coglione ero io. Vorrei tanto parlarvi ancora di uno dei libri più belli degli ultimi anni. Ma vi conviene leggerlo. Io mi congedo, c’è un mostro marino che è tornato, per l’ennesima volta. E devo cacciarlo via. Devo ricacciarlo lì dove può nuocere di più. Dentro di me, come sempre.

Zero, mortacci tua, e falla una cosa brutta. Altro che “giuggiolone di Rebibbia”.

La cover variant di Quando muori resta a me

La cover variant di Quando muori resta a me