Il cinema italiano: Piccolo, ma pieno di nuovi talenti

La quota di mercato mondiale del cinema italiano è irrilevante e marginale, ma la salute di un cinema si vede anche dalla sua capacità di fa emergere nuovi talenti

Qual’ è il parametro più affidabile per misurare lo stato di salute di una cinematografia? 

Il cinema italiano ha il secondo patrimonio di diritti al mondo, come ha ricordato di recente ad un convegno dedicato all’importanza commerciale degli archivi cinematografici, a Torino, il conservatore della Cineteca Nazionale, Steve Della Casa. Queso è anche se lo status giuridico di questa proprietà intellettuale e materiale è magmatico e caotico. 

Il cinema italiano è quello che ha vinto più Oscar assegnati a film non in lingua inglese, e settanta anni fa, a metà degli anni ’50 quello italiano era il terzo mercato internazionale, dopo USA e URSS per biglietti venduti e il primo paese al mondo per rapporto tra numero di abitanti e schermi cinematografici. Se un’astronave aliena ha sorvolato i cieli italiani in quegli anni, il rumore di fondo che ha sentito è stato probabilmente il trascinamento meccanico della pellicola del proiettore. Un rumore che oggi non si può più sentire nelle sale, dato che le tecnologie digitali consentono ovunque la proiezione da file, ma che è ampiamente abusato in tutte le sigle di festival, programmi televisivo, pubblicità che vogliano evocare l’aura del cinema con un semplice effetto sonoro. 

Dalla fine degli anni ’70, a completamento di un processo irreversibile, con l’avvento non regolamentato dell’emittenza privata – l’Italia, ancora una volta, è stata un laboratorio involontario della modernità e del declino della centralità della sala nello sfruttamento dei film. 

Il Belpaese ha perso definitivamente tutti questi primati ma il rapporto culturale e simbolico con il linguaggio del cinema è rimasto saldo nonostante un severo declino. Oggi i francesi, gli inglesi e i tedeschi vanno più spesso al cinema degli italiani. Un islandese va, in media, quasi quattro volte l’anno, un italiano meno di due. Eppure, a leggere il Box Office italiano di quest’anno, notiamo che tra i successi c’è la biografia di un leggendario leader della sinistra, Enrico Berlinguer (Il grande sogno, di Andrea Segre, che ha incassato 3,2 milioni), segretario di un partito politico che non esiste più, in un momento in cui la destra governa l’Italia con una solidità sconosciuta a tutti gli altri governi europei.

Ancora più sorprendente è che il maggior incasso italiano, Il ragazzo dai pantaloni rosa, di Margherita Ferri (8,5 milioni al Box Office), nasca dal bisogno di denuncia del bullismo e del cyberbullismo omofobo ispirata ad un fatto di cronaca. Tutto ciò sembra dar ragione a quegli studiosi secondo i quali il cinema italiano, nel dopoguerra, ha occupato anche il posto del pensiero critico di letteratura, teatro, giornalismo che non aveva avuto modo di svilupparsi dall’Unità d’Italia alla fine del fascismo. E’ come se gli italiani si aspettassero dal cinema qualcosa di più dell’intrattenimento, visto che è stato il cinema, con il neorealismo, a mostrargli la verità dopo i decenni di velleitaria e crudele finzione del fascismo. 

Un grande critico francese, Serge Daney, ha detto che solo due paesi sono riusciti a raccontare a se stessi la propria storia grazie al cinema: gli USA e l’Italia. Si tratta di un punto di vista troppo idealista e romantico? Giusto. Veniamo ai numeri e all’economia. Quanti erano i film prodotti in Italia al di sopra dei 10 milioni di budget nel 2018, in un periodo pre-pandemia? Due (Loro di Paolo Sorrentino, con un costo di 19,4 milioni ed Ella & John di Paolo Virzì, 14 milioni). Nella corrente stagione ne troviamo assai di più. Citiamo i più noti: Queer di Luca Guadagnino (52,6 milioni), Parthenope di Paolo Sorrentino (29,4 milioni), Napoli-New York di Gabriele Salvatores (18,5 milioni), L’abbaglio di Roberto Andò (18 milioni), Kung Fu all’amatriciana di Gabriele Mainetti (16,8 milioni), Maternità di Edoardo Ponti (13,3 milioni), La morte ci divide di David Chavez Grant e Abigail Ory (13 milioni), Fino alla fine di Gabriele Muccino (13 milioni). 

Le condizioni materiali, la propensione per modi di produzione multinazionali, le ambizioni a cercare pubblici non nazionali sembrano tratti più evidenti oggi di quanto lo fossero prima della pandemia anche se i livelli di revenues non sono stati ancora pienamente pareggiati. La quota di mercato mondiale del cinema italiano rimane irrilevante e marginale, ma non c’è bisogno di essere dei sovranisti per compiacersi del successo internazionale di un film come C’è ancora domani di Paola Cortellesi. Oltre ad essere un successo al botteghino strepitoso, su cui nessuno avrebbe giurato, è diventato il film italiano più visto in Francia negli ultimi dieci anni ed ha un palmares non italiano di segnalazioni e premi di più di 30 onorificenze. Cosa ne ha determinato il successo anche al di là dei confini nazionali, il bianco e nero neorealista, il mix di commedia e film in costume, o il suffragio universale al messaggio antipatriarcale che contiene? Non c’è bisogno di sapere l’italiano per condividerlo. Erano decenni che la gente non applaudiva in sala alla fine di un film, commossa da ciò che il film gli ha detto. Insomma, il chiaroscuro, anche violento, che una ricognizione a volo d’angelo emerge dal cinema italiano, non è certo una novità. 

E’ il cinema più finanziato dallo Stato insieme a quello francese, ma ciò lo rende così dipendente dalla politica che basta una cambio di governo per gettare nel panico i produttori (come è successo di recente con la revisione delle condizioni del tax credit operata dal governo di destra).  Ma ciò che sembra evidente, anche nel 2024, è la resilienza di una necessità del cinema più forte delle sue condizioni materiali. In una Europa sempre più in crisi, un film come Il tempo che ci vuole,  di Francesca Comencini, ci mostra una idea di Europa incantevole, con i protagonisti che si muovono tra Roma e Parigi, tra la passione del set che si respira sulla Senna e quella che il regista di Pinocchio, Luigi Comencini, ha incarnato dell’Italia contadina della sua serie televisiva ispirata al classico di Collodi. 

La salute di un cinema, in ogni caso, si vede anche dalla continuità con la quale fa emergere nuovi talenti, come Celeste della Porta, nuova stella nascente (protagonista di Parthenope di Sorrentino, autore di un film che ha fatto breccia nelle generazioni più giovani e autore di una delle campagne promozionali più intelligenti mai fatte in questo Paese) o Margherita Ferri (la regista di Il ragazzo dai pantaloni rosa), ma anche Elia Nuzzolo (l’attore protagonista di Hanno ucciso l’uomo ragno, serie di  grande successo su SKY). Tutti sono giovani talenti che provengono dalla scuola del Centro Sperimentale, la scuola di cinema più antica del mondo, che conferma la centralità del suo lavoro. E’ forse questo parametro anagrafico il segno più importante e interessante della stagione in chiusura.   

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