Questo ritratto di Pierpaolo Piccioli è stato pubblicato per la prima volta nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Corpo Libero. Il 22 marzo 2024 Valentino e Pierpaolo Piccioli hanno annunciato la fine della loro collaborazione. Il ritratto è firmato dall’ex direttrice di THR Roma Concita De Gregorio.
Pierpaolo Piccioli, accento sulla prima i, è direttore creativo di Maison Valentino cioè – per i canoni del tempo in cui viviamo – una delle persone più influenti al mondo, generatore di desideri universali e di redditi colossali: un ipnotista in grado di convincere gli uomini dell’intero globo a uscire la sera in calzini e pantaloni corti sui polpacci pelosi, le donne a vestirsi di rosa nella certezza che indossare il fino a ieri odiato “colore da femmina” sia un formidabile segno di liberazione, potere, rivolta. Regna da sovrano indiscusso in un mondo di inaudita ferocia competitiva, ferocia proporzionale al volume d’affari che genera, danzando dentro abiti neri due taglie più grandi della sua magrezza con il sorriso del bambino che quando si gioca a nascondino non lo trovi, corre più veloce non lo vedi arrivare e fa “liberatutti” sempre. Uno dei più stupefacenti numeri di magia di cui è capace, difatti, è parente stretto dell’invisibilità: imprevedibile, non è mai dove pensi, non somiglia a nessuno degli esseri umani per mestiere suoi simili.
Non dice mai ‘adoro’ né ‘divino’, parla inglese solo se necessario, correttamente ma malvolentieri, “mi stanca”: per dire rosso o stile dice rosso e stile. Non risponde al telefono con “cara”, “carissimo” e non racconta chi era usando solo il nome di battesimo del Presidente o del premio Oscar, anzi sovente non risponde al telefono, lo tiene silenzioso e rovesciato sul tavolo se sta parlando con te. Le sarte lo venerano, le abbraccia e canta con loro quando non ci sono i fotografi, non per esibirsi democratico ma perché ha voglia di stare con loro, usa i mezzi pubblici dopo aver fatto il biglietto alla macchinetta, è sposato da trent’anni con la stessa donna che guarda con l’adorazione di quando lei era la più bella della scuola e lui insomma, “lei era magnifica, come adesso, io ero quello strano”. Non finge disinteresse per il denaro, al contrario lo pretende: “Se fissano un prezzo per il tuo lavoro quella è la misura del tuo valore, da quel momento in avanti, e non puoi far finta di no anche se pensi di sì”.
Quando gli offrirono uno stage, a poco più di vent’anni, scegliendolo fra centinaia di studenti anziché dire grazie che onore cosa devo fare per voi chiese quanto mi date: vengo, ma voglio un milione. Erano lire, era il secolo scorso. Poi lavora anche gratuitamente, più spesso di quanto si possa immaginare, nei progetti che lo appassionano. Però non lo dice. Sa a memoria Il diavolo veste Prada (il suo cane si chiama Miranda, come il personaggio di Meryl Streep) cita Borges e Nietzsche senza nominarli, di Pasolini porta una frase tatuata sul braccio e ha decine di sue foto magnifiche, mai viste, nella sua stanza. Ha regalato come invito a una delle sue ultime sfilate Una vita come tante di Hanya Yanaghiara, idolo globale degli adolescenti e terrore dell’editoria mondiale, scrittrice dalla quale è impossibile avere una risposta anche per interposta persona a una supplica di intervista.
A lui ha detto sì. Se qualcun altro si appropria di una sua idea dice: “Si sa che non bisogna mai lasciare le idee sul tavolo, finisce sempre che qualcuno le mette in tasca e poi le usa”. Le idee sono come le parole, quando ne liberi una diventa di tutti. Pazienza.
Essere i migliori (e averne coscienza)
È contento quando i suoi amici – Sabato De Sarno, per esempio – vanno a lavorare in una casa di moda concorrente, “è bravissimo se lo merita, sono orgoglioso che sia cresciuto qui e che da qui l’abbiano scelto”, è un poco triste tuttavia di non poter più scendere da Nino a mangiare insieme a lui carciofi in pausa pranzo. Triste per la perdita di allegria condivisa. “Ma torneranno il tempo e anche l’allegria”, dice, “nulla si perde di quel che insieme si è costruito, tutto prima o dopo torna”. Li esorta anzi ad avere consapevolezza del proprio valore. “Avere talento senza esserne sicuri è uno spreco, ti rende vulnerabile. Non basta essere i migliori. Bisogna saperlo: è in questo spazio la differenza fra uno molto bravo e un fuoriclasse”.
Vive a Nettuno, e questo spiega tutto. Nettuno, dove è nato e cresciuto, è una località del litorale laziale meno celebre di Anzio, meno alla moda di Sperlonga. È un paese normale. Ci vuole un’ora e dieci di treno per arrivare e tornare da Roma, distanza che ha percorso per tutta la vita e continua a percorrere ogni giorno. Più spesso in auto, adesso, ma non è che questo accorci i tempi: la strada è una, congestionata e stretta. La sua famiglia vive lì, i suoi amici – gli stessi da quasi quarant’anni – entrano ed escono da casa ogni momento, sono i genitori dei migliori amici dei figli, organizzano grigliate, karaoke a Capodanno e fanno falò a Ferragosto, frequentano corsi di danza e passano insieme i giorni di festa e le domeniche.
Nessuno di loro ha mai incontrato Lady Gaga né Zendaya, ne sono felici. “C’è stato un momento, quando Simona ed io abbiamo smesso di legare i letti singoli col filo di ferro, un momento in cui le cose di lavoro hanno cominciato a girare e qualche guadagno ad arrivare, in cui mi hanno suggerito: togli Nettuno dalla tua biografia. Scrivi almeno Roma, mi hanno detto. Non era chic, Nettuno. Invece guardi che mare, che colori, che orizzonte. Le lezioni di surf con il maestro Genesio, appena posso. Non ci sono Caraibi con un forno a legna che faccia la pizza più buona di questa, per non parlare delle bombe alla crema. E le persone, naturalmente. Come farei senza l’ancora delle persone vere, quelle che non hanno nessun interesse a quello che fai perché sanno chi sei. Come faremmo, tutti”.
Black Tie, una collezione nata in casa
Sono trascorsi sei mesi durante i quali ho saputo – incidentalmente, spesso da mezze frasi discretamente dette ad altri – che se una star del cinema universalmente adorata, una potentissima influencer non lo ispira, allora non disegna per lei. Che gli unici a cui risponde al telefono sempre e all’istante sono i figli, quattro – una di cuore. Che Simona, nel periodo in cui lui aveva preso a fare tardi la sera, ha cambiato la serratura di casa.
Piccioli ha dormito fuori quella notte e non è successo più. Che la collezione Black Tie è nata dal fatto che Stella, la figlia più piccola, 16, un giorno ha preso dall’armadio del padre una giacca una camicia e una cravatta nera, li ha indossati e ha detto belli, che belli questi vestiti. Perché ti piacciono? Non so, sono una cosa nuova. “Allora capisci che devi cambiare prospettiva. È inutile cercare il nuovo in una storia dell’arte e del costume così grande, lunga, magnifica in cui tutto è già successo. Quello che è nuovo per loro è vecchio per me. Dunque è nuovo quel che non sai, non quel che non c’è mai stato prima. Nuovo per chi, questo è la domanda. Massimalismo, minimalismo… Poi ha visto cosa è successo? Una ragazza in jeans e camicia bianca ha aperto una mia sfilata di alta moda e quello, quei jeans e quella camicia, sono diventati il segno distintivo di una collezione che ha abiti favolosi, fatti di piume che ci sono voluti mesi per cucirle una a una, di tessuti e di pietre rare e preziose. Ma c’è differenza fra favola e sogno. Un vestito da favola, principesco, è magnifico e inaccessibile. Magnifico anche perché inaccessibile. Un sogno, invece, è di tutti. Non è il tempo delle fiabe, questo. È un tempo buio e duro, serve trovare l’ingresso dell’uscita: l’accesso, appunto. Serve dare corpo ai propri sogni”.
Ride del fatto che nei contratti degli altri marchi, quando ingaggiano un/a testimonial, c’è sempre scritto: nella vita privata puoi indossare tutto tranne Valentino. “È un buon segno, no?, essere ‘tranne’”.
Ho sentito raccontare, in questi mesi, che al primo colloquio con l’immenso Valentino Garavani si era presentato con un giubbotto di jeans, “non avevo pensato a cosa mettermi, ero concentrato su cosa avrei sentito da lui”. Che il panico della prima sfilata da direttore creativo della Maison (“come fai a disegnare una collezione di Valentino, dopo Valentino, sapendo che lui la giudicherà?”) si è risolto una sera a casa, a Nettuno, ripassando un compito di scuola di Benedetta, la primogenita. “Era un compito di filosofia, lei ripeteva ad alta voce un paragrafo su Nietzsche e all’improvviso, su ricordare dimenticare sapere e ricreare ho pensato: ecco, ecco cosa devo fare. Dimenticare di sapere. Così sono tornato a un quadro di Hieronymus Bosch che amo tanto, ho chiesto a un’amica inglese, un’artista punk, di scrivere i suoi tratti su quella trama. Da lì siamo andati avanti correndo, portando i segni antichi nel tempo nuovo, con allegria”.
Ho sentito che quando è tornato al lavoro, un giorno, dopo un incidente gravissimo indossando un collare ortopedico “le persone attorno a me erano smarrite, preoccupate, indebolite. Allora l’ho tolto, il collare. Perché se guidi un gruppo di lavoro devi essere saldo. Fragile, naturalmente, come tutti, ma consapevole che esibire la fragilità genera comprensione, condivisione, ma la compassione non restituisce energia. Puoi avere dubbi, devi. Sottoporli al dialogo, sempre. Ma alla fine devi prendere una decisione e farlo senza esitare. Devi guidare, non lasciarti condurre. Quando molti anni fa mi chiesero di allungare il manico di una borsa perché il mercato lo pretendeva, insistevano, non si poteva indossare sulle pellicce, dissero, dunque non l’avrebbero venduta, risposi no, direi di no. Meno pellicce e manici più corti. Quell’anno gli americani ne comprarono cinquecento anziché cinquemila. L’anno dopo però cinquantamila, e poi molte migliaia di migliaia. Ho imparato facendo”.
Una giocosa incredulità
Piccioli fuma, beve, mangia pietanze non dietetiche con gusto, perde continuamente le chiavi di casa e i treni, non trova le cose che servono quando gli servono e fa senza, fa lo stesso, “una volta avevo dimenticato il book, ero in hotel avevo il colloquio la mattina dopo, allora l’ho disegnato sulla carta dell’albergo con la cenere della sigaretta. Non era il massimo, anzi diciamo che era il minimo, ma ha funzionato”. È veloce, è sempre distratto e sempre concentrato al medesimo tempo, è stato con evidenza un ragazzo prodigio e ne porta permanente il segno, quella specie di giocosa incredulità rispetto alla facilità con cui le cose gli accadono, “se hai un dono devi soprattutto preservarlo. Capisci presto che il tuo compito è non lasciarlo andare nel commercio delle cose, delle voci. Alimentarlo, anzi, di silenzio”.
Hanno fatto il liceo scientifico, lui Simona e molti degli ancora oggi amici, perché il classico era privato e non c’erano soldi per pagarlo. Simona avrebbe voluto studiare danza, ma anche per questo non c’era abbastanza denaro dunque ha rinunciato, ha ricominciato adesso con le compagne di allora. Hanno entrambi l’assetto nel mondo di chi sa che le fortune arrivano e vanno, quando ci sono bisogna riconoscerle e rispettarle senza lasciarsi incantare. Miranda è stato l’unico cane a entrare in un museo a Doha, quando hanno fatto la mostra Valentino forever. “Non si poteva mica lasciare Miranda da sola, agli arabi con gentilezza glielo abbiamo spiegato”.
Dei mirabolanti racconti del mondo delle star, dei castelli di Francia che custodiscono le Tre Grazie di Raffaello, dei Met Gala dei tappeti rossi dei concerti, delle divinità pop che si inchinano al passaggio, it’s Valentino baby, la più divertente è la storia di un emiro, una storia che nel dettaglio non si può raccontare ma che fa sempre ridere tantissimo. La più affascinante quella di un set fotografico in Messico con la leggendaria assistente di Diane Arbus. “Che non metteva mai nessuno in posa, aspettava che la posa che lei aveva immaginato arrivasse da sola. Insieme alla luce giusta, al momento giusto. Ci volevano giorni, non succedeva niente. Poi all’improvviso, in un momento, la realtà diventava quella che lei aveva visto nell’immaginazione. Succedeva. Ecco. Lo spazio fra la realtà e l’immaginazione è il luogo dell’artista. Bisogna riconoscerlo, abitarlo, ciascuno ha il suo: è in quello spazio che si definisce la propria identità”.
Ha sempre un libro con sé, nella borsa di tela che porta in spalla. Quasi sempre un romanzo. In questi giorni è un racconto indiano. Fa fotografie col cellulare senza che nessuno se ne accorga, sono spesso molto belle. I mobili della sua casa li ha cercati dai robivecchi, piccole botteghe, luoghi dove le piastrelle venivano buttate, i divani magnifici abbandonati. Li ha fatti restaurare con lentezza. E’ capace di grande fermezza, anche di durezza, nel lavoro. È in grado di affrontare a brutto muso una persona in divisa, se gli pare che commetta prepotenza, ma non è capace di dire scusa ora non posso a Stella, se lei gli chiede papà vieni subito a prendermi. Porta al collo angeli di corallo, ali di angeli.
Ha una tigre tatuata su una gamba, non è finita: “Dovevo tornare ma mi ero stancato, mi piace anche così”. Ha una S di Simona tatuata sul cuore. Non l’ho mai sentito in questi mesi alzare la voce. Può darsi che lo faccia ma non ho le prove. Parla a voce bassa anche quando si infuria. Se gli chiedi di spiegarti la teoria del “terzo colore”, quello che dà profondità agli altri due, dice non lo so dire con le parole: lo vedo, il terzo colore, non c’è una regola. Ride quasi sempre, anche se non ci sono i fotografi. Soprattutto quando non ci sono.
Restare integri
In conclusione, due parole sull’inizio. La prima volta che ho incontrato Pier Paolo Piccioli mi ha chiesto se volessi un caffè, ho detto sì grazie senza zucchero e ho pensato che fosse il ragazzo del caffè. Il fatto notevole non è che io non lo avessi riconosciuto, cioè che mi fossi recata nella magnificente sede al piano nobile di palazzo Mignanelli sovrastata dalla V senza nemmeno aver cercato su Google una sua fotografia. Questo sarebbe potuto succedere anche a lui – ne ho avuto certezza nel tempo – con l’emiro del Qatar, con il sovrano del Bhutan, con una star hip-hop o un premio Nobel.
Non è tracotanza, al contrario: è un assetto difensivo. Tiene al riparo dalla soggezione, è un modo istintivo per restare integri e in piedi nel tumulto di trame di potere del mondo. La cosa davvero interessante è che lui si sia comportato davvero come il ragazzo del caffè. È rimasto in disparte e in silenzio mentre rispondevo a certe mail dal telefono, poi è tornato a chiedere se volessi anche dell’acqua, ho detto volentieri grazie ma non fredda, questa seconda volta ho pensato che era un ragazzo del caffè molto elegante: da Valentino saranno eleganti tutti per statuto, devo essermi detta, e ho continuato a lavorare. È trascorsa così almeno mezz’ora. Poi sono arrivati altri, lo hanno omaggiato come un principe, gli hanno chiesto timidamente un selfie gridando wow a ogni scatto. A fine giornata ho detto mi scusi, non l’avevo riconosciuta. Lui ha sorriso e ha risposto si figuri: è stato bello, anzi.
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