Ci vogliono una giornata di smalto e un castello di pietra, per uno spettacolo così. Una strada che corre per settanta chilometri da Parigi in mezzo a campi biondi fino a Chantilly, ultima residenza del figlio dell’ultimo re di Francia, una collezione di Michelangelo Raffaello Leonardo Botticelli e Perugino da sindrome di Stendhal, seconda solo al Louvre, le Tre Grazie, tela minuscola e immensa, in una sala in ragion loro chiamata Il Santuario. Servono mille persone al lavoro che stirano sotto a un Carracci, cuciono gli ultimi ritocchi sono un altro Raffaello, questo è la Madonna di Loreto, modulano l’impianto audio da cui arriverà la musica di Anhoni, artista transgender dalla voce di cristallo e velluto.
C’è bisogno di pedane dove centinaia di ragazzi, coloro che tra indosseranno gli abiti, dormono su pedane di legno avvolti in un pile, mangiano, ridono, fanno una videochiamata alla madre in Africa, guarda dove sono mamma, e piangono. Sono uomini, donne, sono esseri umani in transito fra generi e identità. Hanno diciannove o cinquant’anni, non importa: parlano ogni lingua, sfileranno tutti insieme – debuttanti, veterani – con abiti che si scambieranno. “Da uomo” o “da donna” non ha più alcun senso dire, di una collezione, e mai è stato più chiaro di così, davanti a questa umanità in cammino verso il tempo che sta per venire, è venuto già.
Sì, è anche una sfilata di moda. E’ la “Valentino Haute Couture” di Pier Paolo Piccioli, il direttore creativo che si ferma con ciascuno, mormora qualcosa all’orecchio di una sarta, consola la ragazza che sente la mancanza della madre, torna alle Grazie, un’altra volta ancora, l’ultima volta e sorride al suo amico e collega Yvan: “Vedi, non c’è un nome per il colore di questa pelle”.
Ma soprattutto, prima di tutto, è un racconto. Una storia. Una favola che dice in che modo il tempo e il mondo da cui veniamo è qui nel nostro tempo, cosa lega quelle madonne quattrocentesche alle ragazze di vent’anni sdraiate al sole là fuori e a noi, a tutti quanti: una storia che parla della storia universale e perenne di chi fugge, si ribella ai padri pur conservandone traccia, segue il desiderio di ciascuno, la libertà.
Difatti si apre così, la sfilata. Con una ragazza in jeans e maglietta bianca: è la prima a scendere in giardino dalle scale del castello perché tutto racconto avviene fuori, all’aperto, non dentro. Il castello chiude, imprigiona: bisogna uscire, è da fuori che si parte per andare. Quindi eccola questa ragazza, la figlia ribelle dell’ultimo erede del Re, esce di notte di nascosto, forse per andare a incontrare qualcuno che non deve ma può, invece. E quando torna, tre modelli dopo, è un’altra: ai suoi jeans sono rimaste impigliate le foglie e i rami del bosco, o forse erano quelli degli arazzi che ora luccicano sui suoi pantaloni. Una fuga, un ritorno.
In mezzo sono passate due figure in bianco (è il bianco, il colore che domina): due fantasmi del castello, quanti fantasmi di quanti castelli hanno abitato le nostre fiabe, le pagine delle nostre letterature. Queste due figure indossano un velluto che sembra non essere sostenuto da niente, una slavina di neve, un vento. E dunque, tutto il resto arriva. Le madonne della pinacoteca si sono trasformate in giovani col capo velato da manti rossi e argento, veli che sembrano coperte e che volano, però: riscaldano ma non bastano, come i teli d’argento che coprono i profughi appena sbarcati dalle traversate dei mari. In fuga, anche loro. ragazze in fiamme, come le giovani delle rivoluzioni che chiedono vita e libertà. donna vita libertà. nel bianco dei mantelli si incidono i segni dei quadri del castello, in rosso, ma diventano astratti: sono il disegno di un bambino, la memoria di un racconto ascoltato molto tempo fa prima di andare a dormire.
La semplicità è complessità risolta, c’è scritto in pannello. Piccioli racconta che questo desidera: mostrare il lavoro che serve a tornare bambini, ritrovare l’origine di un gesto, la sua ragione. Perciò fermare la luce, fermare un refolo di vento in un drappeggio, sfidare la gravità con un abito fatto solo di un nodo, o di ali che volano, o di migliaia di paillettes che si illuminano di arancio come l’alba, certe volte, migliaia di piume cucite su centosessanta metri di seta che fanno il verso a un tramonto.
Sì, certo. E’ anche una sfilata di moda. Ma è cosa ciascuno è capace di leggerci dentro e questo – cosa – dipende da chi siamo, dalla vita che abbiamo, da quale ferita ci nascondiamo. Magari non parla di profughi e di fughe, questo spettacolo, di rivoluzioni e di ragazze in fiamme. Magari, per un altro sguardo, per un’altra idea di mondo, dice di bellezza di fragilità, di quanto sia prezioso quel che subito finisce e che già da prima di arrivare ci manca.
Di certo è anche così: è anche questo. La bellezza nasce dalle ferite, sempre. Ciascuno porta la sua. Una rosa come copricapo, il volto al centro della rosa: anche questo fiore sfiorirà. Ma ci sono storie che non hanno orologio. Storie che continuano a parlare da secoli – Le Grazie nude con la mela in mano, il desiderio, i bambini che piangono in braccio alle madonne, la vita – e sempre, dopo di noi, continueranno a parlare. Oggi hanno la forma di questi abiti, le mani delle sarte che li hanno cuciti, la voce di qualcuno che canta mentre tutto questo accade: è una persona, chi canta. Non importa dire altro, francamente, mai, di nessuno. Una persona.
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