LUCCA – Ha fatto film molto concreti, realistici, ma nei quali spesso aleggia il mondo che – forse – sta al di là di noi. Ha inventato, come attori protagonisti, persone che facevano altri mestieri, il cantante pop o la soprano lirica. Ha reinventato in ruoli drammatici attori comici. Ha fatto un cinema sempre difficile da incasellare. Ha fatto film in America, ma che hanno sapore di terra. “Perché l’America – dice – al di fuori delle grandi metropoli, somiglia molto all’Emilia”.
Fra la via Emilia e il Midwest, Pupi Avati ha disegnato il suo cinema color nostalgia. Storie di solitudini, di ossessioni, di amori sognati, vissuti per un attimo, spariti. O thriller dell’anima, arcani e misteriosi, come il recente L’orto americano, presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia.
Domenica sera alle 21, al Cinema Astra in Piazza del Giglio a Lucca, Pupi Avati riceve il premio alla carriera del Lucca Film Festival. Un premio che si aggiunge ai due David di Donatello e ai sette Nastri d’argento vinti, in una carriera lunga cinquantasei anni e più di quaranta film. Una carriera iniziata dopo che un’altra si era interrotta.
“Suonavo il clarinetto, sognavo di diventare un grande musicista jazz. Erano gli anni ’60: poi nella nostra band entrò un ragazzo piccolo, strano, si chiamava Lucio Dalla. Era un genio. Presto mi ha oscurato, tacitato, messo all’angolo. A un certo punto ho anche pensato di ucciderlo”, dice il regista, scherzando. Ma forse neanche poi troppo.
Seguono quattro anni passati a vendere surgelati: “gli anni peggiori della mia vita”. Ma non resiste, non riesce a fare l’impiegato. E un giorno, folgorato dalla visione di “8 ½” di Federico Fellini, tenta la strada del cinema. Era il 1968.
Oggi Avati ha 85 anni, e la stessa voglia di inventare e di raccontarsi.
Pupi Avati, quando si parla di registi italiani che hanno lavorato negli Stati Uniti quasi non si pensa a lei, che invece ha girato numerosi film in America, compreso l’ultimo.
“E’ vero. Film come Fratelli e sorelle, come Bix, girato a Davenport, così come Il nascondiglio,o L’orto americano. Ma non ci si pensa perché io ho sempre girato film nell’America ‘agricola’, in quella che è la pancia vera dell’America: in Iowa. Lì dove le malattie più diffuse non sono il tumore o l’infarto, ma le malattie mentali. Mentre giravamo L’orto americano, siamo entrati in una casa. Da fuori, sembrava la casa di Minnie e Topolino, pulita, carina”.
E dentro?
“Era la cosa più vicina all’inferno che abbia mai visto. C’era un fetore, oggetti e cibi sedimentati, un marasma: non riuscivi a distinguere una scarpa da una bambola, da una pentola. Lì vivevano un padre e un figlio, in una grotta degli orrori. Ecco, io racconto anche quell’America lì”.
Torniamo in Italia. Come vede oggi il cinema italiano?
“Mi sembra ci sia un disamore assoluto ed esplicito del pubblico verso le nostre proposte. C’è uno spartiacque, che vedremo fra poco: l’uscita del film di Paolo Sorrentino, così atteso”.
Beh, l’anno scorso “C’è ancora domani” ha riallacciato il rapporto fra film italiani e pubblico.
“Appunto. Il film della Cortellesi ha trascinato l’entusiasmo degli esercenti. Ma se quest’anno Parthenope, il film di Sorrentino, non dovesse creare quel tipo di risposta, il problema tornerebbe in tutta la sua evidenza”.
Qual è il problema del cinema italiano, secondo lei?
“I costi. I costi dei film. Si fanno film troppo cari, con budget sconsiderati che si fondavano su un tax credit generosissimo. Le condizioni italiane sono, nel novanta per cento dei casi, quelle del basso costo. Sì, c’è stato Il Gattopardo, ed era un capolavoro. Ma quasi tutti gli altri grandi film italiani, quelli che hanno fatto la storia del nostro cinema, erano prodotti a basso costo”.
Lei ha sempre fatto film a basso budget?
“No. Mi ci metto anch’io, fra quelli che hanno commesso errori. Anche nella mia filmografia ho fatto film costosi, come I cavalieri che fecero l’impresa, che andò malissimo ed è stata una delle più grosse delusioni della mia vita. Ma ho fatto molti film da poche lire, e sono quelli che mi hanno dato le più grandi soddisfazioni: Regalo di Natale, Una gita scolastica, La casa dalle finestre che ridono”.
Ma è solo un problema di costi?
“No. Ma è un primo passo. E poi il basso costo è eccitante, perché ti lascia libero, libero dagli obblighi con chi ha investito tanto. E poi ci sono le storie da raccontare. Torniamo a raccontare storie. Se rivalutiamo i generi, se comprendiamo che il pubblico ha voglia di essere spaventato, o di ridere, o di commuoversi, e torniamo alla nostra identità di narratori di storie, forse il cinema italiano può ricominciare dal suo anno zero. E infine, è un problema di entusiasmi”.
In che senso?
“Dovremmo tornare ad apprezzare il fatto di fare un film, che è una cosa meravigliosa, senza lamentarci per il cachet troppo basso. Fare il regista è una possibilità meravigliosa. Zurlini impegnava la sua argenteria, pur di fare i suoi film”.
Come guarda, oggi, alla sua carriera?
“Ho vissuto grandi gioie, come a Venezia, dopo la proiezione di Una gita scolastica, quando ho sentito quell’applauso pazzesco. Ma ho vissuto anche dei grandi dolori. Ho patito un senso di emarginazione, per alcuni anni, nei quali sono stato lontano da tutto, dopo alcuni film andati male. I cavalieri che fecero l’impresa è uno di questi film. Ma se ho continuato a fare cinema per quasi sessant’anni, se non riesco a smettere, è perché è una dipendenza, come da una droga. E adesso lo so, con chiarezza: voglio morire sul set”.
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