La mostra “Il Tempo del Futurismo”, ospitata presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, è un’impresa ambiziosa che si pone a metà strada tra celebrazione e sfida intellettuale. Curata da Gabriele Simongini e promossa dal Ministero della Cultura, non solo commemora l’ottantesimo anniversario della scomparsa di Filippo Tommaso Marinetti, ma tenta di restituire, con uno slancio che oserei definire quasi futurista, l’irriverente vitalità di un movimento che non ha mai accettato di essere incasellato in una teca museale. È una mostra che, paradossalmente, si espone al rischio di ordinare il caos, quel caos così caro ai futuristi stessi.
Qui si parla di ordine. Non un ordine austero e monastico, ma uno studiato candore: pareti bianche e un percorso obbligato che, con rigore quasi cartesiano, cerca di guidare il visitatore attraverso 26 sale e oltre 400 opere. Una neutralità visiva, forse, un po’ troppo disciplinata per un movimento che voleva distruggere ogni sintassi, incluse quelle curatoriali. Tuttavia, questa apparente contraddizione finisce per funzionare: l’esuberanza delle opere di Boccioni, Balla e Severini vibra comunque, quasi ribelle, contro la quiete delle pareti. Si potrebbe dire che il Futurismo sfugge al tentativo di contenimento, e il visitatore, travolto dalla densità visiva e concettuale, non può che lasciarsi sopraffare. Un’esperienza esaltante? Certo. Stancante? Forse anche, ma non è questo il punto?
Il cuore della mostra batte nell’esplorare il rapporto tra arte e tecnologia, un tema oggi di straordinaria attualità. In un mondo trasformato dall’intelligenza artificiale, i futuristi sembrano più che mai profetici: la loro ossessione per la velocità, la meccanica, e persino la macchinizzazione dell’umano risuona con una modernità inquietante. Oggetti come l’idrovolante Macchi Castoldi MC 72, la Fiat Record Chiribiri e le motociclette esposte non sono solo reliquie tecnologiche, ma veri e propri totem di un’estetica che vedeva nella macchina il simbolo supremo di un’epoca in trasformazione. In questo contesto, le opere pittoriche e scultoree dialogano con gli oggetti tecnologici per costruire una narrazione che è al tempo stesso storica e futuribile.
Non si può poi non menzionare il cinema futurista, un argomento che, sebbene non esplicitamente rappresentato nella mostra, si intreccia perfettamente con il discorso interdisciplinare che questa esposizione propone. Nato ufficialmente nel 1916 con il Manifesto della Cinematografia Futurista, il cinema futurista fu il primo movimento europeo a concepire la settima arte come un linguaggio indipendente, libero dai vincoli della narrativa tradizionale e pronto a esprimere il dinamismo e la simultaneità della modernità.
I futuristi, con la loro caratteristica audacia intellettuale, vedevano nel cinema un’arte intrinsecamente moderna, priva del peso di un passato da cui emanciparsi. Come dichiarato nel Manifesto firmato da Marinetti, Corra, Ginna, Balla, Chiti e Settimelli, il cinema era destinato a diventare uno spettacolo “antigrazioso, deformatore, sintetico, dinamico, parolibero”. Non apprezzavano il cinema narrativo, considerato troppo “passatissimo”, e sognavano invece una settima arte che celebrasse il movimento, la velocità e il frammento.
I primi esperimenti cinematografici dei futuristi, tra cui le cinepitture dei fratelli Corradini (Ginna e Corra) e Vita futurista di Marinetti e Arnaldo Ginna, sono purtroppo andati perduti. Tuttavia, il cinema futurista ha lasciato un segno indelebile grazie a opere come Thaïs di Anton Giulio Bragaglia. Questo film del 1917, restaurato di recente in collaborazione tra la Cineteca Nazionale e la Cinémathèque Française, rappresenta un’interpretazione visiva del pensiero futurista. Le scenografie di Enrico Prampolini, con le loro geometrie ipnotiche e contrasti chiaroscurali, creano un mondo che sembra sospeso tra sogno e incubo, un’estetica che anticipa le sperimentazioni del surrealismo.
Pur nella sua frammentarietà, Thaïs testimonia l’ambizione dei futuristi di trasformare il cinema in un laboratorio di sperimentazione estetica e simbolica. La pellicola racconta la vicenda di una contessa seduttrice, intrecciando temi decadenti e onirici con un’estetica astratta che rimanda alla simultaneità futurista. È un’opera che non solo incarna lo spirito del movimento, ma anticipa anche molte delle innovazioni delle avanguardie successive.
Il cinema futurista, benché limitato nella sua produzione, ha esercitato un’influenza culturale immensa. Secondo alcuni critici film come Il gabinetto del dottor Caligari (1919) e Metropolis (1927) devono molto alle intuizioni dei futuristi, così come alcune delle visioni oniriche di Alfred Hitchcock, che riprendono l’idea di un montaggio frammentato e visionario. Persino nel cinema commerciale degli anni Trenta, come nel film italiano Gli uomini, che mascalzoni…, è possibile rintracciare l’eco di quelle sperimentazioni ardite che i futuristi avevano intrapreso.
Alla fine, “Il Tempo del Futurismo” riesce a catturare questa tensione tra tradizione e innovazione, ordine e caos. Il visitatore esce dalla mostra stimolato e forse anche un po’ sopraffatto, ma inevitabilmente affascinato.
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