Bob Dylan non ha visto “A Complete Unknown”, il film che parla di lui

E probabilmente non lo vedrà mai, dice il regista James Mangold

I film biografici, per loro stessa natura, mirano a svelare, a rivelare, a rendere trasparente la vita del soggetto.In altre parole, tutto ciò che Bob Dylan non fatto vedere nei suoi oltre 60 anni sotto i riflettori. Il lavoro di James Mangold in A Complete Unknown – che racconta i primi anni di Dylan prima del suo sconvolgente passaggio all’elettrico al Newport Folk Festival del 1965 – per questo motivo è stato davvero complicato. Il film con Timothée Chalamet uscirà nel giorno di Natale. 

Dylan dice in un suo tweet recente “Timmy è un attore brillante, quindi sono sicuro che sarà assolutamente credibile nei miei panni. O nei panni di un me più giovane. O di qualche altro me”.THR ha incontrato Mangold, che ha scritto la sceneggiatura con Jay Cocks, per parlare dell’enigmatico musicista.

Cominciamo con il tweet. Immagino sia stata una sorpresa?

Sì. Nessuno mi aveva avvertito che  “Dylan stesse per twittare!”. È stato emozionante, divertente, caloroso e affascinante, proprio come Bob. Anche il suo modo di affacciarsi al mondo di Twitter è molto divertente e ti fa ridere.

E molto diretto – ha concluso il post con “Dopo aver visto il film, leggete il libro” [Dylan Goes Electric! di Elijah Wald, su cui è basato il film].

Bob  ” va dritto al punto”. Mi piace perché anch’io così. Sii diretto e non indorare la pillola.

Eppure c’è anche la sua ambiguità e la sua inafferrabilità, a cui allude anche lui nel tweet. La domanda che ci frulla spesso in testa ogni volta che vediamo Dylan rappresentato: “È davvero lui? Cos’è lui e cos’è la performance?”

Il film è un’interpretazione. Non può essere altro che un’interpretazione. Ma anche i filmati dei documentari sono solo una versione di lui perché è totalmente consapevole che lo stanno riprendendo. Quindi è lui l’attore in quelle situazioni, che si esibisce per l’obiettivo.

Questo rende il tuo lavoro davvero difficile. Come si fa a realizzare un film su qualcuno così desideroso di rimanere irraggiungibile ? come hai gestito l’equilibrio quando una biografia ha la funzione di rivelare?

È un problema molto interessante, ma è stato anche una difficoltà che si è risolta incontrandolo. Dylan non mi sembra opaco. Penso solo che vogliamo più di quanto lui possa dare, quindi gli abbiamo assegnato questa identità opaca o enigmatica. E Bob è abbastanza determinato e incantatore come lo era P.T. Barnum (noto imprenditore circense) per dire: “Mi sta bene”.

In realtà ha condiviso un sacco di cose con noi. Se si pensa alle canzoni come parte del testo del film, Bob è una specie di terzo sceneggiatore, o forse il primo. Abbiamo 26 suoi monologhi. Nessuno nega che le canzoni siano personali, eppure pensiamo ancora che possa essere sibillino.

Forse perché le canzoni sono poco trasparenti.

Possono esserlo, ma è questo che rende grande l’arte. Penso che lui stia dicendo: “Dopo l’uscita dell’album, quello è il mio regalo e lì finisce”. Non fa video che lo mostrano mentre compra il gelato al supermercato. Non dobbiamo capire come si relazionano alla sua personalità in modo convenzionale, freudiano. Mi identifico profondamente con l’esitazione di un artista a scendere nella tana del bianconiglio perché la sete non finisce mai.

Parliamo della grande reinvenzione: sfida il suo mentore, l’artista folk Pete Seeger, passando dalla chitarra acustica a quella elettrica durante il festival. Questo momento evidenzia una delle domande centrali del film: quando un artista sta davvero ampliando in modo straordinario la propria essenza e quando, invece, sta semplicemente cedendo alla propria vanità?

Noi la vediamo come una reinvenzione, eppure non credo che lui abbia mai pensato a questo in termini di carriera. È arrivato a New York amando Buddy Holly, Little Richard e Johnny Cash, e nessuno di loro è un artista folk solista.

Non sono sicuro che il suo desiderio di avere una band fosse legato all’eredità e alla reinvenzione, quanto piuttosto a quello che mi ha detto essere la sua sensazione di solitudine. Un artista folk è spesso solitario quando è sul palco con una chitarra. Quindi immagino che più lui avesse successo e più per lui una band fosse accogliente. Si creava cameratismo. Non era un rapporto occasionale, come lo erano diventati molti rapporti nella sua vita. Creavano solamente musica assieme.

Stai dicendo che sottovalutiamo i fattori personali qui.

Sì. Penso a Newport 1965 come a un pranzo di Natale andato a rotoli. In fondo era una lite familiare: un figliol prodigo che si allontana da un padre controllante e da una serie di limiti con cui non può più vivere. Una convulsione emotiva, non una rivoluzione culturale.

Inoltre, anche adesso, non sono sicuro che Bob sappia perché.

Davvero?

Non lo sa. Dice: “Ancora non lo capisco bene”.

Cosa pensa di come hai rappresentato le ragioni nel film?

Non ha visto il film. È ma è il benvenuto. Tutto quello che deve fare è chiamare. Ma [il manager di Dylan] Jeff Rosen dice che non pensa che abbia mai guardato nessuno dei documentari su di lui. Anche questo è un indizio, no? Possiamo pensare ad una sorta di autoprotezione, una protezione della propria psiche che penso abbia praticato zelantemente per anni.

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