
Dopo il gesto alla Hitler di Elon Musk durante l’insediamento di Donald Trump — un saluto che ha scatenato indignazione e riacceso il dibattito culturale sulla pericolosa riemersione del fascismo — non c’è momento migliore per riscoprire il cinema che ha saputo analizzare più a fondo l’autoritarsmo, la resistenza e il costo umano della tirannia. Questa lista raccoglie film da tutto il mondo, attraversando decenni e generi, per ricordarci il pericolo del potere incontrollato.
Se capolavori come Schindler’s List e Il figlio di Saul affrontano in modo devastante l’Olocausto — l’espressione più orribile delle conseguenze del pensiero fascista — e film di guerra come Quella sporca dozzina e Defiance raccontano la resistenza militare, abbiamo scelto di lasciarli fuori per concentrarci sui film che esplorano l’ideologia stessa del fascismo: i sistemi, le credenze e l’impatto sociale che permettono ai regimi autoritari di emergere e prosperare.
Da Il grande dittatore di Chaplin alla brutale provocazione di Salò di Pasolini, dall’apartheid alieno di District 9 e dal militarismo satirico di Starship Troopers fino alla commedia assurda di Jojo Rabbit, questi film non sono solo racconti di resistenza: sono esami coraggiosi del potere e dei suoi effetti corrosivi sulla società. Un viaggio per ricordare, riflettere e resistere.
American History X (1998)

Edward Norton in ‘American History X’. New Line Cinema/Per gentile concessione di Everett Collection
Se Derek Vinyard — il furioso e violento neonazista interpretato da Edward Norton nel film di Tony Kaye sulla supremazia bianca — fosse qui oggi, sarebbe un Proud Boy appena graziato da Trump per i fatti del 6 gennaio. Nel film, viene condannato per omicidio dopo aver giustiziato brutalmente un uomo afroamericano che tentava di rubargli l’auto. La sua improbabile redenzione avviene in carcere grazie a un compagno di cella nero, interpretato con carisma e saggezza da Guy Torry. American History X non è un film sottile: la sua estetica si sofferma sulla violenza tanto quanto la condanna. Ma nelle scene che mostrano Derek e i suoi compagni skinhead mentre trovano un senso di appartenenza tra loro — perdenti insicuri in cerca di qualcosa di più grande di loro stessi — il film assume una risonanza inquietante e attuale.
L’armata degli eroi (1969)

‘Army of Shadows’. Kinowelt GmbH / Everett Collection
Jean-Pierre Melville, ex combattente della Resistenza, ricrea l’invasione tedesca di Parigi con una sequenza iniziale indimenticabile: soldati nazisti marciano attraverso l’Arco di Trionfo. Quello che segue è forse il miglior film mai realizzato sulla vita sotto il fascismo. Melville ritrae il coraggio e l’eroismo della Resistenza francese — i personaggi, tratti dal romanzo di Joseph Kessel, si basano su figure reali — ma senza idealizzarli: i loro metodi ricordano quelli della criminalità organizzata. In una scena, tre membri della Resistenza strangolano un traditore con un asciugamano (un colpo di pistola attirerebbe troppa attenzione), e Melville prolunga il momento in modo straziante, mostrando il vero prezzo del sacrificio e della guerra.
Cabaret (1972)

Liza Minnelli in 1972’s ‘Cabaret’. Courtesy Everett Collection
I parallelismi tra l’ascesa del fascismo nella Berlino degli anni ’30 e la realtà dell’America di oggi rendono Cabaret un film scomodo da rivedere. Il classico di Bob Fosse, vincitore di otto Oscar, mostra come cinismo, ironia e compiacenza possano favorire razzismo ed estremismo. “Pensi ancora di poterli controllare?”, chiede il professor Brian Roberts (Michael York) all’aristocratico barone von Heune (Helmut Griem), il quale, con la stessa spavalderia di certi politici di oggi, inizialmente liquida i nazisti come “una banda di hooligan stupidi”. Liza Minnelli, nel ruolo della performer Sally Bowles, incarna il rifiuto della realtà, cantando e ballando mentre Roma brucia. “L’elezione democratica di una figura autoritaria, la normalizzazione del bigottismo, la complicità delle masse spaventate… Questo spettacolo lo abbiamo già visto”, ha scritto Joel Grey, il Maestro di Cerimonie del film, sul New York Times. “La storia ci sta dando un’altra occasione per affrontare le forze che Cabaret ci aveva avvertito di temere. La domanda è: questa volta ascolteremo, o continueremo a ridere finché la musica non si fermerà?”
Casablanca (1942)

CASABLANCA, da sinistra, Humphrey Bogart, Ingrid Bergman, 1942. Per gentile concessione della Everett Collection
Il classico romantico di Michael Curtiz fu concepito come propaganda antifascista. Ambientato nel 1941, quando gli Stati Uniti erano ancora neutrali nella Seconda Guerra Mondiale, ma uscito nel novembre 1942, quando le truppe americane erano impegnate nella liberazione del Nord Africa, Casablanca è una storia di trasformazione: Rick Blaine (Humphrey Bogart, iconico come mai) passa da cinico isolazionista a combattente per la resistenza. Bogart incarna l’America che vuole restare fuori dal conflitto (“Non metto il mio collo in gioco per nessuno”), ma che alla fine deve compiere una scelta morale. Quando il destino dell’umanità è in bilico, i desideri personali — come il suo amore per Ilsa (Ingrid Bergman, radiosa) — “non valgono una collina di fagioli in questo pazzo mondo”.
Va’ e Vedi (1985)

Aleksey Kravchenko in ‘Come and See’. Janus Films/Courtesy Everett Collection
Se c’è un film che Musk — o chiunque trovi divertenti battute su Hitler o saluti nazisti — dovrebbe assolutamente guardare, è questo. Dimenticate le rappresentazioni camp e pop del fascismo, dimenticate le sottili allegorie. Il capolavoro del regista sovietico Elem Klimov sugli orrori nazisti in Bielorussia è diretto e senza compromessi, non offre tregua né conforto. Seguiamo un adolescente bielorusso che si unisce ai partigiani sognando eroismo e avventura, ma trova solo devastazione e orrore. Basato in parte sulle testimonianze di sopravvissuti, il film ci mostra la realtà attraverso gli occhi traumatizzati del protagonista. È quasi insopportabile. Ma nessun altro film racconta in modo così completo la bancarotta morale dell’espansionismo fascista.
Despair (1978)

Dirk Bogarde, Andrea Ferreol in ‘Despair’ New Line Cinema/Courtesy Everett Collection
L’impatto quotidiano del fascismo è un tema che Rainer Werner Fassbinder ha esplorato più volte nella sua vasta filmografia, da Lili Marleen, con la sua cantante divisa tra un amante ebreo e una carriera finanziata dai nazisti, a Berlin Alexanderplatz, dove un criminale cerca di redimersi in una società che si sta dirigendo verso il male, fino a Il matrimonio di Maria Braun, con protagoniste donne che prosperano nel miracolo economico tedesco post-bellico, senza mai riuscire a scrollarsi di dosso i fantasmi del passato. Despair, suo primo film in inglese, è quasi dimenticato, eppure è un’opera sorprendente: un adattamento del romanzo di Vladimir Nabokov, scritto da Tom Stoppard e interpretato da Dirk Bogarde nei panni di un emigrato ebreo russo nella Germania degli anni ’30. L’ascesa del nazismo lo conduce a un crollo mentale e a un piano assurdo per incassare un’assicurazione sulla vita: uccidere uno sconosciuto che crede (sbagliando) di essere il suo sosia perfetto. Un noir dai risvolti macabri che suggerisce come, a volte, la follia sia l’unica risposta sensata a un mondo impazzito.
District 9 (2009)

Sharlto Copley in ‘District 9’. Pictures/Everett Collection
Esordendo nel 2009 con il supporto di Peter Jackson, Neill Blomkamp ha saputo mescolare il genere fantascientifico con il mockumentary satirico, ribaltando gli schemi del classico film d’invasione aliena. Il regista sudafricano non si chiede cosa gli alieni potrebbero fare a noi, ma quali orrori infliggeremmo loro se avessero la sfortuna di atterrare su un pianeta tribale e intriso di sangue come il nostro. La trama ruota attorno a un’operazione militare per trasferire un campo profughi alieno, visto dagli umani solo come un peso disgustoso e indesiderato sulle risorse — un chiaro riferimento alla rimozione forzata dei residenti non bianchi dal Distretto Sei di Città del Capo durante l’apartheid, ma un racconto che risuona ancora oggi con la realtà dei migranti e degli sfollati in un presente sempre più disumano.
El Conde (2023)

Jaime Vadell in ‘El Conde.’ Netflix
Augusto Pinochet, dittatore del Cile dal 1973 al 1990 e responsabile di innumerevoli violazioni dei diritti umani, è stato un’ombra inquietante nei primi film di Pablo Larraín (Tony Manero, Post Mortem, No). Con El Conde, il regista cileno lo porta finalmente al centro della scena. In quello che il critico capo di THR ha definito “un salto audace nell’irriverenza”, Larraín reimmagina Pinochet come un vampiro di 250 anni che ha inscenato la propria morte e continua a perseguitare la storia. Una satira politica alla Il Dottor Stranamore impreziosita dalla fotografia mozzafiato in bianco e nero di Ed Lachman. Interrogato da THR sulla possibile risonanza con la politica statunitense e su un certo despota dai toni arancioni, Larraín ha scherzato: “Beh, se Trump è un vampiro, la buona notizia per me è che è il vostro vampiro, non il mio. Noi stiamo già affrontando il nostro.”
L’Impero Colpisce Ancora (1980)

Darth Vader in ‘The Empire Strikes Back’. Courtesy of Everett Collection
Tutto è già nel geniale tema di John Williams per Darth Vader, The Imperial March. Ecco il prototipo del fascista: una figura mascherata, meccanizzata, simbolo stesso della disumanizzazione del potere autoritario. Il suo rapporto con Luke Skywalker è un’allegoria perfetta della lotta tra controllo sistemico e libero arbitrio. Se Guerre Stellari introduce la Ribellione e i suoi eroi individualisti, L’Impero Colpisce Ancora incarna il cambio di rotta del 2025, un’epoca in cui l’estrema destra sembra risorgere ovunque.
Europa Europa (1990)

Julie Delpy, Marco Hofschneider in ‘Europa, Europa’ Orion Pictures Corp/Courtesy Everett Co
Molti film raccontano la resistenza al potere autoritario. Più rari sono quelli che parlano di chi è costretto ad adattarsi per sopravvivere. Agnieszka Holland ci porta nella storia incredibile — e vera — di Solomon Perel, nato in una famiglia ebrea tedesca emigrata in Polonia negli anni ‘30 per sfuggire al nazismo. Miracolosamente sopravvissuto all’Olocausto, Perel si finge prima comunista in un orfanotrofio sovietico, poi perfetto membro della Gioventù Hitleriana. Holland smonta con intelligenza l’assurdità dell’ideologia razziale nazista.
Grand Budapest Hotel (2014)

Tony Revolori e Ralph Fiennes in ‘The Grand Budapest Hotel’. Fox Searchlight Pictures. Per gentile concessione di Everett Collection
Sotto la sua estetica giocosa e nostalgica, Wes Anderson firma con Grand Budapest Hotel il suo film più politico: un tributo a tutto ciò che il fascismo tenta di cancellare. Lo spirito ribelle dell’adolescenza, il culto dello stile, l’ironia e la malinconia si fanno qui manifesto di civiltà in un mondo che scivola nel caos. E il concierge Gustave H. di Ralph Fiennes lo dice meglio di tutti: “Ci sono ancora flebili bagliori di civiltà in questo macello barbaro che una volta si chiamava umanità.”
Il Grande Dittatore (1940)

Charlie Chaplin in ‘The Great Dictator’Everett Collection
Charlie Chaplin decise di realizzare Il Grande Dittatore dopo aver visto Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl. Il risultato? La satira più influente di Hollywood e il più grande successo commerciale della carriera del regista. Chaplin interpreta sia il tiranno fascista che il barbiere ebreo che viene scambiato per lui. Il film anticipò il sentimento anti-tedesco in America prima dell’entrata in guerra, divenendo un successo persino nell’Europa occupata. Chaplin, tuttavia, si pentì in seguito di aver deriso i nazisti, scrivendo nella sua autobiografia che, se avesse conosciuto l’orrore dei campi di concentramento, non avrebbe mai trattato il tema con leggerezza.
The Host (2006)

Byeon Hie-bong, Song Kang-ho, Bae Du-na e Park Hae-il in ‘The Host’. Magnolia Pictures/Per gentile concessione di Everett Collection
Mescolando la grande tradizione di Godzilla con la commedia nera e il melodramma familiare più scanzonato, Bong Joon Ho non è mai stato così spielberghiano come in The Host, creando un mostro cinematografico destinato a rimanere nella storia, ma con ben altro in mente oltre al semplice spettacolo visivo. Dopo che un medico militare americano ordina di versare litri di formaldeide in uno scarico che finisce nel fiume Han di Seul, nasce una gigantesca creatura simile a una lumaca killer. Al centro della storia c’è la famiglia Park, goffa e di umili origini, che si ritrova a combattere la bestia dopo che questa ha rapito la loro figlia e l’ha portata nel suo covo. Ma ben presto la risposta del governo all’incidente si rivela altrettanto spaventosa quanto il mostro stesso: quarantene imposte arbitrariamente, manipolazione dei media, restrizione delle libertà individuali e una paranoia dilagante. Se Parasite ha analizzato il capitalismo in fase terminale attraverso la lente di una famiglia di truffatori, The Host esplora il modo in cui uno Stato può arrivare a considerare la propria popolazione come un agente contaminante da eliminare o da controllare.
Ida (2014)

Agata Kulesza e Agata Trzebuchowska in ‘Ida’ Everett Collection
Uno dei tanti temi che risuonano nel devastante e silenzioso vincitore dell’Oscar di Pawel Pawlikowski è il ruolo della memoria — pubblica e privata — nella perpetuazione della violenza autoritaria. Siamo nella Polonia degli anni ’60 e Anna, una giovane novizia, è sul punto di prendere i voti quando viene mandata a conoscere l’unico parente ancora in vita: sua zia Wanda. Ex combattente della resistenza comunista diventata giudice di Stato, Wanda è nota per aver mandato a morte numerosi “nemici del popolo”. Ed è lei a rivelare ad Anna di essere ebrea. Il suo vero nome è Ida Lebenstein, e i suoi genitori, inizialmente nascosti da cristiani durante l’occupazione nazista, furono poi traditi e uccisi. Le due, diversissime, intraprendono un viaggio nella campagna polacca alla ricerca della verità. Girato in un bianco e nero mozzafiato e nel formato quadrato dell’Academy (che Pawlikowski avrebbe riutilizzato in Cold War), Ida esplora il modo in cui dimenticare o distorcere il passato può portare alla ripetizione della violenza di Stato. Ma non offre risposte facili su come un Paese, una volta caduto nel fascismo, possa mai ricostruirsi davvero.
Indiana Jones e l’ultima crociata (1989)

‘Indiana Jones e the Last Crusade’ Everett
«Nazisti. Li odio.» I predatori dell’Arca perduta aveva stabilito la formula, ma L’ultima crociata l’ha scolpita nella pietra con questa battuta iconica di Harrison Ford: una frase che strappa una risata, svela un punto chiave della trama (sì, ci sono di nuovo i nazisti!) e ribadisce un principio fondamentale della saga: Indiana Jones è al suo meglio quando affronta il Male assoluto. Vi ricordate quei tempi? Quando era scontato considerare i nazisti come i cattivi per antonomasia (sì, cattivi e basta), e invece di oligarchi sudaticci che giocano con il saluto hitleriano, avevamo registi geniali come Steven Spielberg che riportavano in vita questi classici villain del cinema per regalarci puro intrattenimento avventuroso — quel tipo di divertimento che, per definizione, non è nemmeno concepibile sotto un regime fascista e che rimane il miglior biglietto da visita del mondo libero.
Bastardi senza gloria (2009)

‘Inglourious Basterds’ Weinstein Company/Courtesy Everett Collection
Ovviamente, il più grande cinefilo della storia sa meglio di chiunque altro la regola d’oro di Hollywood (prendi nota, Elon…): i nazisti sono sempre i cattivi. Il primo della sua trilogia di storie alternative esilaranti, Bastardi senza gloria di Tarantino è un concentrato di revisionismo esplosivo: Eli Roth nei panni dello spietato Orso Ebreo armato di mazza da baseball, Christoph Waltz in una performance perfetta nei panni dell’incarnazione del rigore tedesco declinato nel male assoluto, e quell’indimenticabile flash-cut di Joseph Goebbels che ansima come un maiale impazzito in preda a un furioso amplesso. Ma è il finale, con il massacro della leadership nazista dentro un cinema, a rappresentare l’uso più delirantemente trasgressivo della violenza cinematografica da parte di Tarantino, dai tempi di Pulp Fiction.
Joint Security Area (2000)

‘Joint Security Area’Palm Pictures/Courtesy Everett Collection
Il primo grande successo di Park Chan-wook è un thriller mozzafiato ambientato lungo la DMZ coreana, dove uno scontro a fuoco tra Nord e Sud si trasforma in una tragedia. Ma il vero colpo di scena non è un elaborato complotto di spie: i soldati nemici coinvolti erano in realtà amici, uniti da notti di guardia passate insieme tra chiacchiere e momenti di silenziosa intesa. Quando un superiore scopre il loro legame, è l’inesorabile logica del conflitto politico a scatenare il panico e la violenza. Il divo sudcoreano Song Kang-ho (Parasite, Memorie di un assassino) ha infranto barriere interpretando l’eroe nordcoreano, passando mesi a studiare il dialetto settentrionale con l’aiuto di veri disertori. All’epoca, JSA fu il più grande successo al botteghino sudcoreano di sempre e il primo film del Paese a ritrarre un personaggio nordcoreano con complessità umana. «Fino ad allora, i nordcoreani erano descritti solo come mostri, demoni o esseri denutriti. Il governo autoritario e anticomunista imponeva questa visione», ha ricordato Park in un’intervista a THR. «Era importante mostrarli come persone normali.»
Jojo Rabbit (2019)

‘Jojo Rabbit’ Kimberley French/Twentieth Century Fox
Aggiornando il concetto de Il grande dittatore di Chaplin — inquadrare l’ideologia nazista dal punto di vista ingenuo di un bambino per ridicolizzarla e svuotarla di potere — Taika Waititi realizza una “satira anti-odio” su Johannes (Roman Griffin Davis), un ragazzino tedesco il cui amico immaginario è Hitler (Waititi in versione totale cialtrone). Un’idea audace che funziona soprattutto in scene come il montaggio di Il trionfo della volontà con i Beatles che cantano in tedesco o la rappresentazione di Hitler come un’icona pop. Forse un po’ troppo tenero e zuccheroso per un film sul fascismo, ma Jojo Rabbit, con il suo stile cartoonesco, svela l’assurdità di un sistema malvagio.
Leviathan (2014)

‘Leviathan’ Sony Pictures/Everett Collection
Il capolavoro visivo e soffocante di Andrej Zvjagincev sulle miserie e le ingiustizie della Russia di Putin è epico quanto il suo titolo suggerisce. Il film alterna umorismo nero, fotografia mozzafiato della natura e alcune delle più estreme e, paradossalmente, giustificate ubriacature mai viste sullo schermo. Attraverso una sequenza di devastanti degradazioni, seguiamo il testardo Nikolay Sergeyev nella sua lotta contro il sindaco corrotto che vuole espropriargli la casa, mentre il sistema cleptocratico gli porta via tutto: casa, famiglia, dignità e libertà. Con la colonna sonora di Akhnaten di Philip Glass, il film è un mix di riferimenti biblici e hobbesiani, ma al di là del raffinato gioco cinefilo, è un’accusa feroce e senza freni alla corruzione autoritaria che ha avvelenato ogni aspetto della vita pubblica russa.
Le vite degli altri (2006)

Thomas Thieme e Ulrich Tukur in “Le vite degli altri”Sony Pictures/Everett Collection
Un’analisi approfondita di come i sistemi autoritari si basino sulla paura e sulla collaborazione silenziosa per funzionare. Il debutto da Oscar di Florian Henckel von Donnersmarck adotta il punto di vista di un agente della Stasi nella Germania Est (Ulrich Mühe, fenomenale) che, nel corso delle intercettazioni di un artista dissidente, vive un risveglio morale e decide di combattere il sistema dall’interno. Un potente inno su come l’arte e l’empatia possano sfidare il potere politico.
Mephisto (1981)

‘Mephisto’ Courtesy Everett Collection
Klaus Maria Brandauer è elettrico in questo film vincitore dell’Oscar, interpretando un attore tedesco furiosamente ambizioso che vede nella salita al potere dei nazisti un’opportunità d’oro, abbandonando qualsiasi bussola morale per fama e successo. L’adattamento di István Szabó del romanzo satirico di Klaus Mann (ispirato, pare, a suo cognato Gustaf Gründgens, attore e collaboratore nazista) è un pugno nello stomaco, specialmente per quegli ambienti hollywoodiani che si vantavano di essere “la resistenza” dopo le elezioni del 2016 e che ora, improvvisamente, tacciono. Come mostra Szabó, i regimi fascisti sono maestri nell’attrarre e corrompere gli artisti, rendendoli complici nell’abilitazione dell’ideologia totalitaria.
Minority Report (2002)

Samantha Morton e Tom Cruise in ‘Minority Report’20th Century Fox Film Corp. Per gentile concessione di Everett Collection
L’anno è il 2054. Steven Spielberg è dietro la macchina da presa e Tom Cruise è in fuga — come sempre, con la sua tipica corsa fulminea — in un intrigo distopico degno di Philip K. Dick. Lo Stato di polizia ha sviluppato un sistema infallibile per rilevare i pre-crimini, grazie a tre esseri umani precognitivi che fluttuano in una vasca, le loro onde cerebrali monitorate da supercomputer che filtrano pensieri di omicidi premeditati. Se un crimine è intenzionato, la polizia interviene per arrestare il colpevole prima ancora che agisca. I guanti di Cruise che manipolano ologrammi — incredibili nel 2002 — oggi sembrano quasi datati. Ma l’avvertimento di Minority Report su un autoritarismo tecnologico che opera al di là della comprensione umana è più urgente che mai, in un’epoca di intelligenza artificiale in continua espansione.
Moffie (2019)

‘Moffie’ Courtesy of IFC Films
Chi vuole capire il tipo di società che può generare un Elon Musk dovrebbe guardare questa perla nascosta del regista sudafricano Oliver Hermanus. Siamo nel 1981, in un Sudafrica in cui l’omosessualità è ancora un crimine. Un giovane gay non dichiarato viene chiamato per il servizio militare obbligatorio e subisce umiliazioni, vergogna e violenza psicologica estrema. Il titolo deriva da un insulto omofobo afrikaans. Basato sull’autobiografia di André Carl van der Merwe, il film mostra il legame tra oppressione razziale e sessuale e la brutalità sistemica che le alimenta entrambe.
1900 (1976)

Robert De Niro in ‘1900’. Courtesy Everett Collection
Ci sono tanti capolavori italiani che raccontano la vita sotto il fascismo — Il giardino dei Finzi-Contini di De Sica, Una giornata particolare di Ettore Scola, La notte di San Lorenzo dei fratelli Taviani — ma pochi riescono a eguagliare la potenza di Novecento di Bernardo Bertolucci. Robert De Niro e Gérard Depardieu interpretano due uomini nati agli estremi opposti della scala sociale: Alfredo (De Niro) è un ricco proprietario terriero, Olmo (Depardieu) un bracciante illegittimo. Amici d’infanzia, vengono divisi dalla lotta di classe che porterà all’ascesa del fascismo. Lungo (molto lungo: a seconda della versione, dura quattro o cinque ore), operistico e profondamente sensuale, il film esprime chiare simpatie marxiste senza scadere mai nella retorica. Al centro, Novecento esplora le radici del fascismo nell’ineguaglianza economica e nelle tensioni sociali, sottolineando come la scelta individuale — resistere o conformarsi — faccia la differenza.
Il labirinto del fauno (2006)

Doug Jones and Ivana Baquero in ‘Pan’s Labyrinth’Picturehouse/Courtesy Everett Collection
Nel cuore di una foresta spagnola, durante gli anni più bui della dittatura franchista, Guillermo del Toro trasforma il mondo interiore di una bambina in una favola oscura su potere, corruzione e resistenza. Mentre Ofelia affronta prove magiche nel suo universo fantastico, la sua lotta si riflette nella resistenza repubblicana sotterranea. Con la sua maestria visionaria, del Toro intreccia mito personale e memoria storica, suggerendo — come in quasi tutti i suoi film fantastici — che l’immaginazione stessa è un atto rivoluzionario.
Peppermint Candy (1999)

‘Peppermint Candy’Courtesy of HKIFF
Un film criminalmente sottovalutato del maestro coreano Lee Chang-dong. È, insieme, un esperimento formale straordinario, un devastante studio psicologico e una riflessione su come i regimi fascisti continuino a contaminare una nazione per generazioni. La storia inizia con un uomo di mezza età (Sul Kyung-gu) che si suicida gettandosi davanti a un treno, mentre i suoi ex compagni di scuola, radunati per una rimpatriata, assistono inorriditi. Da lì, il film procede all’indietro, rivelando sei momenti chiave che hanno portato l’uomo alla distruzione. Il viaggio, che culmina nel periodo più oscuro della dittatura militare sudcoreana degli anni ’80, è un lento svelarsi della tragedia, che diventa ancora più struggente quando si torna alle origini: un giovane innocente, ignaro del destino che lo aspetta.
Persepolis (2007)

Persepolis, 2007.Sony Pictures Classics/Courtesy Everett Collection
L’adattamento animato della graphic novel autobiografica di Marjane Satrapi è un ritratto intimo e spesso esilarante del totalitarismo. Prima della Rivoluzione Islamica, la piccola Marjane ascoltava punk, idolatrava Bruce Lee ed era cresciuta in una famiglia di sinistra, laica e benestante, che disprezzava la dittatura dello Scià. Quando il nuovo regime islamico prende il potere, le speranze di cambiamento si trasformano in un nuovo incubo autoritario. Troppo sfumato e intelligente per essere liquidato come semplice propaganda anti-iraniana — Persepolis mostra anche il sessismo e il razzismo dell’Occidente quando la protagonista fugge all’estero — il film è una critica equilibrata di ogni forma di fondamentalismo, sia islamico che occidentale.
Porco Rosso (1992)

‘Porco Rosso’Courtesy of Studio Ghibli
Se c’è una costante nella carriera di Hayao Miyazaki, è la sua passione per il volo come metafora della libertà. E Porco Rosso porta questa ossessione al centro della scena. Ambientato nel 1929 sulla costa adriatica italiana, il film racconta di un ex pilota della Prima Guerra Mondiale, trasformato misteriosamente in un maiale antropomorfo che continua a volare come cacciatore di taglie. È stato maledetto per il senso di colpa da sopravvissuto? O ha scelto di diventare un maiale per sottrarsi alla retorica nazionalista dell’Italia fascista? Miyazaki non lo dice esplicitamente, ma la risposta è chiara quando Porco rifiuta un’offerta per tornare nell’aeronautica italiana con un lapidario: «Meglio un maiale che un fascista.»
Il fiore all’occhiello della signorina Jean Brodie (1969)

Maggie Smith in ‘The Prime of Miss Jean Brodie’20thCentFox/Courtesy Everett Collection
Decenni prima che lo sguardo severo della Professoressa McGonagall facesse tremare Harry Potter, Maggie Smith era magnetica, terrificante (e vincitrice di un Oscar) nei panni dell’insegnante titolare in questo adattamento del classico ammonitore di Muriel Spark. Il carisma di Miss Brodie e la sua romantica affermazione che le sue allieve hanno bisogno di imparare “bellezza, onore e coraggio”, sembrano collocarla nella scuola di Robin Williams/L’attimo fuggente dell’educazione carpe diem. Ma c’è qualcosa di più oscuro sotto la superficie. Siamo negli anni ’30 e Brodie è un’ammiratrice dichiarata dei leader fascisti Benito Mussolini e Francisco Franco. La sua influenza sulle sue studentesse preferite – il “Brodie Set” – si rivelerà disastrosa. Il sottile film di Ronald Neame espone la linea sottile tra seduzione intellettuale e corruzione morale e il pericoloso potenziale dell’indottrinamento carismatico.
Roma città aperta (1945)

Anna Magnani in ‘Rome, Open City’Everett Collection
Roma città aperta di Rossellini è un’accorata testimonianza neorealista della resistenza italiana al totalitarismo. Lo stile crudo, quasi documentaristico del film – girato nelle vere strade della capitale italiana devastate dalla guerra – spoglia la narrazione di ogni mito eroico per mostrare la lotta contro il fascismo come una battaglia disperata ed estenuante, segnata dalla paura costante e dal potenziale tradimento. Dopo che l’Italia si è rivoltata tardivamente contro i fascisti di Mussolini, due attivisti di sinistra e un prete cattolico – ognuno dei quali incarna una diversa forma di sfida collettiva – vedono la loro città umiliata dall’occupazione della Germania nazista, che ha reinstallato il dittatore italiano in uno stato fantoccio nel nord di Salò. Rossellini non si tira indietro dalla cruda realtà – il film è una decostruzione dal basso di come il potere fascista si basa su violenza sistemica, terrore e disumanizzazione per funzionare – ma il suo film è anche intriso di passione e della determinazione, per quanto brutte possano diventare le cose, a che gli esseri umani sopravvivano.
Rosenstrasse (2003)

‘Rosenstrasse’. Courtesy Everett Collection
Le storie di donne forti che affrontano la mascolinità tossica sono una sorta di specialità della regista tedesca Margarethe von Trotta (Hannah Arendt, Rosa Luxembourg, Marianne & Juliane) e questo film illumina un’altra storia, meno conosciuta, di resistenza femminile. Nel 1943, i teppisti di Hitler rastrellarono gli ultimi ebrei rimasti a Berlino per la deportazione nei campi. Un piccolo gruppo di uomini ebrei – quelli sposati con tedesche non ebree – ebbero una breve sospensione dell’esecuzione e furono dirottati in un centro comunitario ebraico a Rosenstrasse mentre i nazisti decidevano il loro destino. Le loro mogli protestarono all’esterno, costringendo – incredibilmente – i nazisti a fare marcia indietro e a rilasciare i loro uomini, la maggior parte dei quali sopravvisse. Von Trotta indulge in un melodramma un po’ goffo, ma il film si pone come una confutazione dell’affermazione standard che i cittadini comuni non possono fare nulla per resistere a un regime fascista.
Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975)

‘Salò, or the 120 Days of Sodom’Everett Collection
Il fascismo è un film snuff. Liberamente adattato dal trattato sadomaso del Marchese de Sade, l’artista e intellettuale italiano d’avanguardia Pier Paolo Pasolini trasferisce la depravazione a Salò, nel nord Italia, intorno al 1944, nella repubblica fascista istituita da Mussolini dopo essere stato liberato dai nazisti dai partigiani italiani. Quattro membri psicopatici e sadici del potere, appartenenti all’élite dominante, rapiscono 18 adolescenti e li sottopongono a mesi di torture fisiche e psicologiche. La storia è divisa in quattro segmenti, ispirati alla Divina Commedia di Dante, e c’è una discussione di alto livello su Friedrich Nietzsche, Ezra Pound e Marcel Proust, ma ogni intellettualismo viene annientato dalla raccapricciante rappresentazione della violenza di Pasolini – stupro, impiccagione, scuoiamento, capezzoli bruciati, occhi cavati – che si cela al di sotto. L’ultimo e più estremo film di Pasolini, uscito poche settimane dopo il suo omicidio in circostanze sospette (prove recentemente scoperte suggeriscono che potrebbero essere stati coinvolti terroristi di destra), mostra l’inevitabile risultato finale dell’ideologia fascista.
Soldato d’Orange (1977)

Jeroen Krabbe e Rutger Hauer in “Il Soldato d’Orange” per gentile concessione di Everett Collection
Probabilmente il principale regista antifascista dei nostri tempi, Paul Verhoeven nel suo rivoluzionario film del 1977 segue un gruppo di studenti universitari spensierati che prendono strade molto diverse dopo che i nazisti occupano i Paesi Bassi. Uno viene martirizzato, uno diventa traditore e uno diventa un eroe di guerra. Diretto con lo stile e l’energia familiari delle sue successive produzioni hollywoodiane, Soldato d’Orange non permette mai che il suo messaggio – che la gente comune può opporsi attivamente ai sistemi totalitari – intralci un racconto avvincente. E Rutger Hauer non è mai stato così sexy.
Starship Troopers – Fanteria dello spazio (1997)

Casper Van Dien in ‘Starship Troopers’Courtesy Everett Collection
Starship Troopers di Paul Verhoeven è una satira così efficace dell’ideologia fascista che, quando uscì per la prima volta nel 1997, molti critici fraintesero il film come una piena approvazione dell’autoritarismo. Devono essersi persi la maggior parte della precedente filmografia del regista olandese (per non parlare della sua biografia – da ragazzo ha assistito in prima persona al devastante bombardamento nazista dell’Aia), che è piena di rappresentazioni vivide e sferzanti delle varie forme di fascismo (Soldato d’Orange, RoboCop, Atto di forza). Col senno di poi, le interpretazioni errate evidenziano solo il punto che Verhoeven intendeva sottolineare sull’attrattiva istintiva degli impulsi fascistici, per quanto espressi in modo caricaturale. Tutto ciò che quei primi critici hanno criticato èPrecisamente ciò che è esilarante e ingegnoso del film – dal casting deliberato di attori protagonisti estremamente attraenti ed estremamente stupidi, alle esibizioni gioiose di violenza militare orgiastica, ai costumi, alle scenografie e ai frammenti di dialoghi direttamente rubati all’iconografia e alla propaganda nazista.
Il tamburo di latta (1979)

New World Pictures/Courtesy Everett Collection
Oskar Matzerath, il protagonista percussionista dalla voce acuta nell’epopea di Volker Schlöndorff vincitrice di Oscar e Palma d’Oro, è il Peter Pan dell’antifascismo. Si rifiuta di crescere perché crescere significa diventare un nazista. Adattato dal romanzo magicorealista di Günter Grass su un ragazzo che smette di crescere a 3 anni e ha una voce che può rompere il vetro, Il tamburo di latta usa il punto di vista infantile per deridere la pomposità e l’ampollosità del nazismo. In una scena, il suo tamburellare confonde una marcia militare durante una manifestazione di partito, trasformandola in un valzer di massa. (Magari Oskar fosse potuto essere nel programma dell’inaugurazione di Trump). Non c’è niente di dolce e innocente nel piccolo Oskar – il defunto critico Roger Ebert lo ha definito “un moccioso sgradevole” – ma a volte il modo migliore per affrontare l’ipocrisia fascista è urlare con disprezzo.
Essere o non essere (1942)

Jack Benny e Carole Lombard in ‘To Be or Not to Be’Courtesy Everett Collection
Quando è troppo presto per rispondere all’atrocità con una spumeggiante leggerezza comica? Con questo esercizio di impegno artistico impareggiabile, il maestro della commedia screwball Ernst Lubitsch essenzialmente dice: mai. Essere o non essere vede protagonisti Jack Benny e Carole Lombard nei panni di due attori teatrali marito e moglie nella Varsavia occupata dai nazisti che vengono coinvolti in una trama di spionaggio proprio mentre le SS di Hitler stanno portando via i residenti ebrei nei campi. Il film è entrato in produzione poco prima che gli Stati Uniti entrassero nella Seconda Guerra Mondiale e ha diviso nettamente gli spettatori al momento della sua uscita nel 1942, con molti critici che lo hanno criticato come orribilmente di cattivo gusto. Ma Essere o non essere è straordinariamente intricato e una visione complessa, che contrappone il suo umorismo a schiette ammissioni degli orrori del momento, sostenendo essenzialmente che la vivace arguzia e
La zona d’interesse (2023)

‘The Zone of Interest’Courtesy of A24
Ci sono molti film sconvolgenti sull’Olocausto, ma Jonathan Glazer in La zona d’interesse sposta l’attenzione dagli orrori del genocidio all’indifferenza morale che li ha resi possibili. Il film ritrae la quotidianità apparentemente ordinaria di Rudolf e Hedwig Höss — comandante di Auschwitz e sua moglie — mostrando la loro vita domestica mentre, oltre il muro del loro giardino, l’industria della morte procede senza sosta. Non vediamo mai direttamente i forni crematori, ma li sentiamo, sempre presenti, come un rumore di fondo assordante. “Tutte le scelte fatte per questo film sono state pensate per confrontarci con il presente, non per dire ‘guardate cosa hanno fatto allora’, ma per dire ‘guardate cosa facciamo ora’,” ha detto Glazer nel suo discorso agli Oscar. La zona d’interesse non è solo un film sulla Shoah, ma un monito su come la disumanizzazione possa insinuarsi nella vita di tutti i giorni, in qualsiasi epoca.
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