
Potrebbe vincere l’Oscar come miglior film internazionale, Il seme del fico sacro. E rappresenterebbe un caso, oltre che cinematografico, politico e sociale. Il suo autore ha subito sulla sua pelle la durezza del regime iraniano. È stato nello stesso carcere in cui è stata rinchiusa Cecilia Sala: è avventurosamente fuggito dal suo paese, arrivando a piedi oltre il confine. È approdato poi a Cannes, dove ha vinto il Premio speciale della giuria. Il seme del fico sacro è il film che ha realizzato clandestinamente in Iran.
Il seme del fico sacro è ambientato nell’Iran contemporaneo. O meglio, quello delle proteste scoppiate nel 2022, dopo la morte di Mahsa Amini, la studentessa curda uccisa dalla polizia “morale” iraniana per aver indossato non correttamente il velo, l’hijab. Nelle strade, le ragazze gridano “Donne, vita, libertà”. La polizia le massacra, le arresta, le tortura. Alcune vengono condannate a morte.
Ma il protagonista del film sta dall’altra parte dello scontro. È un marito e un pubblico ufficiale, che viene nominato giudice istruttore dal tribunale rivoluzionario di Teheran. La moglie approva: spera in un po’ di benessere in più. Sarebbe il piccolo sogno borghese di una famiglia come un’altra: se non che il prezzo di quel sogno è il coinvolgimento sempre più pesante dell’uomo nel regime. Deve firmare sentenze, deve accettare il ruolo di carnefice.
Il film di Rasoulof è il sismografo di questa progressiva trasformazione dell’uomo. Il quale diviene sempre più sospettoso, autoritario, violento verso la sua stessa famiglia. Le cui donne, invece, si scoprono sempre più solidali verso chi si oppone al regime, verso le vittime della repressione. E si snoda un film teso come una corda di violino fra l’ubbidienza colpevole del marito, e la spinta “sovversiva”, ma umana, del resto della famiglia, in un clima di sospetto, di minaccia sempre più pesante. Sono le donne che hanno la forza di opporsi. Donne che Rasoulof ritrae senza il velo. E già questa è una trasgressione grave, e rischiosa: mostrare in un film donne senza velo.
In Iran, pochi giorni prima che il film passasse in concorso a Cannes, Mohammad Rasoulof è stato condannato a cinque anni di prigione, alla fustigazione e alla confisca dei suoi beni. I suoi film sono stati giudicati “esempi di collusione con l’intenzione di commettere un crimine contro la sicurezza del paese”. Non era la prima volta che Rasoulof finiva nel mirino del potere. Arrestato nel 2010, quando girava con il suo maestro Jafar Panahi, poi condannato nel 2019 a un anno di prigione, e di nuovo nel 2020 e nel 2022, sempre a causa dei suoi film.
È stato l’ultimo attacco, il più intollerabile. Rasoulof ha deciso di lasciare il suo paese. Ma da anni era stato privato del passaporto. Ha passato il confine a piedi, di nascosto, di notte, e alla fine di un lungo ed estenuante viaggio è approdato in Germania. Da lì è arrivato a Cannes, in tempo per il red carpet. Lì si è presentato stringendo fra le mani le fotografie dei due protagonisti, Missagh Zareh e Soheila Golestani, che non hanno potuto lasciare l’Iran.
“Ci sono ancora molte storie da raccontare, sugli ultimi 46 anni dell’Iran – ha detto – Anni pieni di vicende difficili e tragiche. Per esempio, durante i primi decenni della Repubblica islamica sono state giustiziate migliaia di persone. E finora nessun regista iraniano è riuscito a farci un film”.
Così ha raccontato la sua condizione e quella degli altri esuli: “C’è una grande generazione, anzi ci sono più generazioni di artisti iraniani in esilio: la mia è una condizione che mi accomuna a molti altri. Ma adesso, che è tutto così connesso anche grazie ai social, ciò mi dà speranza che sia possibile raccontare storie che abbiano un legame sia con la gente in Iran che con il pubblico globale”.
E poi racconta delle conseguenze subite da chi ha lavorato al film e non ha potuto lasciare l’Iran. “Al momento, in Iran è rimasta Soheila Golestani, che interpreta la madre. Tutti gli altri sono riusciti a lasciare il paese, alcuni clandestinamente. C’è un processo giudiziario in corso contro tutti coloro che hanno preso parte al film. Siamo tutti accusati di propaganda contro il regime, attentato alla sicurezza pubblica e diffusione della prostituzione e della corruzione”. Golestani era già stata in carcere in Iran. “Soheila, che è un’artista incredibile, ha dovuto passare alcuni mesi in prigione durante i mesi delle manifestazioni ‘Donne, vita, libertà’”.
Il regista ha commentato anche da Cecilia Sala, la giornalista italiana imprigionata come lui per tre settimane nel carcere di Evin. “Ho trascorso due periodi nel carcere di Evin, e posso immaginare quale esperienza sia stata per lei, tanto più per un europeo. Io sono cresciuto in Iran, sono preparato a certe difficoltà. Chi non è iraniano non può esserlo”.
Nel film Il seme del fico sacro compaiono anche riprese di manifestazioni girate con il telefonino. Documenti reali di ciò che è accaduto in Iran. “Il giornalismo in Iran è un mestiere difficile: non è permesso ai giornalisti di documentare le proteste. Sono gli stessi manifestanti che, con i video girati dai loro telefonini, mantengono viva l’informazione, che divengono essi stessi giornalisti. Ero in carcere quando è divampato il movimento ‘Donne, vita, libertà’, e non ho avuto la possibilità di filmare in prima persona. Quando sono uscito, mi sono fiondato a vedere tutti i video che ho potuto recuperare”.
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