
Chiunque sia arrivato al Festival del Cinema di Berlino sperando di sfuggire al bombardamento mediatico su Donald Trump è rimasto deluso. Difficilmente il tycoon avrebbe calcato il red carpet della Berlinale (a meno che non lo avessero invitato), eppure era ovunque a Berlino.
Sul grande schermo, i registi hanno lanciato frecciate al 47esimo presidente degli Stati Uniti e alle sue politiche. La satira fantascientifica Mickey 17 di Bong Joon Ho’ mette in scena seguaci fanatici di un politico egocentrico con cappellini rossi in stile MAGA, mentre Dreams di Michel Franco, che racconta la storia di un ballerino messicano che attraversa il confine per stare con la sua facoltosa fidanzata americana, è una chiara critica alle politiche migratorie di Trump.
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Nel frattempo, tra gli addetti ai lavori del European Film Market, il tema Trump e il suo impatto sull’industria cinematografica internazionale è impossibile da ignorare.
Le case di produzione e distribuzione temono che Trump possa prendere di mira il settore cinematografico con dazi e restrizioni commerciali, come ha già fatto, o minacciato di fare, con altre industrie.
Un bersaglio possibile? Le produzioni statunitensi che scelgono di girare all’estero, una pratica ormai comune a causa dei costi proibitivi delle riprese negli Stati Uniti.
“Tutti si stanno chiedendo: sarà ancora sicuro girare in Messico o in Canada? Non c’è modo di saperlo”, afferma Josh Rosenbaum di Waypoint Entertainment, compagnia di produzione e finanziamento che ha sostenuto film come Longlegs, Mid90s e The Favourite. “Francamente, è il caos. Non ci sono regole. Ovviamente ci sono gli editti di Trump, ma nessuno sa cosa significheranno davvero”.
Diversi aspetti dell’industria cinematografica internazionale potrebbero far storcere il naso a Trump.
La questione delle produzioni “fuggitive” è resa più complessa dai generosi crediti d’imposta offerti da molti Paesi per attrarre film e serie americane, sottraendo potenzialmente posti di lavoro a cast e troupe statunitensi.
Inoltre, molte nazioni sovvenzionano pesantemente il proprio cinema, una pratica che Trump potrebbe etichettare come “concorrenza sleale”, imponendo restrizioni o dazi.
Da tempo l’industria americana chiede incentivi fiscali nazionali per contrastare l’attrattiva di girare all’estero. Prima delle elezioni dello scorso anno, il governatore della California Gavin Newsom ha proposto di raddoppiare gli incentivi statali per la produzione cinematografica e televisiva, facendola salire a 750 milioni di dollari all’anno, nel tentativo di riportare i posti di lavoro persi a favore di altre regioni e Paesi.
Tuttavia, dopo la devastazione degli incendi di Los Angeles, il governo statale ha inevitabilmente spostato la priorità sulla ricostruzione della città piuttosto che sul sussidio a Hollywood. Esiste una spinta per ottenere incentivi fiscali a livello federale, ma con questa amministrazione appare improbabile che Washington approvi misure che favoriscano principalmente gli stati “blu” come New York e California.
Più a nord, nella regione che Trump ha cominciato a chiamare “il 51° stato”, il Toronto Film Festival sta già pianificando una strategia di resistenza.
Il TIFF lancerà ufficialmente un mercato dei contenuti il prossimo anno e ha già nominato i primi membri di un comitato consultivo, tra cui figure di spicco dell’industria indipendente come Roeg Sutherland della CAA, Vincent Maraval (CEO di Goodfellas), Noah Segal (co-presidente di Elevation Pictures) e Niv Fichman (fondatore di Rhombus Media).
“Il festival di Torinto è sempre stato un luogo di collaborazione e cooperazione internazionale”, ha dichiarato Judy Lung, vicepresidente di strategia, comunicazione e relazioni istituzionali di TIFF, a THR a Berlino. In questo periodo di “sconvolgimenti politici ed economici – ha sottolineato – è essenziale approfondire e rafforzare i legami internazionali”.
Un problema più urgente è quello della censura, in particolare dell’autocensura, da parte delle aziende nel clima post-MAGA.
“Abbiamo già visto una sorta di resa preventiva, come con i programmi DEI (diversità Equità Inclusione) che sono crollati con effetto domino. Le aziende e le persone pensano: ‘cominciamo a cedere passivamente, poi vedremo a lungo termine'”, ha dichiarato Todd Haynes, presidente della giuria della Berlinale di quest’anno, a The Hollywood Reporter parlando della possibile amministrazione Trump. “Ma storicamente abbiamo imparato che una volta che inizi a cedere, non ti premiano per la sottomissione. Gente di questo tipo è insaziabile”.
La resa potrebbe anche assumere la forma dell’evitare film o temi che potrebbero irritare Trump e i suoi sostenitori.
L’esperienza di The Apprentice, il biopic su Trump diretto da Ali Abassi, potrebbe essere illuminante. Il film, che ha ricevuto recensioni entusiastiche e una standing ovation di otto minuti a Cannes lo scorso anno, è diventato un successo, ottenendo due nomination agli Oscar per Sebastian Stan (Trump) e Jeremy Strong (Roy Cohn, il legale che negli anni ’80 insegnò al futuro presidente le arti oscure della politica). Ma l’opposizione dal campo trumpiano ha quasi compromesso la distribuzione negli Stati Uniti. Appena il film ha debuttato sulla Croisette, sono emerse notizie secondo cui il principale finanziatore, Kinematics, fondata dal produttore Mark Rapaport (genero del miliardario e noto sostenitore di Trump Dan Snyder), non approvava la visione di Abbasi sul presidente.
Nessuno voleva distribuire il film.
Solo quando la casa indipendente Briarcliff Entertainment di Tom Ortenberg ha fatto un’offerta, e uno dei produttori, James Shani, si è unito come co-distributore, The Apprentice ha trovato spazio nelle sale americane.
Contattato via e-mail, Shani ha confermato che The Apprentice è ancora privo di un accordo streaming negli Stati Uniti. “Credo che siamo l’unico film candidato all’Oscar che non ce l’ha, e il motivo è oggettivamente chiaro – ha scritto – ed è un problema”.
L’esperienza di The Apprentice potrebbe servire da monito per produttori e cineasti a Berlino: sfidare Trump potrebbe costare caro.
“C’è un reale timore che i distributori americani si tirino indietro su qualsiasi cosa sembri anti-Trump o critica nei confronti di MAGA”, rivela un agente di vendite europeo a THR. “Anche film che trattano di immigrazione o diritti delle persone trans potrebbero essere considerati troppo rischiosi”.
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