“Amo Matera, mi sembrava già di conoscerla, avendola vista nel Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini”, dice Atom Egoyan, uno dei registi più cult del panorama contemporaneo. Uno di quelli dallo sguardo più personale, più sorprendente, più spiazzante.
Premiato per cinque volte al festival di Cannes, per due volte nominato all’Oscar, Atom Egoyan ha 65 anni. È nato al Cairo da genitori armeni, vive da quando aveva tre anni in Canada, in quella che può sembrare, cinematograficamente, la periferia di un impero. Ma forse sta anche lì la chiave della sua libertà stilistica. Lontano da Hollywood, Egoyan ha costruito i suoi film raffinati, complessi, enigmatici. In cui lo spettatore ha sempre la sensazione che si nasconda, sotto la superficie di immagini levigate ed eleganti, qualcosa di potente e terribile.
Figlio di genitori sradicati dalla loro terra, figlio di una storia dolorosa e complessa, quella del popolo armeno, Egoyan ha creato film in cui il presente è sempre intrecciato con strati di tempo passato, così come le immagini “dirette” si intrecciano sempre ad altre, immagini di schermi, display, dispositivi di registrazione e riproduzione. Come se ognuno fosse sempre osservatore e osservato, mentre il reale si moltiplica in schegge infinite.
Nei suoi film si mescolano, anche, ossessioni erotiche struggenti e sensi di colpa profondi: ricordi di peccati rimossi, sensi di perdita, grovigli di pulsioni inconfessate. È un cinema che lavora sulle zone d’ombra dell’anima di ognuno. E che lavora sull’innocenza, sulla seduzione, sulla perdizione.
Fra i suoi film più straordinari Calendar, del 1993, girato in parte in Armenia – al genocidio armeno dedicherà il suo film Ararat – Exotica del 1994, su un padre ossessionato da una adolescente che lavora in uno strip club, Il dolce domani, Il viaggio di Felicia, Le verità nascoste – con Kevin Bacon e Colin Firth – fino a Remember, su un sopravvissuto all’Olocausto che si mette sulle tracce di un criminale di guerra nazista, mezzo secolo dopo la fine dell’orrore della guerra.
Da qualche giorno, Egoyan è in Italia, insieme alla moglie, l’attrice libanese di origine armena Arsinée Khanjian. Sono ospiti del Matera Film Festival: Egoyan presiede la giuria dei lungometraggi, Arsinée Khanjian quella dei documentari. E il regista ha presentato, in anteprima italiana, il suo ultimo film, Seven Veils, in uscita nel 2025, distribuito da Plaion Pictures.
Presentato al festival di Toronto e poi alla Berlinale, lo scorso febbraio, Seven Veils vede Egoyan ritrovare Amanda Seyfried, che aveva già diretto in Chloe, il film del 2009 che rappresenta il suo maggiore successo di pubblico.
Seven Veils, i sette veli. Quelli della danza di Salomè. Tutto parte nel film dall’opera di Richard Strauss Salomè, da un libretto di Oscar Wilde. Un’opera che Egoyan ha effettivamente messo in scena per la Canadian Opera Company più volte: la prima nel 1996, l’ultima lo scorso anno.
Egoyan filma la vera produzione teatrale, con i veri cantanti d’opera – Ambur Braid e Michael Kupfer-Radecky – ma introduce una densa sostanza narrativa, con Amanda Seyfried nel ruolo della regista teatrale, tormentata da mille dèmoni: a partire dai ricordi della propria infanzia, con un rapporto non chiaro, al limite dell’incesto, con il padre. A completare lo smarrimento del suo personaggio, un marito che probabilmente la tradisce, e un rapporto non risolto con il suo mentore: il regista teatrale, defunto, del quale adesso ha preso il posto, e nel nome del quale sta dirigendo un’opera così complessa. Intorno a lei, un ambiente sempre più ostile, dove ognuno sembra ostacolare le sue decisioni artistiche.
“In questo film riesco a mettere insieme i due mondi, quello del teatro e quello del cinema, i mondi nei quali vivo fin dalla mia adolescenza”, dice Egoyan, che raggiungiamo telefonicamente.
“Vi appare anche il tema dell’incesto, che era al centro di due dei miei film precedenti, Exotica e The Sweet Hereafter. Perché mi interessa questo tema? Non ho motivi personali, non ho esperienze dirette: ma sono consapevole della profondità, della potenza di questa forma di attrazione, e cerco di capirla. In questo film, c’è un padre che porta una figlia in territori inesplorati, lontano da se stessa. Quella bambina, divenuta adulta, è Jeanine, la regista dell’opera. Lei non ignora il suo trauma infantile, il rapporto pressoché incestuoso che ha avuto suo padre con lei. Ma non immaginava che, addentrandosi nel mondo del mito biblico, del teatro, avrebbe ri-vissuto il suo trauma, in modi inattesi”.
È stato difficile lavorare con i veri cantanti dell’opera, insieme al resto del cast?
“Molto prima che iniziassero le prove dell’opera, ho spiegato ai cantanti che avrei filmato le prove, ma che avrei chiesto loro di recitare delle scene che non facevano parte dell’opera, ma del film. È stata una sfida, perché sono cantanti professionisti, ma non attori professionisti. Ma era proprio quello che cercavo, un equilibrio fra le performance realistiche degli attori e quelle enfatizzate dei cantanti d’opera”.
Ci sono le prove dell’opera e le vite della regista, degli attori, della troupe che si intrecciano nel film…
“A volte, i confini fra la storia biblica di Salomè, quella del libretto di Oscar Wilde, la musica rivoluzionaria di Richard Strauss e le vite dei personaggi si intrecciano in un modo tale che è difficile separarli. A volte Jeanine, il personaggio di Amanda Seyfried, non riesce a esprimere le sue emozioni, e parla con le parole di Oscar Wilde”.
Jeanine compie, quando l’opera va in scena, un gesto inatteso – che non sveliamo. Perché?
“Non vuole essere osservata più: da suo padre, dalla troupe, dai cantanti. Vuole riappropriarsi del suo lavoro, senza sguardi altrui, neppure gli sguardi del rituale dello spettacolo, dell’arte”.
Qual è il suo rapporto con la musica? È lei stesso musicista, ho letto.
“E’ vero, ho studiato chitarra classica, e suono quando posso. I miei compositori preferiti sono Alban Berg, Janacek, Strauss, Wagner. Ma amo anche l’opera italiana: Verdi, soprattutto, e i libretti di Lorenzo Da Ponte”.
Ieri l’America e il mondo si sono svegliati con un nuovo/vecchio presidente. Che cosa ne pensa?
“Sono profondamente deluso dal popolo americano, e penso che l’elezione di Trump sia una catastrofe. Si è realizzato l’inimmaginabile. Per il momento, preferisco pensare a Matera, così bella e così straordinaria”.
Il suo prossimo progetto quale sarà?
“Metterò in scena Jenůfa, opera del compositore ceko Leoš Janáček”. L’opera è tratta da una pièce, Její Pastorkyna (La sua pastorella), scritta nel 1904 da Gabriela Preissová. È la storia di un infanticidio e di una successiva redenzione. Invece, Morte a Venezia, l’opera che Benjamin Britten ha tratto dal romanzo Morte a Venezia di Thomas Mann, per il momento è stata accantonata.
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