Il meglio e il peggio del 2024: il nostro critico svela i suoi 3 film preferiti e le 3 grandi delusioni

Bogani su Parthenope: “È un film che sembra amare se stesso, sempre in bilico fra sublime e grottesco, fra il lirico e il Kitsch…”

Si avvicina la fine dell’anno, e tutti fanno bilanci, anche sbagliando. Bilanci personali: che cosa abbiamo fatto nella vita? E bilanci quasi personali: che cosa abbiamo visto, e perché? E che cosa ci è piaciuto? Che cosa ci ha reso – forse – migliori? Che cosa, al contrario, ci ha lasciati con un senso di vuoto, di insoddisfazione, di “anche oggi si grida al capolavoro domani”?

Vediamo qualche fotogramma, qualche impressione relativa al cinema italiano di questa stagione. Taccuino di un critico, che per un motivo o l’altro ha incrociato il cammino di quasi tutti i film italiani usciti da agosto ad ora. 

1. “Gloria!” di Margherita Vicario

Segnaliamo, prima, le sorprese. Le sorprese positive. Niente sapevo prima di vedere Gloria!  di Margherita Vicario. E Alla fine della proiezione, avevo già voglia di rivederlo. Ambientato in un istituto religioso all’inizio dell’Ottocento, dove un gruppo di musiciste orfane preparano un concerto – la strepitosa ultima scena – il film è insieme una favola pop, un inno vero alla forza e alla creatività femminile. 

In ogni momento, Gloria! sembra rivelarci e svelarci il mistero della musica che nasce. Nasce per strada, fra i rumori e i fruscii, come nell’inizio di Amami stanotte, un film del 1932 di Robert Mamoulian che giocava con i suoni e la musica, agli albori del sonoro. Nasce nella mente di una ragazza, ultima fra le ultime, nasce da un dito posato, esitante, sul tasto di un pianoforte. E quella nota che emerge, e si nutre di sé fiorisce, fino a diventare melodia, accordi, ritmo, pura espressione di gioia, di vita, liberazione totale. È un film sul talento, sul genio, sulla sorellanza, un inno alla gioia pura. Splendidamente anacronistico, con un primo Ottocento che diventa pop e rock, trascinante, travolgente, e quelle ragazze che hanno i volti bellissimi di Galatea Bellugi e Carlotta Gamba. 

Gloria! , che in realtà è uscito l’11 aprile, ovvero in finale della stagione precedente, è una delle sorprese di questo 2024. Fra le altre sorprese positive di questa stagione, ci sono altri due film diretti da donne. Vermiglio di Maura Delpero e Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini.

 

2. Vermiglio di Maura Delpero

Di Vermiglio si è molto parlato, e si parlerà ancora: la pellicola è nella shortlist dei candidati all’Oscar per il miglior film internazionale, e proprio oggi esce negli Stati Uniti, nella East Coast, New York e qualche altra sala “mirata”, per poi uscire all’inizio dell’anno a Los Angeles. 

Non so se riuscirà ad imporsi, in un’annata che vede, fra i titoli che concorrono all’Oscar per il miglior film internazionale, il folgorante Emilia Pérez, ma anche l’affresco impietoso della società iraniana tracciato da Rasoulof  nel Seme del fico sacro, e il raffinato gioco con il cinema, con citazioni dall’Espressionismo e da Bergman, di The Girl With the Needle.  

Certo è che Vermiglio ha già percorso un cammino straordinario,con le scelte di produttori e regista tutte orientate verso l’autenticità: raccontare una storia ambientata nella val di Sole, profondo Trentino, girando lì, scegliendo come attori persone di lì, con quell’accento, quella durezza e quella dolcezza, non i soliti noti del cinema italiano. Delpero sceglie molti non professionisti, li fa parlare in dialetto, crea un cinema che non cerca scorciatoie, tenace e scabro come un film di Olmi. 

3. Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini

Il terzo film è Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini, che a sessant’anni trova il coraggio per raccontare se stessa, il proprio rapporto con il padre, il regista del Pinocchio televisivo. Francesca Comencini pone tutto il cono di luce del film su quel rapporto: non c’è quasi altro, nel film. E già questo è sintomo di un coraggio enorme. Mette in scena il rapporto fra un padre famoso, talentuoso, forte e una figlia insicura, avviluppata in un bozzolo di fragilità come in una crisalide. Un rapporto che diviene conflittuale, negli anni ’70 delle rivolte contro i padri, degli abissi delle tossicodipendenze, degli sbilanciamenti esistenziali spesso irrecuperabili. 

Il tempo che ci vuole racconta una storia intima, e insieme una storia collettiva, con impietosa onestà. Una grande opera, di grande coraggio personale e artistico. Coraggio che forse è mancato ai selezionatori di Venezia per accogliere il film in concorso, invece che fuori concorso. 

LE DELUSIONI 

E veniamo ai film che, per un motivo o l’altro, hanno deluso le attese. Perché capolavori annunciati e non rivelatisi tali, o perché scommesse quasi sperimentali che non ci sembrano del tutto riuscite, o perché pensati come film popolari che non hanno saputo toccare le corde giuste per incontrare il pubblico. 

1. Parthenope di Paolo Sorrentino 

Iniziamo da un film che, per carisma del suo autore, vincitore dell’Oscar, fra i pochissimi registi italiani oggi universalmente conosciuti e riconosciuti, e perché unico film italiano accolto in concorso a Cannes, poteva presentarsi come capolavoro annunciato.  

Non è una delusione per quello che riguarda gli incassi, Parthenope di Paolo Sorrentino, distribuito dalla neonata casa Piper con strategie piuttosto nuove, usando più i social che i giornali cartacei e le televisioni, con un marketing molto contemporaneo. 

Non è una delusione, perché è il secondo miglior incasso della stagione, con i suoi 7,4 milioni di euro incassati fino ad oggi. Sarebbe un punto esclamativo, che diventa però un punto interrogativo se confrontato con gli ingenti costi di produzione: il sito del ministero parla di oltre 32 milioni. 

Ma adesso, si parla del film dal punto di vista artistico. E se è vero che Sorrentino fa sempre il suo cinema, quindi c’è poco da sorprendersi, da meravigliarsi, è anche vero che lo stile da solo qualche volta non basta. Sorrentino distilla il suo cinema estetizzante ed estatico, con lunghi implacabili movimenti di macchina e dialoghi che sembrano raccolte di aforismi. È la sua cifra stilistica, d’accordo, prendere o lasciare.  

Sorrentino cerca nella grande bellezza di Celeste Dalla Porta la chiave di volta di tutto il suo film. L’attrice al suo esordio, perfetta ed enigmatica come una statua ellenistica, è al centro di ogni inquadratura. Viene filmata in lunghi primi piani, con uno sguardo che sembra sapere tutto di sé, ma anche di te spettatore. Un mezzo sorriso, uno sguardo di mezza malinconia, voluttuosa e svogliata, distaccata, Parthenope nel film affascina tutti gli altri personaggi maschili, ma sembra amare soprattutto se stessa, la propria serena, inappellabile bellezza. E lo stesso potremmo dire del film di Sorrentino. 

È un film che sembra amare se stesso, sempre in bilico fra sublime e grottesco, fra il lirico e il Kitsch. Con immagini magnifiche, d’accordo, immerse nel bianco e nell’azzurro. Ma è un po’ come Parthenope nel film, una ragazza bellissima che sembra non sapere che farsene di tutta quella bellezza. 

I dialoghi: aforismi, sentenze, una dopo l’altra. Sembra quasi di vedere il testo scritto in sovrimpressione, invece di ascoltare un dialogo.

Infine, l’ultimo campanello di allarme. Parthenope è, sì, un’ode ad un personaggio femminile, al mistero della giovinezza. Ma in realtà mette in scena il corpo femminile in modo piuttosto discutibile, con uno sguardo molto, molto “maschile”, ad alto tasso di voyeurismo. Dopo tutto quello che è successo negli ultimi anni, è ancora uno sguardo che si ferma all’estetica. 

Intorno, una Napoli che è – volutamente, certo – solo il proprio cliché: camorra, Achille Lauro, San Gennaro, un’attrice che si chiama Greta Cool, ma che sembra una parodia di Sofia Loren, e lo scudetto del Napoli. Magari c’è anche altro. La Napoli piovosa del film L’arte della felicità di Alessandro Rak, primo esempio che viene in mente. Ci sarà qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, qualcosa di autentico e di inatteso a Napoli: o è soltanto sempre solo quello che già sappiamo, che ci viene sempre raccontato e mostrato?

2. Un altro Ferragosto di Paolo Virzì

Personalmente avevo molte attese per Un altro Ferragosto di Paolo Virzì. Il sequel di un film amatissimo, Ferie d’agosto, con gran parte degli stessi attori. Alcuni non ci sono più, come gli indimenticabili Ennio Fantastichini e Piero Natoli; altri sono new entries, come Vinicio Marchioni e Andrea Carpenzano. Ma non è il turn over, peraltro lieve, che porta la squadra a non girare più come trent’anni prima. 

Il tono, certo, è cambiato. Un altro Ferragosto sembra il requiem di una generazione, una riflessione sul tempo che passa che diviene visibile nei volti dei suoi attori più che nei dialoghi. I riferimenti all’isola di Ventotene dove gli intellettuali antifascisti erano costretti al confino, e dove sono state poste le basi per l’Europa unita, sono verbosi, poco accattivanti e poco chiari per chi non li conoscesse già. 

Ma soprattutto, il film sembra pensare solo al passato, e non nutrire nessuna illusione sul presente, su un paese senza vergogna, senza desideri, senza sogni veri, senza mète. Ci sono alcuni momenti di insuperabile bravura degli attori e delle attrici – il monologo di Emanuela Fanelli, fra tutte – ma non c’è mai la sensazione di un film coeso, che racconti una storia, che vada da qualche parte.  

Il bello dei film di Paolo Virzì è il modo in cui mescolavano commedia e dramma, tragedia e sarcasmo, senza puntare il dito contro i suoi personaggi, perdonandoli sempre, esplorandone vulnerabilità e dolcezza. Qui la dolcezza e l’ironia sembrano scomparse, sembrano lasciare il campo solo all’amaro. Paradossalmente, sembra un film che non ama i suoi personaggi. 

Un altro Ferragosto è, al contrario del suo precedente, lugubre, funereo. È vero che invecchiamo tutti, noi, Virzì, gli attori. Ma sembra non esserci rimasta nessuna scintilla di quella livornesissima ironia che condiva Ferie d’agosto e tutti gli altri film scritti dal bravo Francesco Bruni e dallo stesso Virzì.3

3. I Dannati  di Roberto Minervini

È il primo film di finzione di Roberto Minervini, premiato in numerosi festival internazionali, autore di Louisiana e Che fare quando il mondo è in fiamme? Qui Minervini racconta i soldati di frontiera durante la Guerra civile americana. O meglio, racconta la vicenda di un gruppo di essi, un plotone sperduto chiamato a sondare una frontiera inesplorata. 

Il film è tutto in questa sospensione del tempo, nell’attesa, nell’incertezza. Uomini che sono soldati, ma che desiderano solo tornare uomini. Attori che vediamo spesso inquadrati da dietro, personaggi che camminano in continuazione, in una missione che sembra perdere ogni logica. Un’idea molto bella, raccontare l’estenuazione del tempo, dell’attesa, una metafora della condizione umana, quella di tutti noi, perduti in questo mondo senza sapere perché. 

Ma al cinema una situazione di stallo così, con conflitti che non esplodono, con un niente continuo che sembra accadere, è una situazione molto difficile da gestire. Il pubblico si è mostrato diffidente. E anche chi scrive alla fine si è trovato in mezzo a quel plotone, senza poter far altro che aspettare. E il tempo, al cinema, ha un rintocco pesante. 

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