Jackson Lamb, la spia che venne dal marcio

Ritratto di un personaggio, interpretato da Gary Oldman, protagonista, su Aplle Tv, di una serie di culto (anche in Italia): Slow Horses

Si lava i denti con una frequenza discutibile, la scarsa igiene diffonde intono a sé un odore non gradevole reso allarmante e intollerabile dalle continue flatulenze, la sua scrivania è sempre presidiata da una bottiglia di superalcolici, il suo fumo assiduo è interrotto solo da pasti continui e insalubri.

È Jackson Lamb, interpretato da Gary Oldman, protagonista dei romanzi di Mike Herron, della serie Slow Horses, tra le più amate su Apple Tv, giunta alla quarta stagione, con in preparazione altre due: sembrerebbe il peggior candidato alla funzione dell’eroe, eppure è attualmente l’agente segreto più popolare e di maggior successo della spy story: l’erede di Smiley, il personaggio feticcio di Le Carrè. 

La sublime ironia del cinema, declinato nella nuova serialità, è che lo stesso Oldman ha incarnato il suo opposto, ovvero proprio Smiley, in La talpa,  l’uomo che nei libri di Le Carrè stana i doppiogiochisti e sfida il re del KGB, Karla (che peraltro viene citato, di sfuggita, anche in Slow Horses)

Da cosa nasce il suo fascino, se così possiamo chiamarlo, che ha avuto un peso cruciale nel successo della serie che ha vinto degli Emmy e dei BAFTA? 

Cominciamo dall’inizio. Il dipartimento “pantano” è una filiale del servizio segreto britannico dove finiscono le mezze seghe (Slow Horses significa “ronzini”) o gli agenti che abbiano toppato di brutto (come il protagonista River Cartwright) o le leggende dello spionaggio andate a male (come Jackson Lamb, appunto). 

Che succede se proprio questo gruppo di improbabili spie da tavolo o agenti frustrati finisce per intercettare sinistri disegni sovversivi (prima stagione), scoprire agenti russi sotto copertura in sonno da decenni (seconda stagione), sventa pericolose ritorsioni e vendette da parte di ex agenti (terza stagione) o sgomini associazioni di killer con le quali l’MI5 ha flirtato in passato (come nella quarta)? 

Slow Horses – ha scritto El Pais – esplora tutti i clichè delle spy story con grande efficienza e sensibilità spingendoti a vedere tutti di seguito gli episodi con un sorriso permanente sulle labbra”. 

È la forza della serie tratta dai romanzi di Mick Harron, popolari in Gran Bretagna: il piacere dell’intrigo e della cospirazione, manipolati da svolte sorprendenti che attingono ad una profonda conoscenza del genere spionistico, non invalidano il gusto per la satira politica e lo humour nero.

Il tradizionale fairplay dell’aristocrazia britannica dove i servizi segreti nazionali cooptano da sempre i loro campioni si trasforma in Slow Horses in letale cinismo i cui campioni sono Kristin Scott Thomas, nella cui bellezza alberga quietamente una determinazione omicida e nel personaggio di  Oldman – il quale, in ogni episodio, non perde una sola battuta per esprimere il suo radicale disprezzo per tutti coloro che lo circondano, senza dismettere una nichilista impassibilità: cosa diavolo è successo nel suo passato da averlo ridotto in quel modo, si è chiesto lo stesso autore, Herron, in un’intervista, confessando di non saperlo bene neanche lui? 

Il punto è che i “ronzini”, gli agenti del “pantano”, risultano decisivi, spesso per contrappeso a mele marce e deviazioni intestine che causano problemi micidiali alla casa madre dei servizi segreti. 

Tra la periferia di Londra (ad un angolo si scorge più volte un ristorante italiano con la commovente scritta Nuovo Parioli) e la campagna inglese, tra scartoffie e fanatici killer, terroristi e contrattisti mercenari del crimine ignoto, la serie attinge con successo alla propria vena eroicomica grazie anche all’overture della sigla creata addirittura da Mick Jagger e alla galleria di personaggi dal profilo memorabile.

Eccoli: il protagonista, Jack Lowden (la cui controversa biografia è al centro della quarta serie e il cui nonno, Richard Eyre, è un ex agente con un alzheimer incipiente e qualche scheletro nell’armadio), Standfish, l’assistente di Lamb (Saskia Reeves: la cui attitudine da segretaria dimessa ha in serbo puntualmente una idea risolutiva), Roddy Ho (Christopher Chung, genio del computer sociopatico, narcisista e rattuso), Rosalind Eleazar (Louisa Guy, profilo caraibico dall’audacia inquieta). 

Ma il personaggio più sorprendente è proprio quello di Gary Oldman, mai a corto di osservazioni dalla malevolenza sorniona e spietata e di una intuizione segreta e fulminante addestrata da decenni di guerra fredda e di sconosciuti misfatti e crudeltà di cui è disseminata la storia della guerra delle spie.

In fondo non è difficile immaginare cosa lo ha ridotto così, cos’altro se non l’alienazione continua di un mondo in cui non puoi evitare di considerare “le persone come pezzi sacrificabili in un gioco impossibile da vincere”, come ha scritto Sophie Gilbert su “Atlantic”?