
Se c’erano dubbi su cosa pensasse Bob Dylan di Timothée Chalamet che lo interpreta in A Complete Unknown, sono stati fugati il 4 dicembre, quando il leggendario premio Nobel 83enne ha dichiarato su X, «Timmy è un attore geniale, quindi sono sicuro che sarà assolutamente credibile nei miei panni. O nei panni di un me più giovane. O di qualche altro me».
Qualunque versione Chalamet porterà sullo schermo – in realtà una combinazione di tutte e tre – sarà frutto di un’accurata preparazione. L’attore, 28 anni, si è immerso nel mondo di Dylan fin dal 2019, quando ha iniziato a lavorare al progetto.
Nei cinque anni trascorsi, segnati da ritardi dovuti al COVID-19 e agli scioperi di Hollywood, Chalamet ha imparato autonomamente a suonare la chitarra e a cantare nello stile di Dylan. In Unknown, mette in mostra queste abilità con un effetto sorprendente. Il film, prodotto da Searchlight Pictures, si basa fortemente sul repertorio di Dylan, con Chalamet che interpreta brani iconici come Blowin’ in the Wind, The Times They Are A-Changin’ e Like a Rolling Stone.
Il risultato è un evento cinematografico di un genere particolare: una star del cinema che dà vita a un’icona musicale leggendaria di un’epoca passata.
Basato sul bestseller del 2015 Dylan Goes Electric! di Elijah Wald, il film esplora i primi – e sì, i più affascinanti – anni del fenomeno Dylan. La storia inizia con il suo misterioso arrivo a Manhattan nel 1961, a soli 19 anni, prosegue con la sua rapida ascesa a dio cantautore, e culmina con la controversa esibizione rock al Newport Folk Festival del 1965, che provocò quasi una rivolta tra il pubblico tradizionalmente compassato dell’evento.
Nel corso del racconto, il giovane trovatore attira le attenzioni di diverse donne, tra cui Suze Rotolo, fidanzata attivista ritratta con lui sulla copertina del suo album del 1963 The Freewheelin’ Bob Dylan. Nel film, il personaggio è leggermente romanzato, diventando Sylvie Rosso (interpretata da Elle Fanning), su richiesta dello stesso Dylan per la sceneggiatura. Un’altra figura centrale è Joan Baez, artista folk affermata, interpretata da Monica Barbaro (Top Gun: Maverick), che con questo ruolo si conferma un talento da tenere d’occhio.
Le tre star, insieme al regista James Mangold – già noto per il suo successo con il biopic su Johnny Cash del 2005, Walk the Line – si sono riunite con The Hollywood Reporter in una serata fredda e piovosa a Tribeca, New York. Durante il loro primo incontro di gruppo, hanno condiviso i dettagli del coinvolgente e talvolta estenuante viaggio per riportare in vita l’elettrizzante scena folk del Greenwich Village e l’inizio folgorante di un giovane talento arrivato dal Midwest.
Chi è il più grande fan di Bob Dylan nella stanza?
MONICA BARBARO: Credo Elle. E probabilmente Jim.
JAMES MANGOLD: Non lo ero fino a quando non ho fatto il film. Ero un fan, ma la vera super appassionata è Elle.
ELLE FANNING: Avevo i suoi poster sul muro e mi scrivevo il suo nome sulla mano ogni giorno, anche solo per fare la figa. Quando alle medie mi chiedevano: “Chi è?”, rispondevo: “Non lo sai?”. Ho lavorato con Cameron Crowe quando avevo 13 anni (We Bought a Zoo, 2011) e lui metteva un sacco di canzoni di Dylan, come Buckets of Rain. Lì è iniziato tutto.
MANGOLD: Mio padre ascoltava i suoi greatest hits nel Maggiolino. Mi piaceva, ma era un po’ la musica di mio padre. Io ero più per Bruce Springsteen e Tom Petty. Poi, al college, è uscito Infidels e l’ho ascoltato in loop. Non sognavo di fare un film su Bob Dylan, ma questa storia mi ha conquistato.
Timothée, nel film suoni la chitarra. Sapevi già suonare prima di A Complete Unknown?
TIMOTHÉE CHALAMET: Non proprio. C’è una scena in Chiamami col tuo nome in cui suono con il fingerpicking (Tecnica per suonare la chitarra direttamente pizzicando le corde con le dita invece che col plettro, n.d.r.). Ho imparato quella tecnica da un chitarrista heavy metal italiano. Ma per questo film ho avuto cinque anni per perfezionare la chitarra. Jim ha trovato un insegnante straordinario, Larry Saltzman, che ha lavorato anche con Meryl Streep in Ricki and the Flash. Larry è un grande fan di Dylan.
I cinque anni di preparazione sono stati in parte dovuti a ritardi. Sei contento di averli avuti?
CHALAMET: Ci stavo pensando proprio oggi. Abbiamo avuto tre pause: una per il COVID, poi l’estate di due anni fa per lo sciopero degli attori. Credo che Monica sia stata la più contenta ad avere un altro anno per prepararsi a interpretare Joan. Poi finalmente ci siamo messi in moto. Non so se avrò mai più così tanto tempo per lavorare su qualcosa in anticipo.
MANGOLD: Quando abbiamo iniziato le riprese, la sua crescita musicale è stata esponenziale. È stato quasi miracoloso.

Camicia Celine, bracciali di perline; canotta Louis Vuitton; jeans Martine Rose, cintura. Styling di Chalamet di Taylor McNeill, Grooming di Jamie Taylor Direttore artistico e di moda Alison Edmond Foto di Paola Kudacki
Qual è il tuo background musicale, Monica?
BARBARO: Non cantavo, non suonavo la chitarra, niente. Quando Jim mi ha scritto la prima email per dirmi che avevo ottenuto il ruolo, sono andata fuori di testa. Sono corsa a comprarmi una chitarra, pensando di avere cinque mesi per prepararmi, e mi sono presa un colpo di panico. Ero assolutamente terrorizzata.
James, ti sei consultato con Dylan. Com’è stato parlare con il vero Bob Dylan del film che stavi girando sulla sua vita?
MANGOLD: È stato un piacere. Niente di misterioso, tipo: “Wow, è il Cappellaio Matto con sette maschere”. Aveva visto Copland, il mio secondo film, e aveva delle domande al riguardo. Gli piaceva Sylvester Stallone. Era davvero una persona normale.
La cosa più interessante emersa da quel periodo, oltre al via libera per il film, è stata che anche Bob era un po’ perplesso sugli eventi che raccontiamo nella pellicola. Non era così dogmatico riguardo al folk come si pensa. Amava il rock ‘n’ roll fin dall’inizio. Non è arrivato a New York per diventare esclusivamente un musicista folk; è semplicemente andata così. Mi identifico molto con il suo modo di non porsi mai limiti.
Rispecchia molto la tua carriera: hai fatto film così diversi che è impossibile etichettarti come un certo tipo di regista.
MANGOLD: Billy Wilder non ha girato una commedia fino al suo quindicesimo film. Io non mi sono nemmeno avvicinato ai quindici film eppure Wilder è conosciuto come un “regista comico”. Come se i registi dovessero per forza rappresentare un tipo di cinema. Ho sempre evitato questo. Forse perché il mio primo film, Heavy, parlava di un ragazzo solitario in una tavola calda dello stato di New York. Il secondo, Copland, era un poliziesco con tante star. Poi ho girato Ragazze interrotte, un film con tutte protagoniste femminili. A quel punto, nessuno sapeva chi fossi davvero, e in un certo senso pensavo fosse fantastico.
Monica ed Elle, cosa scopriamo su Bob Dylan in questo film riguardo al suo modo di relazionarsi e trattare le donne? È stato un uomo che ha trattato bene le donne?
FANNING: Suze era molto attiva politicamente e ha introdotto Bob in quell’ambiente. Lui non era così interessato alla politica prima di incontrarla. Lei lo conosceva come il ragazzo del Minnesota, prima dello sfarzo, della fama e dell’acconciatura stramba. Bob non è stato sempre il più gentile con lei, ma lei ha tollerato certi suoi comportamenti. Volevo rendere onore a quello che avevano, perché il primo amore è così prezioso e penso che tutti possano capirlo. Suze aveva un vero senso di potere e concretezza.
MANGOLD: Elle aveva un compito super difficile, perché non aveva la “scorciatoia” della chitarra o della musica. Era l’unica “civile” in mezzo a quella folla, ma ha saputo farci entrare in empatia con il suo personaggio. Ha dato a Suze una dignità incredibile, mostrando come fosse lei a ispirare Bob, a dargli idee per le canzoni e a incoraggiarlo a cantare la sua musica invece di fare solo cover.

Elle, a sinistra, camicetta Valentino, slip top, gonna. Capelli di Alissa Frum, trucco di Tyron Machhausen Monica, a destra, abito ricamato Dior; body Wolford; anello Bulgari. Capelli di Jacob Rosenberg, trucco di Samantha Lau Direttore artistico e di moda Alison Edmond Foto di Paola Kudacki
Timothée, è vero che sul set ti chiamavano “Bob” e che restavi nel personaggio anche tra una ripresa e l’altra?
CHALAMET: No. Non direi di no [a essere chiamato “Bob” sul set], ma non capisco qual è la domanda?
Fammi capire come hai ragionato, in relazione a quello che sembra essere stato un impegno ossessivo nell’interpretare Dylan.
CHALAMET: È il ruolo in cui mi sono spinto più lontano. La vita e il lavoro di Dylan sono diventati così “biblici” per me che sentivo che, se avessi abbassato la concentrazione anche solo per un secondo, me ne sarei pentito per anni. Avevo tre mesi per essere Bob Dylan; il resto della mia vita non potrò esserlo. Quindi, perché non dare il massimo?
MANGOLD: Posso dire una cosa? Tutto questo parlare di Dovevano chiamarti tutti Bob? mi fa arrabbiare. Non è ossessivo! Se fossi l’allenatore di una squadra di baseball e avessimo un lanciatore alle fottute World Series, vorrei che andasse in giro per i corridoi con cento persone che gli urlano “Orel” (Hershiser)? No! Lo voglio completamente concentrato. Lo voglio focalizzato sulla sua palla veloce. Lo voglio concentrato sul suo lavoro. Siamo qui per fare un dannato film su un personaggio e su tutta la marea di giudizi che si abbatteranno sulle spalle di quel giovane attore. Qualsiasi livello di concentrazione sia necessario per questo, secondo me, dovrebbe essere rispettato, non definito “ossessivo”. Si chiama fare il proprio dannato lavoro. Questo è il mio parere.

Chalamet nei panni di Dylan con Fanning, che interpreta una versione romanzata della fidanzata attivista e musa iniziale Suze Rotolo. Per gentile concessione di Searchlight Pictures
Non intendevo essere affatto denigratorio.
MANGOLD: No, lo so, ma ci siamo passati tutti.
FANNING: Normalmente i primi assistenti alla regia e gli altri sul set ti chiamano sempre con il nome del tuo personaggio, perché è quello che c’è nella lista delle chiamate.
CHALAMET: Di solito ti chiamano con il nome del tuo personaggio, ma tutta quella storia del metodo Stanislavskij non è stato il mio approccio a questo ruolo. Ci sono cose che evito intenzionalmente, come l’uso del cellulare o altri elementi chiaramente contemporanei che potrebbero distrarmi. Ma il metodo Stanislavskij non era il mio modus operandi. Ho capito quanto fosse divertente quando Elle mi ha preso da parte e mi ha detto: «Mi hanno detto che avevo una prova con Bob. Ero così emozionata, pensavo che stesse arrivando Bob Dylan, e invece c’eri tu, Timmy». Kid Cudi è sempre stato il mio artista preferito, e all’improvviso sono diventato profondamente ossessionato, un fan, e commosso dalla musica di qualcun altro. Mi è stato affidato il compito di interpretarlo, quindi l’ossessione che avevo per un artista si è spostata su un altro. È così che mi sono sentito, in termini di responsabilità.
Nel film fumi molto. Erano sigarette vere o di scena?
CHALAMET: Entrambe. In Don’t Look Back, Bob legge su un ritaglio di giornale che parla di lui. Dice: «Fumando pesantemente una sigaretta, ne fuma circa 80 al giorno». Poi aggiunge: «Grazie a Dio non sono io».
MANGOLD: È semplicemente sparito. Ha avuto quegli incontri con me sulla sceneggiatura, poi ha fatto il suo tour e le sue cose.
Che tipo di coinvolgimento ha Dylan nella promozione di questo film, se ce l’ha? Sarà alla premiere?
MANGOLD: Non ne ho idea. Chiediglielo. [Nota dell’editore: Dylan ha saltato la premiere del 10 dicembre a Los Angeles.] Penso che Bob abbia fatto un ottimo lavoro nel proteggere la sua concentrazione per tutta la vita. E questo è tutto quello che direi.
Se lo incontri, Timothée, cosa pensi che gli dirai?
CHALAMET: «Grazie». È quello che ho detto a Kid Cudi quando l’ho incontrato. Solo «Grazie». Niente a che fare con il film, solo ammirazione per una persona che ti ha emozionato con il suo lavoro.

Giacca finta Chloe, abito in chiffon; anello Bulgari. Capelli di Jacob Rosenberg, trucco di Samantha Lau Direttore artistico e di moda Alison Edmond. Foto di Paola Kudacki
BARBARO: Sì. È stato un momento divertente, continuavo a cercare di sventolare bandiera bianca e dire: «Questo è tutto fatto per rispetto. E sì, sto cantando come te, ma non potrei mai essere te». Fare tutto quel balletto. E lei fa tipo: «Sono solo fuori ad ascoltare gli uccellini». Lei è Joan. Non è così preoccupata di proteggere [la sua eredità] o di controllarla. Ha ceduto le sue canzoni [al film], tutti i suoi arrangiamenti. Lei e Bob sono un po’ simili, nel senso che non sono ossessionati dal dettare questa idea di chi sono e chi erano. Sono sotto gli occhi del pubblico da così tanto tempo.
MANGOLD: È un film su qualcosa che è successo tanto tempo fa. È quasi la loro infanzia. Stiamo parlando di ventenni, delle relazioni turbolente di un gruppo di persone sui vent’anni.
BARBARO: Potrebbero uscire allo scoperto e dire: «Questo film fa schifo. Non mi assomiglia per niente.» Non hai idea di cosa succederà. E sono persone che si fanno sentire, quindi chissà?
MANGOLD: Grazie, Monica!
BARBARO: Ci ho pensato ogni giorno mentre cercavo di cantare come Joan. Penso che ora ci siano più possibilità che la loro musica arrivi alle nuove generazioni.
MANGOLD: A parte il film, c’è un argomento davvero interessante da esplorare sul potere e la bellezza di questa musica – la sua semplicità, la mancanza di sovrapproduzione e il non coinvolgimento delle case discografiche. Non sembrava un prodotto. Penso che Walk the Line abbia rinnovato l’immagine di Johnny Cash, passando dal vecchio che faceva la cover di “Hurt” dei Nine Inch Nails al giovane e carismatico ribelle che era quando è diventato famoso.
MANGOLD: Abbiamo venduto un sacco di dischi di Johnny Cash, questo è sicuro. Quello che mi interessa sempre è demistificare quell’immagine che li trasforma quasi in eroi Marvel. Cosa c’è sotto? Come ci sono arrivati? È successo un insieme di eventi e improvvisamente hanno potere, ma non necessariamente vogliono tutto ciò che è venuto con il loro successo. Non hai mai sognato di essere la “voce di una generazione”? Ti identifichi con questo, Timothée? Questa idea di avere tutto questo addosso, che non stavi necessariamente cercando?
CHALAMET: Sì e no. Come attore, i tuoi ruoli cambiano da progetto a progetto. Le persone la cui musica è celebrata, quella è una cosa diversa. La metafora più vicina a cui riesco a pensare nel cinema è se scrivi, dirigi e reciti nel tuo progetto.
Mi riferisco più alla sua fama. C’è una scena in cui Bob entra in un bar per ascoltare un po’ di musica folk irlandese e scoppia una mini rivolta. È una scena tesa, spaventosa. Ho visto dei parallelismi con te, che hai partecipato al tuo concorso dei sosia recentemente a Washington Square Park. Perché ci sei andato?
CHALAMET: Volevo vedere chi aveva la stoffa. Il modo in cui Dylan ha giocato con la sua fama è così controintuitivo, soprattutto nel 2024. All’inizio degli anni ’60, è uscito questo profilo su Newsweek in cui avevano contattato la sua famiglia, e lui si era inventato una storia sul fatto di essere del New Mexico. Non ha più rilasciato un’intervista diretta. Il modo in cui si è comportato rispetto alla fama mi lascia a bocca aperta.
Dylan ha anche rifiutato di essere una figura politica, anche se le sue canzoni sono diventate inni politici.

Chalamet con Barbaro nei panni di una giovane Joan Baez. “Tutto questo è fatto per rispetto”, dice l’attrice di aver assicurato alla cantante mentre faceva ricerche per il ruolo. Per gentile concessione di Searchlight Pictures
MANGOLD: Ci sono solo poche canzoni in cui cita un crimine specifico contro l’umanità. La maggior parte è un po’ come: “La risposta, amico mio, soffia nel vento.” È geniale, perché parlava a tutti, indipendentemente da quale parte fossero, su come trovare un terreno comune o delle risposte – invece di prescrivere quali sono le risposte.

Dolcevita Louis Vuitton. Capelli di Alissa Frum, trucco di Tyron Machhausen Direttore artistico e della moda Alison Edmond. Foto di Paola Kudacki
Il culmine del film è una quasi rivolta a un festival folk, tutto perché Bob Dylan voleva semplicemente suonare la chitarra elettrica. Viviamo in un’epoca in cui i generi si fondono l’uno con l’altro e la musica di successo viene fatta sui computer portatili. Come lo interpreterà la Generazione Z?
CHALAMET: Bob potrebbe parlarne perché è vivo e vegeto a Malibu, ma la mia interpretazione è che la musica folk era quasi come una texture per lui. Voleva essere come Buddy Holly, Little Richard o Elvis. Quella strada non era aperta per lui, così ha trovato la musica folk, che all’epoca era spesso incentrata sul songwriting di attualità. E a un certo punto, è tornato alla texture originale che gli piaceva, che era questo stile rock’n’roll che i Beatles e molte band rock britanniche stavano rendendo popolare.
MANGOLD: Era l’headliner della scena folk. Se avesse lasciato quel genere musicale, improvvisamente non avevano più un re. Penso che sia davvero interessante, ma anche un po’ disperato, che non riconoscessero che fosse una benedizione che questo ragazzo avesse portato tutto questo nel loro mondo. Si aspettavano che rimanesse per una sorta di dovere. Quindi i suoi album sono nel rock invece che nel folk. E allora? Si trattava di territorio e tribalismo. Mi ha fatto pensare a Beyoncé che si dà al country. È stata un’evoluzione artistica, una dichiarazione politica, e ha fatto storcere il naso a molta gente. Ma molte persone l’hanno anche apprezzata.
Mi ha fatto pensare a Beyoncé che si è dedicata alla musica country. È stata un’evoluzione artistica, una dichiarazione politica, e ha fatto storcere il naso a molte persone. Ma molte persone l’hanno anche abbracciata.
BARBARO: Sono andata a un suo concerto una volta e ricordo che c’è stato un momento molto lungo, silenzioso e bello in cui ha detto: «Grazie per avermi permesso di evolvermi». E questo mi è rimasto impresso per sempre.
Com’è stato vedere il film per la prima volta, Timothée? Ti è piaciuto quello che hai visto?
CHALAMET: Certo, profondamente. Ero onorato e mi ritengo davvero fortunato di aver avuto l’opportunità di portare questo progetto in vita. Perché nulla è scontato. Nessuna opportunità è garantita. Nessuna carriera è garantita. Ne ho parlato molto con Edward Norton [che interpreta Pete Seeger nel film]: il privilegio di lavorare su qualcosa in cui ogni giorno — che si trattasse di ascoltare i musicisti che stavamo interpretando, o quelli che li avevano ispirati, o di leggere gli autori che li avevano influenzati — impari di più su te stesso.

Cappotto Celine, camicia; carte da gioco Cartier. Styling di Chalamet di Taylor McNeill, Grooming di Jamie Taylor Direttore artistico e della moda Alison Edmond Foto di Paola Kudacki
This content was entirely crafted by Human Nature THR-Roma
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma