
The Ugly Stepsister, l’opera prima di Emilie Blichtfeldt – presentata in anteprima al Sundance e proiettata nella sezione Panorama alla Berlinale – rivisita la famosa fiaba di Cenerentola dal punto di vista di una delle sorellastre e della sua orribile ricerca per raggiungere la bellezza che considera fondamentale per vivere l’amore e accettarsi.
Traendo ispirazione in egual misura dai fratelli Grimm – la cui versione di Cenerentola include le sorellastre che si mutilarono i piedi per adattarsi alla famosa scarpetta e ingannare il principe – e dallo splatter di David Cronenberg, il film di Blichtfeldt è un’altra opera che si aggiunge alla nuova ondata di body horror femminista che va tanto di moda, perfettamente in linea con un film come The Substance di Coralie Fargeat.
Al posto delle iniezioni high-tech in stile Ozymepic a cui Demi Moore si sottopone nel film di Fargeat, qui abbiamo un parassita low-tech, sotto forma di un uovo di tenia che la sorellastra Elvira (Lea Myren) ingoia per dimagrire. “Quando Elvira mangia l’uovo – dice la regista – è una metafora per l’interiorizzazione di quello sguardo oggettivante. Quel verme dentro di lei la divora, sia metaforicamente che fisicamente”.
Blichtfeldt ha raccontato a The Hollywood Reporter come ha trasformato il mito di Cenerentola in un racconto body horror, dei minuziosi effetti speciali pratici che ha usato per “ottenere lo splatter perfetto” e del perché pensa che la sua interpretazione, piuttosto che quella della Disney, abbia un fascino universale. “Di Cenerentola ce n’è solo una – afferma – Il resto di noi rappresenta la sorellastra brutta, che lotta per entrare nella scarpetta”.
Con quale versione di Cenerentola sei cresciuta?
Sono cresciuta in una casa nel nord della Norvegia, dove la strada finisce all’orizzonte, un posto molto isolato. E i miei genitori erano appassionati di libri. Abbiamo preso un lettore VHS/DVD quando avevo 13 anni, ed è stata la prima volta che ho iniziato a guardare film. Prima di allora, si trattava solo di libri. Avevamo una TV con un canale che non funzionava se c’era brutto tempo. Ma ogni Natale, comunque non ci perdevamo il film di Cenerentola, una versione ceca. Una vera e propria tradizione. Si intitola: Tre nocciole per Cenerentola (1973). Non so quanti anni avessi quando ho iniziato a guardarlo, ma ricordo di averlo visto con i miei fratelli quando ero preadolescente e l’ho trovato semplicemente magico. È divertente, così reale e irreale allo stesso tempo. Adoro il cinema fiabesco dell’Europa orientale di quel periodo. Non è una fiaba in stile Disney, dove tutto è frutto della fantasia. Avevo anche un libro, che in effetti penso abbia avuto un grande impatto su di me, la versione dei fratelli Grimm di Cenerentola, uno dei primi libri che ho letto da bambina. L’ho ritrovato qualche anno fa, dopo aver avuto l’idea per questo film, e c’è questa immagine molto forte: una delle sorelle è a cavallo con il principe e indossa la scarpetta, e ci sono grosse gocce di sangue che cadono dalla scarpa. È un’immagine che non sono mai riuscita a togliermi dalla testa.
Da dove è nata l’idea di capovolgere la sceneggiatura della storia e raccontare Cenerentola dal punto di vista della sorellastra brutta?
Sono sempre stata molto affascinata dalle donne che hanno problemi con la propria immagine corporea e che lottano per adattarsi alla femminilità. Nei miei lavori precedenti, ho cercato di mostrare questi personaggi, con i quali puoi entrare in empatia, ma anche vederli nella loro bellezza fuori dai soliti canoni.
Stavo facendo uno dei miei pisolini creativi, e improvvisamente ho avuto una visione: il personaggio di uno dei miei cortometraggi, Sarah, una donna [alta 1,80 m] corpulenta e bellissima, vestita da Cenerentola aspetta il principe. Così lei infila la scarpetta, che le sta perfettamente, e scappa via. Il principe la solleva sul cavallo come se non pesasse nulla, e poi iniziano a cavalcare. Poi lei guarda in basso e la scarpa è piena di sangue. In quel momento si rende conto che non è Cenerentola, bensì la sorellastra, che pur di entrare nella scarpa si è tagliata le dita dei piedi. Mi sono svegliata e ho capito: quella sono io. Sono la sorellastra brutta. Non solo perché porto anch’io scarpe di taglia 44, ma perché anche io desidero ardentemente adattarmi a questa forma idealizzata di femminilità. È impossibile adattarsi, ma il desiderio è così grande. Perché stai cercando di essere amata, capisci? Ma c’è solo una Cenerentola. Il resto di noi è semplicemente la sorellastra brutta, che lotta per entrare nella scarpa. Da quel momento ho saputo che questo sarebbe stato il mio primo lungometraggio.

La regista di ‘The Ugly Stepsister’ Emilie Blichfeldt con la protagonista Lea Myren. Foto @ Lukasz Bak, Courtesy of Shudder
È interessante notare che nel tuo film, pur cambiando il punto di vista, ti attieni abbastanza fedelmente agli eventi della fiaba.
Mi sono presa la libertà di combinare diverse versioni di Cenerentola. Quella dei fratelli Grimm descrive le sorelle come belle all’esterno e brutte all’interno. Poi c’è la versione di Charles Perrault, quella francese, da cui ha attinto la Disney. La Disney ha aggiunto l’idea di collegare la bellezza e la gentilezza da un lato e la bruttezza fisica e interiore dall’altro. Questo c’era già nelle fiabe, con le streghe e i loro nasi grandi, ma la Disney lo rende davvero evidente.
Ma Cenerentola è una fiaba, quindi non esiste una versione originale. La domanda per me era: qual è la mia prospettiva su questo? Era davvero importante per me rendere la sorellastra un personaggio tridimensionale, non solo un archetipo. Ho pensato: e se incontrassimo la persona reale dietro questo archetipo? Era anche importante per me non trasformarla in una nuova Cenerentola, ovvero che diventasse lei quella gentile e l’altra la cattiva, cè un film americano [Confessioni di un’Ugly Stepsister del 2002] che presenta la sorellastra proprio così: come una ragazza incompresa, ma in realtà molto buona. Per me era importante che Elvira, la sorellastra, fosse davvero quella descritta nella fiaba.
Il personaggio più difficile da inserire in questo mondo tridimensionale, paradossalmente, è stato proprio Cenerentola. Volevo che anche lei fosse una figura complessa. A un certo punto ho trovato una frase che è stata la chiave per sbloccare il suo personaggio: a Cenerentola tutto viene naturale, la sua bellezza, le sue emozioni, la sua gentilezza verso gli animali. È una persona spontanea. Ed Elvira non lo è. Tutto è difficile per Elvira. Penso che tutti noi possiamo identificarci con questa difficoltà. Tutti noi abbiamo quegli amici che ci sembrano sempre al posto giusto e per i quali tutto sembra semplice.
L’idea fin dall’inizio era quella di farne un film horror, e per di più un body horror?
Più o meno nello stesso periodo in cui ho avuto l’idea, ho scoperto David Cronenberg, il che è stato un grosso problema per me. Ero alla scuola di cinema e stavo lottando. Avevo questo tema, avevo questa voce e questo punto di vista, ma non sapevo quale film avrei fatto, quale doveva essere il mio stile e il mio gusto. Poi, durante le vacanze di Natale, mi sono imbattuta in Crash (1996) di Cronenberg, appunto, sulla TV nazionale norvegese, e sono rimasta istintivamente molto colpita e incuriosita. Non sono mai stata in grado di guardare film horror. Non sopporto gli stacchi di montaggio che ti fanno saltare sulla sedia, ho paura del buio, non frequento i parchi di divertimento. Ma c’era qualcosa nel body horror che era così intrigante…
Immergendomi nell’intera filmografia di Cronenberg, ho iniziato a vedere come questo fosse un elemento che volevo usare nelle mie storie. Il suo stile era così legato ai temi a me cari, perché parlava di persone nei corpi, di persone con corpi reali con cui dovevano confrontarsi. E come pubblico, ci relazioniamo a questi personaggi attraverso le loro esperienze corporee. Poi c’è il livello ancora più profondo, dove queste esperienze corporee sono piene di metafore e profonde idee filosofiche. Cronenberg è folle a quel livello. Ho pensato: quanto sarebbe bello raccontare una storia del genere con uno dei miei personaggi? Anche la versione dei fratelli Grimm di Cenerentola è body horror. Ma volevo essere sicura che ogni pezzo di splatter nel mio film non fosse lì solo per lo splatter, ma che contenesse queste idee, queste metafore, che erano così interessanti e importanti per me.

Dietro le quinte di ‘The Ugly Stepsister’. Foto per gentile concessione di IFC
Lo splatter nel tuo film, come quello di Cronenberg, sembra molto viscerale. Sono tutti effetti speciali artigianali?
Sì. Sono anche una grande fan di Dario Argento e del suo body horror. C’è qualcosa negli effetti speciali artigianali, qualcosa in un effetto che in realtà sembra un po’ falso o un po’ sbagliato, che li fa sembrare più reali o più spaventosi.
Qual è stata la scena più difficile da girare, dal punto di vista degli effetti speciali?
Questo è un lungometraggio d’esordio realizzato con finanziamenti europei, quindi c’è un limite al budget che si può ottenere. C’erano vincoli economici e avevamo una tabella di marcia molto serrata. Ma sapevo che non potevo fare un film body horror e avere uno splatter di merda.
Così abbiamo usato un’intera giornata, 12 ore, per la scena in cui Elvira si taglia le dita dei piedi. Abbiamo usato un’intera giornata per la scena in cui vomita il verme. Avevamo queste scene storyboardate molto precisamente per assicurarci di avere il materiale pratico di cui avevamo bisogno, ma tutto richiede comunque così tanto tempo. Penso di aver buttato via metà dello storyboard quel giorno, ripensando, ripensando a cosa fosse possibile. Ci sono alcuni effetti speciali nel film e sono stata molto fortunata a lavorare con un leggendario professionista come Peter Hjorth, che si occupa di tutti i film di Lars von Trier.
Il tuo film decostruisce il mito della bellezza o il mito di Cenerentola? Pensi che possa avere un impatto sul modo in cui le giovani donne vedono queste storie?
Lo spero! È per questo che faccio film, per raggiungere un pubblico e avere un impatto su di loro. Ma si può scegliere cosa trarne. C’è una morale in questo film, ma non è moralista. Io adoro anche quei costumi! Dopo il body horror, la cosa che mi è piaciuta di più di questo film è stata lavorare sui costumi. Ho passato due anni a fare ricerche, andando al Victoria Albert Museum of design di Londra e immergendomi nella storia della moda.
Ci sono così tanti aspetti delle fiabe che sono attraenti e penso che queste storie siano incredibili, ma voglio anche decostruirne alcuni aspetti. Ad esempio, perché diamo valore al nostro aspetto e alla nostra apparenza, a tal punto, perché ci consideriamo come oggetti?
A metà del film, un personaggio dice a Elvira che “è l’interno che conta”, ma che lei è coraggiosa perché sta cambiando il suo esterno per farlo corrispondere a ciò che c’è dentro. Penso che questo sia il linguaggio che lucra sulle nostre insicurezze. La vera bellezza può risiedere all’interno, ma il vero valore che diamo alle persone si basa sul loro aspetto esteriore. Quando Elvira mangia l’uovo, è una metafora dell’interiorizzazione di quello sguardo oggettivante. Quel verme dentro di lei la divora, sia metaforicamente che fisicamente.
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