
A fare un film dall’Odissea, ci pensava da almeno trent’anni, dice Uberto Pasolini. E da almeno quindici ne discuteva con il suo amico Ralph Fiennes, che di quell’idea era entusiasta. Ma che ha effettivamente interpretato Itaca. Il ritorno soltanto quindici anni dopo la loro prima chiacchierata.
È stato meglio così”, dice Uberto Pasolini. “Ralph sarebbe stato un Ulisse troppo giovane, per il personaggio che avevo in mente. Preferisco aver lavorato con il Ralph di oggi”. Ovvero, un Fiennes sessantenne. In ottima forma fisica, rivela Pasolini – ma con addosso tutti i segni del tempo. È un Ulisse muscolare e patibolare, con le vene che corrono sui bicipiti e le rughe che corrono sul viso.
Nel film – presentato lo scorso settembre al Toronto Film Festival, poi alla Festa del cinema di Roma, dal 30 gennaio nelle sale italiane – vediamo un Ulisse divorato dal senso di colpa: per aver lasciato moglie e figlio nel limbo dell’attesa, soli ed esposti alla mascolinità tossica dei proci. È un Ulisse diverso da tutti quelli che, al cinema o in tv, abbiamo visto sinora.
Sessantotto anni a maggio, pronipote di Luchino Visconti, Uberto Pasolini, dopo essersi presentato al panorama internazionale come produttore di Full Monty, nel 1997, si è rivelato come regista originale con Machan – La vera storia di una falsa squadra, che sorprese tutti a Venezia 2008. Sono seguiti Still Life, premio Orizzonti per la regia a Venezia 2013, e Nowhere Special – Una storia d’amore, che ebbe la prima mondiale a Venezia nel 2020. Film apparentemente molto lontani da Itaca. Ma vedremo che le connessioni, con i suoi precedenti lavori, ci sono. È lui stesso a parlarne, nell’incontro che abbiamo con lui per THR Roma.
Trent’anni sognando Ulisse. Che cosa la interessava del personaggio?
L’aspetto che racconto è un aspetto che nell’Odissea esiste, anche se tendiamo a ricordare più, del poema di Omero, il lato fantastico e avventuroso dei viaggi. A me interessava il viaggio psicologico: non solo quello di Ulisse, ma anche quello di Penelope, che vive sola per vent’anni e che, per vent’anni, decide di aspettare.
In che cosa lo sente vicino?
Anche io sono qualcuno che se n’è andato, a lungo, e che per inseguire il lavoro – in Thailandia, Sri Lanka, ovunque – ha trascurato la famiglia e gli affetti.
È un Ulisse ferito nell’anima…
Ulisse è un veterano che torna distrutto psicologicamente. Dalla guerra, da quello che ha fatto, da quello che ha visto fare. Mi aveva colpito una pagina di Omero: Ulisse ascolta il cantore dei Feaci che racconta le sue imprese. E si mette a piangere. È lì che è scattato tutto, per me. Omero è grande perché rappresenta l’umanità sconfitta, dubbiosa. E in questo è molto moderno.
Anche Penelope è molto moderna, meno passiva di quello che ci potremmo aspettare.
Quello che mi interessava era la sua forza interiore. Mentre Ulisse è debole, chiuso in sé stesso, Penelope è una donna forte. La nostra è una Penelope femminista. È lei che decide di aspettare, che decide di imporre la prova dell’arco, è lei che decide di riconoscerlo. È questo l’aspetto che è piaciuto a Juliette, nell’accettare il ruolo.
Telemaco è un figlio fragile, soffre più di tutti l’assenza del padre.
Il nostro Telemaco ha un rapporto difficile con un padre ingombrante anche nella sua assenza: e un rapporto conflittuale con la madre, di cui non si fida. Una psicologia complessa, che abbiamo cercato di restituire.
A Telemaco, Ulisse dice “non sono nessuno”. Ma è un Nessuno diverso da quello che inganna Polifemo…
In quel caso, è davvero un nessuno. Una persona che ha perduto completamente il senso di sé. E forse solo alla fine di questa storia riuscirà a ritrovare sé stesso.
Nel lavoro preparatorio, ha letto molte biografie di reduci da guerre contemporanee, in particolare dalla guerra del Vietnam. Mi sono venute alla mente – vedendo il film – le atmosfere del Cacciatore di Michael Cimino…
Non è un caso, perché Il cacciatore parlava della difficoltà del reduce di reintegrarsi nella società civile. Ed è uno dei temi del nostro film. Io non solo ho letto, ma ho anche rubato certe battute di soldati che raccontavano il loro ritorno dal Vietnam.
Della guerra si racconta la vergogna. Ulisse è come se si vergognasse di aver combattuto.
Quello che è il motivo della sua gloria, la distruzione di Troia, per lui è un momento tragico, di violenza, stupri delle donne, distruzione di una civiltà. Il suo viaggio è un tentativo di dimenticare ciò che ha fatto. Di ritrovare sé stesso, di riconoscersi, di accettarsi.
Che cosa accomuna Itaca ai suoi film precedenti? Penso a Still Life e a Nowhere Special.
La responsabilità: quella che in Still Life era per la società, in Nwohere Special per il figlio, e qui per la famiglia e per i suoi sudditi, che Ulisse ha abbandonato.
Ha lavorato, per la colonna sonora, insieme alla sua ex moglie Rachel Portman, che è anche la madre delle sue tre figlie. Ma andate ancora d’accordo?
D’accordissimo! Non viviamo insieme, ma riusciamo ad essere molto in sintonia sia nel rapporto con le figlie, sia nel lavoro. Rachel è una straordinaria musicista, premio Oscar per la colonna sonora di Emma. Per Itaca, volevo che la musica fosse usata in modo ‘classico’, senza quei tappeti sonori onnipresenti che sembrano dire allo spettatore: io, regista, non mi fido che tu capisca, voglio obbligarti a certe emozioni con la musica. Non capisco i film allagati di musica. Eppure, a volte, ci cadono anche i grandissimi registi.
I costumi. Sono molto essenziali, quasi come se non avesse voluto caratterizzare il periodo…
E in effetti è così. Non sappiamo come si vestissero, ai tempi in cui Omero ambienta le vicende dell’Odissea. Ma volevo quel senso di povertà, di semplicità che è in certe ‘vesti’ universali, in certi stracci che immagino abbiano coperto i corpi dell’uomo nell’Itaca omerica, così come nel Medioevo, ma anche in certi posti dell’Africa, oggi, o dell’Italia centocinquant’anni fa.
Fra gli ammiratori del suo film c’è Paul Schrader, lo sceneggiatore di Taxi Driver. Com’è andata?
Aveva fatto un commento sul mio profilo Instagram: aveva dichiarato di amare molto il film, e si chiedeva quali effetti speciali avessi usato con Ralph Fiennes…
Già. Fiennes che lavoro fisico ha fatto, per esibire quei muscoli?
È molto fiero del fatto che non ci sia neppure un fotogramma di CGI. Il fisico che si vede sullo schermo è tutto suo: ottenuto con cinque mesi di palestra e di diete ferree.
Ha avuto voglia di raccontare al cinema un altro ritorno, però ambientato in Italia?
Vorrei fare un film su un altro ritorno, un ritorno in Italia, anzi in Romagna. Ho vissuto molto con la mia famiglia in Romagna, e il film che ho scritto parla dell’importanza delle radici per una persona che è stata molto tempo fuori. Il personaggio della sceneggiatura che ho scritto è stato lontano dall’Italia da una ventina d’anni, e vuole ricucire una vita interrotta.
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