A Complete Unknown: un elettrico Timothée Chalamet eleva il biopic su Bob Dylan di Mangold al di sopra delle sue pecche

Anche Edward Norton, Elle Fanning e Monica Barbaro brillano in questo ritratto della scena folk del Greenwich Village dei primi anni Sessanta e delle frizioni provocate dalla rinuncia di Dylan alle sue radici acustiche

In Walk the Line, l’avvincente resoconto del 2005 di come Johnny Cash trovò la sua musica e l’amore della sua vita in June Carter, attori di alto calibro e intermezzi musicali coinvolgenti hanno contribuito a dare slancio a un approccio tradizionale al bio-dramma che ha levigato molte delle complessità del leggendario Men in Black. Anche il nuovo film di James Mangold, A Complete Unknown, segue una strada simile per passare in rassegna l’ascesa di Bob Dylan dal panorama musicale folk del Greenwich Village dei primi anni Sessanta. Il film presenta punti di forza molto simili, ma anche punti deboli diversi, anche se l’interpretazione elettrizzante – sotto ogni punto di vista – del protagonista,  Timothée Chalamet, non appartiene ai secondi. 

Tutti i fan di Dylan o chiunque sia appassionato di musica prodotta a New York City nella prima metà di quel decennio tumultuoso proverà grande piacere nel film messo sapientemente insieme da Mangold. La ricostruzione di quel periodo è impeccabile, le molteplici performance musicali non potrebbero essere più travolgenti, e beneficiano delle interpretazioni di attori di primo piano che cantano con pregevole smalto. 

A Complete Unknown

Ciò vale anche per Chalamet che si cala nelle canzoni di Dylan. La sua voce – rozza, nasale, ruvida ma piena di passione, rabbia e pungente saggezza – è abbastanza vicina all’originale da essere inconfondibile, eppure colorata dall’identità dell’attore a un livello che suggerisce qualcosa di più vicino alla simbiosi che all’impersonificazione. 

Naturalmente, Chalamet ha fatto un esame pressoché autoptico per trovare una connessione con i versi e i pensieri intimi del cantautore quando li componeva. Ci sono ovvi paralleli anche con la rapida fama conquistata in giovane età da entrambi gli artisti. Si tratta di una performance trasformativa, di sicuro la migliore di Chalamet da Chiamami con il tuo nome. In modo encomiabile, né il film né l’attore hanno edulcorato l’abrasività di un genio creativo la cui insensibilità nei confronti delle persone a lui più vicine ha contrastato spesso molto con la ricchezza umana delle sue canzoni. 

Edward Norton — ricordandoci che splendido attore completo sia – opera una magia simile con la musica di Pete Seeger. Interpreta  il precursore folk che strimpella il banjo con calma imperturbabile, un calore bonario e generosità d’animo, tutte caratteristiche che impregnano il suo modo di cantare. Ciò vale addirittura quando si lancia in performance improvvisate di “This Land is Your Land” del suo amico Woodie Guthrie sui gradini del tribunale subito dopo essere stato condannato in un caso di oltraggio al Congresso per essersi rifiutato di rispondere alle domande dell’House Un-American Activities Committee.

L’egocentrismo di quest’uomo di coscienza gli permette di mostrare gioia autentica per il successo del giovane Dylan, anche se eclissa il suo, e la sua risposta pressoché muta a quello che molti interpreterebbero come un tradimento ci fa condividere con lui l’amarezza. 

In un ruolo minore, Boyd Holbrook riproduce il ruvido basso baritono di Johnny Cast in un periodo in cui il suo sound era tanto rock’n’roll quanto country. Riesce anche a cogliere la frastagliata mascolinità e l’essenza fuorilegge di un uomo viste in modo indelebile attraverso il prisma auto-mitizzante delle sue canzoni. L’amicizia di Johnny e Bob nasce dall’ammirazione di quest’ultimo per lui, consumato artista musicale sotto i riflettori dalla fine degli anni Cinquanta, che egli sembra considerare uno spirito ribelle affine. 

La grande sorpresa tra i protagonisti del gruppo è la relativamente nuova arrivata Monica Barbaro (Top Gun: Maverick) nella parte di Joan Baez. Star già affermata prima dell’arrivo di Dylan, Baez usò la sua piattaforma per contribuire a lanciare la sua carriera. Barbaro canta con la voce di un angelo, ricca, chiara ed espressiva. Infonde al suo personaggio la radiosa consapevolezza di sé di una donna che non perde mai di vista chi è, anche quando – o forse soprattutto quando – cade in una relazione insoddisfacente con Bob. 

I duetti di Barbaro e Chalamet sono tra i momenti musicali di maggior spicco, non ultimo perché Joan trasmette tanta gioia nel suo rapporto sia con Bob sia con il pubblico. Al contrario, la partecipazione di lui diventa sempre più rigorosa e mette alla prova la tolleranza di lei. Chiunque abbia visto l’intimo documentario del 2023 su Baez, I Am a Noise, proverà familiarità con l’ambivalenza della regina del folk rispetto al tempo che trascorse con Dylan, malgrado l’ammissione che le canzoni di quest’ultimo dettero ai suoi contenuti un nuovo focus più politico. 

Resta da capire se un biopic autorizzato, del cui team di produzione ha fatto parte Jeff Rosen, a lungo il rappresentante ufficiale di Dylan, sorvolerebbe sui tratti più spinosi del soggetto. Va detto, a merito dei cineasti, che non è affatto così. 

“Sei una testa di cazzo, Bob” gli dice Joan quando lui la informa senza mezzi termini che lei si sforza troppo quando scrive, e liquida i suoi brani come “i quadri appesi nello studio di un dentista”. “Già, immagino che sia così”, risponde lei, senza alcun tono di rimprovero nei propri confronti. La scena seguente in cui lei lo caccia a calci dalla stanza del Chelsea Hotel dove lui si è presentato senza avvertire e scompare istantaneamente è una vera meraviglia. 

Questo distacco lascia una sorta di vuoto dove dovrebbe collocarsi il centro emotivo della sceneggiatura di Mangold e Jay Cocks. Realizzare un film su un argomento enigmatico è intrinsecamente una sfida e gli sceneggiatori meritano un plauso speciale per essersi rifiutati di risolvere il mistero Bob Dylan, anche se questo rischia di farli apparire privi di curiosità. 

Dylan è un giovane uomo arrabbiato che indossa la sua celebrità improvvisa con qualche difficoltà. “Mi ha colto di sorpresa, mi ha fatto a pezzi” scrive Bob in una lettera a Johnny. Il film perde vigore e diventa leggermente ripetitivo nella sua parte centrale, quando quello scenario di adulazione e scontrosa resistenza si ripete più e più volte, con Bob che si aggira per il Village su una moto, nascondendosi dietro a un paio di occhiali da sole anche di notte e allontanandosi di gran fretta non appena viene avvistato dai fan entusiasti. 

Tutto questo fa sembrare doppiamente improprio il titolo del film. Da una parte Bob è un perfetto sconosciuto soltanto per un breve periodo, dopo essere approdato a New York City con la custodia di una chitarra in mano e uno zaino sulle spalle. Questo lascia altre due ore nelle quali continua a essere non conoscibile completamente, anche se dalla performance di Chalamet carisma e talento emanano a ondate. 

È difficile sapere in che modo reagirà al film con un protagonista così distaccato un pubblico che non sia già coinvolto nella musica di Dylan e disposto quindi ad accettare la sua natura introversa come parte integrante del pacchetto “genio difficile”.  

Questo è un dramma nel quale buona parte del conflitto resta interiore, rinchiuso nella cassaforte di un uomo profondamente riservato. La sceneggiatura è basata sul libro di Elijah Wald Dylan Goes Electric! Questo significa che lo scontro culturale con gli organizzatori del Newport Folk Festival, tra cui Seeger, allorché Bob ignora il loro desiderio di continuare a suonare le chitarre acustiche sul palcoscenico nel 1965, potrebbe sembrare il motivo di conflitto principale. In verità subentra così avanti nella narrazione da essere quasi una coda, esplorata troppo frettolosamente per dare molto peso a un film che procede lentamente. La carica emotiva si scatena più facilmente con la musica, in particolare quando si collega ed esegue “Maggie’s Farm” e “Like a Rolling Stone” mentre nella ressa del pubblico folk di Newport scoppiano risse. 

Per quanto Chalamet sia magnetico nella sua recitazione, buona parte di quello che veniamo a sapere di Dylan arriva dalla sua mancanza di responsabilità nei confronti di due donne notevoli che cercano di stargli vicino malgrado lui faccia poco per meritarle. 

Questo vale per Joan, ma ancor più per Sylvie Russo, ottimamente interpretata da Elle Fanning con la tremula fragilità di una donna che sa fin dall’inizio che si ritroverà con il cuore spezzato. Anche quando vive con lui, Sylvie esprime tutta la sua frustrazione perché non conosce affatto Bob, perché lui non le dice niente della sua vita prima di arrivare a New York. 

Basata sull’attivista e artista Suze Rotolo, Sylvie è una combattente per la libertà, quando si incontrano, coinvolta nel movimento per i diritti civili e le sue convinzioni politiche accendono quell’aspetto della sua composizione di canzoni. 

Fino a quel punto, Bob è ancora imprigionato nella registrazione di canzoni folk tradizionali che non si vendono per un’etichetta poco interessata al suo materiale originale. Con Sylvie però qualcosa si sblocca e ha inizio un periodo di creatività meravigliosa che gli fa comporre brani classici — “Masters of War”, “A Hard Rain’s a-Gonna Fall”, “The Times They Are a-Changin’” — che lo renderanno il tedoforo di un’intera generazione. 

In A Complete Unknown non è chiaro se vi sia qualche ammissione dell’influenza di Suze/Sylvia su Joan. I sentimenti confusi di Bob circa la loro relazione in quel periodo possono essere evinti forse dal divario tra il sentimento malinconico romantico di “Girl From the North Country” e il commiato impenitente di “It Ain’t Me Babe” o ancora il benservito senza rimorsi di  Don’t Think Twice, It’s Alright”. Tuttavia, la compassione dei cineasti per Sylvie nella scena finale, interpretata da Fanning con una trasparenza emotiva sconvolgente, riequilibra un po’ le cose. 

C’è della tenerezza anche nelle visite di Bob al suo idolo rivoluzionario Guthrie (Scoot McNairy), ricoverato dal 1961 con la malattia di Huntington e non in grado di comunicare. In una delle scene più commoventi, Woody fa capire che gli piacerebbe ascoltare qualcosa dall’aspirante giovane cantante e un timido sorriso di piacere illumina il suo viso emaciato quando Bob si lascia andare nel sincero tributo di “Song for Woody”.

Durante una scena altrettanto toccante, più avanti, interpreta per Guthrie “Blowin’ in the Wind”. Verso la fine del film, poi, canta il brano di Guthrie “So Long, It’s Been Good to Know Yuh”, che funge da commiato nei confronti del suo amico sofferente e da rinuncia alle sue radici folk. 

Quella rottura definitiva con il suo passato musicale è implicita anche quando Bob chiude la sua esibizione di sfida di Newport con una performance acustica di “It’s All Over Now, Baby Blue”.

Non sono pochi i film che hanno indagato la musica di Dylan e il suo difficile rapporto con la celebrità. Tra di essi vi sono documentari come Don’t Look Back di D.A. Pennebaker; No Direction Home di Martin Scorsese e l’ibrida docufiction Rolling Thunder Revue; l’astratta autoriflessione dello stesso Dylan,  Renaldo and Clara; o il multiritratto sperimentale di Todd Haynes I’m Not There. Non stupisce che neanche un vero e proprio biopic, come molti altri film prima di questo, lasci il mistero intatto. 

A Complete Unknown riesce con successo, però, a tuffarsi nella musica e negli ambienti dalla quale essa nacque. Il panorama folk del Village non è meno vivo e pulsante di quanto risulta nel romanzato Inside Llewyn Davis dei fratelli Cohen, dove verso la fine si racconta una performance di Dylan. I locali nei seminterrati scarsamente illuminati, le caffetterie, i negozi di dischi e i ritrovi degli studenti in MacDougal Street o nei dintorni – amorevolmente ricostruiti a Jersey City – pullulano della vitalità della cultura giovanile  che chiede spazio e preme per cambiamenti a un ritmo più veloce di quello che l’epoca Eisenhower aveva permesso. Quello spirito neo-bohemiano di progressismo trovò la sua voce nella musica folk. 

Girando in digitale con obiettivi anamorfici vintage, Phedon Papamichael direttore della fotografia che lavora da tempo con Mangold, coglie le texture, la luce e i colori Kodachrome dell’epoca. Il lavoro del fotografo della Columbia Records Don Hunstein ha influito sull’intero film, e vi sono scene in cui la sua iconica foto di copertina per The Freewheelin’ Bob Dylan potrebbe prendere vita in modo plausibile. 

I set dello scenografo François Audouy sono pieni di dettagli multistrato di un quartiere hipster prima della gentrificazione, soprattutto il disordinato appartamento di Dylan sulla Quarta Strada e, un po’ più in centro, la camera boho-chic di Baez al Chelsea Hotel. Nella ricostruzione dello studio della Columbia dove Dylan registrò molte delle canzoni che lo definirono, c’è anche un senso evocativo della storia, le scene del festival all’aperto sono luoghi di ritrovo vibranti, e poco che separa gli artisti dal pubblico, diversamente dai commercializzati festival Coachella dei nostri tempi. I costumi di Arianne Phillips sono un contributo significativo all’autenticità del periodo e non attirano mai l’attenzione in modo eccessivo e kitsch. 

A prescindere da quali siano le pecche della sceneggiatura in termini di struttura, l’intensità della trama e un protagonista alquanto opaco, A Complete Unknown offre allo spettatore ricompense nelle sue performance vissute e nelle esilaranti sequenze musicali che lo mandano avanti. Per molti spettatori che provano affetto per la musica di Dylan e quel periodo in generale ciò è sufficiente. 

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