È un dramma che ha, a tratti, l’aria lieve di una commedia. Parla della vita e della morte: della morte come approdo inevitabile, della vita da riscoprire in ogni momento. E parla della scelta di quando morire.
La stanza accanto di Pedro Almodovar, uscito ieri nelle sale italiane, ha già vinto il Leone d’oro a Venezia, all’ultima Mostra del cinema, ed è candidato a 4 Efa, gli Oscar europei. È il primo film in lingua inglese per il regista spagnolo. È un dramma da camera, si potrebbe dire, tutto chiuso negli spazi di una bellissima villa: quella che la protagonista Tilda Swinton ha deciso per passare gli ultimi giorni, lei malata terminale di cancro, che ha da qualche parte, in qualche cassetto, la pillola giusta, comprata nel dark web, per porre fine ai suoi giorni. E per gli ultimi giorni, ha scelto un’amica come compagna. Per compiere l’ultima disobbedienza.
È un film lucido, questo di Almodovar, diverso dai mélo barocchi, ipercolorati, pop che altre volte il regista spagnolo ci ha consegnato. È un film asciutto, quasi minimale. Che racconta l’atto di morire come una quieta, consapevole opera d’arte. Tilda Swinton va incontro alla morte come un attore va incontro al palcoscenico, allo spettacolo finale. Fra geometrie architettoniche della casa, colori primari almodovariani, citazioni pittoriche e fotografiche – dal dipinto Gente al sole di Edward Hopper al catalogo di una mostra sulla fotografa Diane Arbus – e anche cinematografiche, come il riferimento a Persona di Bergman, il film di Almodovar è un canto alla vita, non alla morte. È un film, paradossalmente, luminoso.
Tratto dal romanzo Attraverso la vita di Sigrid Nunez, è un film intriso di complicità, è un haiku sull’amicizia, su una relazione matura, consapevole, densa di rispetto fra due donne adulte. Splendidamente messo in scena, con accortezza e misura, e splendidamente recitato, senza mai un’espressione eccessiva, mai un increspare delle labbra di troppo. Non era facile. Ma se ci sono tre fuoriclasse, questo è ciò che può accadere. Le donne di Almodovar non sono più sull’orlo di una crisi di nervi. Hanno uno sguardo diverso. Affrontano il dolore e la gloria della vita, lucidamente, e si confrontano con lo scomodissimo pensiero della vecchiaia e della fine.
È cambiato Almodovar, oggi settantacinquenne: “Diventando vecchio, ho iniziato a fare esperienza del dolore, qualcosa che non avevo provato in giovinezza”, ha dichiarato. “Quando stavamo girando il film, eravamo in quattro: Tilda, Julianne, la morte ed io”.
Si confronta con la propria morte il personaggio di Tilda Swinton, si confronta con la morte Almodovar. Senza pretendere di capirla, o di accettarla: “Non riesco ancora ad accettare che un essere vivo debba morire”, ha detto Almodovar all’indomani della proiezione a Venezia. E poco dopo la cerimonia di premiazione, ancora con il Leone d’oro fra le mani, diceva: “Difendo l’eutanasia, deve diventare un diritto. I governi devono legiferare, dare l’opportunità alle persone di prendere una decisione loro, in momenti così difficili”.
Nel film, il personaggio interpretato da Tilda Swinton, ex reporter di guerra, saputo di avere un cancro allo stadio terminale, decide di porre fine alla propria vita. E chiama un’amica non vista da tempo, il personaggio interpretato da Julianne Moore, a vivere con lei quell’ultimo sprazzo di tempo, quell’ultimo raggio di sole, quell’ultimo spicchio di vita. Non è un film sulla morte, è un film sulla vita, La stanza accanto.
All’incontro stampa, dopo la proiezione del film a Venezia, Tilda Swinton aveva parlato, lucidissima e tagliente. “A un certo punto la morte arriva. Sono sempre stata vicina agli amici che la hanno dovuta affrontare”, ha detto. E il pensiero va al regista Derek Jarman, con cui Tilda Swinton ha iniziato la carriera. Jarman, frammento luminoso della British Renaissance cinematografica degli anni ’80, vittima dell’Aids, scomparso nel 1994. Ha detto Swinton: “L’idea dell’eutanasia, il fatto che uno possa prendere la propria vita in mano la vedo come un trionfo”.
A Venezia, il film è stato accolto da una standing ovation di oltre dieci minuti. Per il regista spagnolo, già vincitore di due Oscar – uno per il miglior film internazionale con Tutto su mia madre, uno per la sceneggiatura con Parla con lei – e del premio per la miglior regia a Cannes, è forse il film più maturo, quello in cui guarda serenamente, e dritto negli occhi, quella che Battiato chiamava “la porta dello spavento supremo”.
This content was entirely crafted by Human Nature THR-Roma
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma