
Passionale, emotivo, istintivo. Vincent Lindon è uno di quegli attori che bruciano vivendo con intensità il momento, come atleti. Era il vigile del fuoco macho, muscolare e tenerissimo, che ama la figlia inattesa e impensabile in Titane di Julia Ducourneau, Palma d’oro a Cannes. Era la guardia giurata ai grandi magazzini, costretto a denunciare poveri cristi come lui, per tenersi stretto il posto, in La legge del mercato¸ il film che nel 2015 gli valse il premio come miglior attore a Cannes.
L’altro premio più prestigioso e più importante, per un attore, la Coppa Volpi a Venezia, l’ha ricevuta lo scorso settembre per Noi e loro di Delphine e Muriel Coulin. Quando è salito sul palco, sembrava impazzito di felicità, con le parole che correvano tumultuose, insieme alle lacrime.
Ha vissuto tante vite, Vincent Lindon. L’infanzia borghese in Normandia, la famiglia che si sfascia presto, trauma infantile mai più ricomposto. Il viaggio a vent’anni, negli Usa, per imparare l’inglese, ma soprattutto il cinema. Gli amori che fanno notizia: quello con la figlia di Jacques Chirac, quello con Carolina di Monaco, la relazione con Chiara Mastroianni. Ma, sempre, una timidezza ruvida, il cui segno è quella balbuzie che scompare solo, come per miracolo, quando il regista grida “Azione!”.
Lo abbiamo incontrato per l’anteprima nazionale Noi e loro (Jouer avec le feu), in uscita giovedì 6 febbraio nelle sale italiane.
In Noi e loro – Jouer avec le feu – lei interpreta un padre alle prese con un ragazzo che vive una deriva fascista e razzista. Come è stato affrontare questo personaggio?
Per me, l’importante era raccontare l’aspetto umano di questa storia. Non mi interessa tanto la Storia con la maiuscola, quanto la storia con la minuscola: la storia d’amore fra un padre e un figlio. Certo, capisco benissimo che il tema sotteso è la radicalizzazione dei giovani, che si sentono attratti dall’estremismo. Ma io non sono un politologo: vivere il personaggio è la mia maniera di fare politica
Non ama i film che lanciano messaggi, sembra di capire…
No. Non voglio suggerire niente allo spettatore: è lo spettatore che deve provare emozioni. Che deve sentire la gioia, il furore, la collera, e uscire dal film con pensieri suoi. Io non devo indicargli niente, e non mi sento in grado di ‘spiegare’ i film. È tutto lì, nelle immagini, nei dialoghi, nella recitazione. Spiegare qualcosa di un film sarebbe un pleonasmo.
A Venezia ha vinto, per questo film, la coppa Volpi. La sua reazione, sul palco, è stata travolgente. Sette minuti di monologo denso di emozione.
Perché io, veramente, non me lo aspettavo. Non leggo le critiche, non leggo i giornali, non sapevo di essere considerato per un premio. Quando il mio nome è stato pronunciato, non potevo trattenere la gioia. Un premio a Venezia è un motivo di orgoglio immenso.
Adesso a che cosa sta lavorando?
Sarò Jean Valjean nell’adattamento che Fred Cavayé ha tratto dai Miserabili di Victor Hugo. E mi ha chiamato Ruben Őstlund, il regista del Triangolo della tristezza e di Force majeure, per il suo prossimo film, The Enterteinment System is Down. Nel cast ci sono Kirsten Dunst, Daniel Brühl, Keanu Reeves. Racconta le vicende di un gruppo di passeggeri su un volo a lunga percorrenza, fra l’Inghilterra e l’Australia, quando i sistemi di intrattenimento vanno in tilt durante il volo. E la gente, rimasta sola con se stessa, senza giochi, senza social, perde la testa.
Lei non ha social, vero?
No. Non ho Facebook, non ho Instagram, e certo non ho Tik tok. Non me ne frega niente di sapere che cosa ha mangiato il tuo gatto, o dove eri tre ore fa. E non voglio che tu ti interessi a cosa ha mangiato il mio, di gatti. Sappiamo tutto di tutti, e quando ci incontriamo non c’è più nulla da dirsi.
Ha, invece, un quadernetto nero che riempie di note, vero?
Ma lei come lo sa? Sì, ho sempre con me un quadernetto nero come questo…”.
E tira fuori un taccuino, con mille note segnate con pennarelli di colori differenti.
Ha un metodo, per affrontare i personaggi?
Se ce l’ho, non è un metodo intellettuale. Tutto deve passare per il mio istinto, e per il corpo. Devo diventare il personaggio, devo viverlo, con tutto me stesso. Non so ancora, dopo tanti anni, come ‘si fa’ a fare l’attore. Per fortuna! Perché, se lo sapessi, diventerebbe solo una questione di tecnica. E io non voglio che sia una questione di tecnica, ma di vita.
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