Zodiac Killer Project: un’intelligente decostruzione dei documentari true crime tra satira e approfondimento del genere

Il critico e regista britannico Charlie Shackleton (Beyond Clueless) riapre il famigerato caso dell'assassino che ha terrorizzato la Bay Area alla fine degli anni '60.

Il documentario true crime si è talmente diffuso nell’era dello streaming che è probabile che appaia nel tuo algoritmo anche se non ne hai mai guardato uno. 

Trasformando i macabri dettagli di sequestri, culti mortali, omicidi di bambini irrisolti e clown assassini in squallidi programmi serializzati; questi riempitivi di contenuti da quattro soldi sono, non diversamente da alcuni tipi di oppioidi sintetici, economici da realizzare e altamente avvincenti. 

Nel suo intelligente exposé di non-fiction, Zodiac Killer Project, il critico diventato regista britannico Charlie Shackleton arriva al cuore di ciò che rende questi documentari così di successo sia a livello psicologico che schematico. Decostruisce il genere, ma riesce anche ad approfondirlo, creando il suo avvincente lungometraggio true crime e dimostrando al contempo come vengono creati tali lungometraggi. 

È un difficile gioco di equilibrio che il regista, le cui precedenti opere hanno analizzato i film per adolescenti (Beyond Clueless) e i film horror (Fear Itself), riesce a realizzare con un mix di serietà e sfrontatezza. 

Narrando l’azione con una voce critica e sorniona, Shackleton dimostra di ammirare abbastanza il true crime da fornire il suo serio contributo al pantheon. Ma rivela anche quanto possano essere manipolatori questi documentari, la maggior parte dei quali si affida allo stesso manuale per tenere gli spettatori incollati ai loro piccoli schermi.

Il progetto si svolge come un tentativo fallito di affrontare uno dei misteri irrisolti più famigerati d’America, i cui dettagli sono stati raccontati nel superbo thriller del 2007 di David Fincher, Zodiac. 

Quel film era stato adattato dal libro bestseller del 1986 di Robert Graysmith, mentre Shackleton spiega come ha cercato, e alla fine non è riuscito, a ottenere i diritti di un resoconto meno conosciuto pubblicato nel 2012 dall’ex agente della pattuglia autostradale californiana Lyndon Lafferty. 

In quel libro, intitolato The Zodiac Killer Cover-Up, l’ex poliziotto afferma di aver incrociato un uomo misterioso – a cui è stato dato lo pseudonimo di George Russell Tucker – in un’area di sosta nel 1971. 

Qualcosa in lui ha fatto credere a Lafferty che potesse essere il killer dello Zodiaco, e ciò che ne è seguito è stata un’indagine durata anni e che ha coinvolto ogni sorta di colpi di scena, svolte e capovolgimenti incredibili. 

In altre parole, materiale perfetto per una storia true crime. 

Ma invece di darci l’ennesima variazione sul genere, Shackleton fa un passo indietro per spiegare come funziona dietro le quinte, citando altri esempi – The Jinx, Making a Murderer, Conversations with a Killer: The John Wayne Gacy Tapes – mentre ricostruisce la sua versione del puzzle dello Zodiaco. 

Seguendo tutte le linee guida necessarie, struttura il suo lungometraggio documentario in tre atti, ciascuno dei quali termina con una grande scoperta che mantiene vivo il mistero e ci lascia con la voglia di saperne di più. “Quindi questa è buona materia drammatica, giusto?”, scherza il regista all’inizio, mentre imita le tecniche utilizzate da tanti altri progetti per tenerci agganciati. 

Queste includono inquietanti inserti di vecchie foto di famiglia e filmati d’archivio, primi piani di registratori e flash di fotocamere, interviste a esperti in cui tutti ripetono le stesse frasi fatte e ricostruzioni con “bactor” (attori visti solo di spalle) che ci danno un’idea di ciò che è accaduto senza mostrarlo del tutto. 

Poiché la maggior parte dei documentari true crime non ha prove filmate dei crimini stessi, è stata inventata un’intera estetica per avvicinare il più possibile gli spettatori agli eventi reali – per farci accettare la finzione come realtà.

Shackleton utilizza gli stessi metodi, ma spiegando come veniamo manipolati mentre ci manipola allo stesso tempo. 

Non possiamo fare a meno di appassionarci al racconto di Lafferty, pieno di suspense, di come ha rintracciato l’inafferrabile Tucker dopo il loro primo incontro casuale, lo ha pedinato per mesi alle riunioni degli Alcolisti Anonimi con l’aiuto di altri poliziotti a caccia di serial killer, ha cercato, senza successo, di ottenere le sue impronte digitali su una gigantesca boccia per pesci e infine lo ha affrontato faccia a faccia in una resa dei conti al cardiopalma. 

La narrazione del poliziotto è così “incredibilmente cinematografica” che fa chiedere a Shackleton ad alta voce se il libro sia stato scritto “sullo stampo di un documentario true crime”. 

Dato l’enorme successo del genere prima in edizione tascabile, e ora su streaming e podcast, ci si comincia a chiedere quanta verità ci sia realmente nel true crime, e se i confini etici vengano spesso superati per far posto a un intrattenimento compulsivo. 

Eppure, per quanto Shackleton continui a criticare ciò che c’è di sbagliato nel genere, riesce anche a farlo molto bene a modo suo. 

Al di là di tutte le sfavillanti riprese in stile Netflix che inserisce tra grandi virgolette, la maggior parte del suo film è costituita da riprese di seconda unità che mostrano luoghi vuoti della California del Nord – strade, case, autostrade e vetrine di negozi – dove il poliziotto e l’assassino una volta si nascondevano, e che col senno di poi appaiono come zone di caccia abbandonate per un caso che non è mai stato risolto. 

Non ci sono persone in queste immagini, nessun esperto che spieghi le cose o attori che ricostruiscano gli eventi, e la loro assenza lascia un vuoto in cui siamo costretti a immaginare come si è svolta la storia. 

A differenza della stragrande maggioranza dei documentari true crime, Zodiac Killer Project permette coraggiosamente allo spettatore di colmare le lacune da solo e di immaginare cosa potrebbe essere successo, il che è forse il miglior sostituto della realtà.