Un Ascolto / Sguardo ad Alaska Baby, il Nuovo Album di Cesare Cremonini

E’ in uscita l’ottavo album di Cesare Cremonini, un lavoro composito con molte facce musicali, che meriterebbe approfondimenti ulteriori. Proviamo in questo breve articolo ad osservarne alcuni lati, girando intorno alle sfere “boreali” che sono sospese nell’immagine di copertina e coglierne alcuni colori nel suono e nelle parole.

L’album si apre con la traccia che dà il nome all’intero disco.

SUONI E IMMAGINI: FOTOGRAFIE/FONOGRAFIE  Nel brano Alaska baby il viaggio è raccontato per “fotografie”, per immagini immediate, che si alternano a immagini di emozioni interiori. Questo dialogo fra esterno e interno che troviamo nel testo è incastonato nella forma della canzone, nel dialogo fra strofe e refrain. Le fotografie dei luoghi e degli spostamenti (“Route 66, Cap d’Antibes, Miami Beach e l’autocitazione New York, New York) sono accompagnate nella musica in modo semplice da basso e batteria.

L’espressione delle emozioni arriva invece con cori, fino a momenti più intensi guidati dal pianoforte e dalla chitarra nel refrain (“e vorrei addormentarmi così / sulla pelle tua senza gravità / e vorrei lasciarti entrare in tutti i pensieri miei / è solo tua, la mia anima) per arrivare a una dimensione più orchestrale con i fiati (“Come la luce dell’Alaska Baby”), fiati che avevano introdotto in modo sontuoso il pezzo insieme alla chitarra elettrica.

Facendo le debite distinzioni, l’idea di queste corrispondenze fra senso del testo e forma della musica che segue azioni e sentimenti si rifà un po’ all’opera: il recitativo che descrive l’azione, raccontata o vissuta, è accompagnato in modo semplice, spesso da uno strumento a tastiera; le arie, che sono l’espressione delle emozioni e dei sentimenti, sono sostenute da un organico orchestrale ben più ricco.

In Ora che non ho più te, come in Alaska Baby il racconto è per istantanee (“mi accorgo adesso che te ne vai”), in altri brani le immagini mentali si mettono in movimento, diventano scene narrate, come in Ragazze facili (“sono riuscito a farti perdere il treno, tu con l’anima in pena io che rido e che impreco”). Come sempre, Cremonini riesce a creare racconti, storie (esterne e interne), immagini cinetiche, spazi, pur rimanendo in strutture tipiche della forma canzone (strofe, ponti, ritornelli). Un esempio di “cinema per le orecchie” che possiamo fare è già di 16 anni fa con il brano Le sei e ventisei in cui Cremonini inscrive il racconto lineare della storia (anche riportato nel videoclip) in una struttura caratteristica della musica pop. Sarà stimolante osservare come Cremonini ha trasferito questi suoi talenti audio-visivi nella costruzione del documentario Alaska Baby, prossimamente in uscita.

Poster del documentario “Alaska Baby” di Cesare Cremonini

LA LUCE E IL BUIO

Il brano Alaska Baby contiene anche un tema che ritroviamo in diversi pezzi dell’album: La Luce e il Buio.

Luce e Buio sono intesi in alcune frasi in senso fisico, come in Ora che non ho più te (”Spegni le luci della città / così che il cielo si illumina”) o in Dark Room (“Spegne la luce, non ti vedo più”).

In altri casi Luce e Buio sono immagini metaforiche che ci fanno pensare alle parti luminose e oscure di ognuno di noi, come in Aurore Boreali (“E noi fuori, fuori al buio…E noi fuori, pieni di luce…Io non lo so quand’è che ho perso, tutta la luce che avevo dentro…e noi fuori, tra luci e buio”). In Aurore Boreali, cantato in duetto con Elisa, i due aspetti di Luce e Buio, fisico e metaforico, si fondono in un tutt’uno, come le loro voci (“Forse non sarà la luce primordiale delle stelle nella notte o il fuoco acceso accanto a me ma il tuo respiro brucia ogni respiro, come ghiaccio sulla pelle e fiamme dentro me”).

Interessante nella scaletta dell’album anche l’opposizione di un pezzo musicalmente scuro come Dark Room a cui è immediatamente opposto il brano San Luca (“Proprio oggi che era uscito il sole…guardiamo la Madonna di San Luca quando brilla nel buio”) che si apre con una fascia sonora calma in La maggiore. In Dark Room c’è un assolo di chitarra che rimanda a quello di While My Guitar Gently Weeps di George Harrison. Anche in My Sweet Lord i glissati della chitarra diventarono famosissimi, e guardando il video di quel singolo si vede come sia tutto anche lì giocato sulla luce e il buio in termini simbolici, in questo caso spirituali, con persone che si muovono con delle torce per poter vedere nel buio: “I really wanna see you, Lord” (“Desidero davvero vederti, Signore”), mentre Cremonini in Dark Room vuole esplorare un aspetto opposto, in cui la luce si spegne.

Il buio però non è inteso da Cremonini solo in senso negativo, ma può rappresentare anche un elemento che aiuta a sognare e creare. Nella canzone Un’alba rosa c’è un’immagine di grande intensità: il buio della notte è ricercato, fino al punto di mettersi gli occhiali da sole, per poter trovare le parole (“sotto un cielo di stelle / io con gli occhiali da sole…”). E qui le parole sono descritte come esseri viventi (“Alle parole d’amore / piace uscire di notte / quando non le vedi”). La notte, dunque, e il buio come momento e condizione per far vivere anche le cose che non consideriamo vive, come le parole e la musica. Possiamo immaginare un rimando all’iconica frase del film Il Cielo sopra Berlino di Wim Wenders (“Come devo vivere, come devo pensare? All’interno degli occhi chiusi chiudere ancora gli occhi, allora anche le pietre sono vive.”). E allora le parole e la musica possono essere esseri viventi, energia resa udibile? Puccini amava dire “Non cercate ostinatamente una melodia, ma fate il vuoto nel vostro pensiero e aspettate che essa venga a voi”. Ecco quindi che Cremonini coglie questo aspetto, fare il vuoto, cogliere la notte in cui la musica e le parole possano svelarsi, essere composte e poi vivere in modi diversi dentro ogni persona che le ascolta.

Cover di “Alaska Baby” album di Cesare Cremonini

DUE PAROLE SUGLI ULTIMI DUE PEZZI

In questo album gli arrangiamenti sono molto vari: la maestosa apertura di Alaska Baby (chissà se sarà quella l’apertura dei prossimi concerti?) fa pensare a una volontà di riempire lo spazio sonoro più con gli strumenti che con la voce, ma alla fine nel pezzo Una poesia, la sezione ritmica si tira indietro e la voce torna in primo piano, circondata da chitarre e cori quasi beatlesiani.

L’ultimo brano, Acrobati, chiude con un testo diverso dagli altri, riprendendo il tema della migrazione, che Cremonini anticipò 6 anni fa in modo leggero con la canzone Kashmir-Kashmir. Qui non scrive più con il “tu”, ma con il “noi” in una sorta di identificazione (“Ma la voglia di rischiare / intramontabile per noi / siamo acrobati / sulle rovine… siamo acrobati /oltre il confine…). L’album quindi si conclude con una sensazione di voler andare oltre le parole, per ciò che è impossibile da descrivere (“Lasciami tentare

/ tutto quello che ho da dire / Non importa più trovare le parole… Noi sospesi / senza scarpe ai piedi / Fogli bianchi appesi senza età”). Anche nella musica il pezzo è molto più intenso di Kashmir-Kashmir; qui la sezione ritmica è assente all’inizio, ma l’arrangiamento si arricchisce progressivamente di colori e di ritmi con archi, batteria, tastiere, cori, chitarra elettrica, per poi sottrarre tutto e terminare con il pianoforte solo e la voce, e in questo ascolto finale mi è tornata in mente l’immagine di Cremonini che canta seduto al suo strumento, come lo vidi nel giugno 2015 in un concerto di molti anni fa al Palazzo dei Congressi di Roma.

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